Quali diritti per i cittadini europei: la complessa definizione dei contenuti della cittadinanza europea tra interventi della Corte di giustizia e ruolo dei giudici nazionali

1. In alcune recenti sentenze della Corte di giustizia è possibile cogliere la traccia di una rinnovata riflessione sul significato della cittadinanza europea, che – nonostante forse qualche troppo prudente battuta d’arresto – sembra destinata a riempire di significato l’affermazione formulata nella decisione Grzelczyk del 2001, e costantemente ripetuta nella giurisprudenza successiva, secondo cui «lo status di cittadino dell’Unione è destinato ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri» (sent. Corte giust., 20-9-2001, causa C-184/99, p.to 31, in Racc. I-6193).

Lasciando da parte la pur interessante decisione Rottmann del 2010 (sent. Corte giust., 2-3-2010 causa C-135/09, non ancora pubblicata nella Raccolta e reperibile nel sito della Corte all’indirizzo internet www.curia.europa.eu), che attiene ai limiti “europei” che incontrano gli Stati nella disciplina dell’attribuzione e della revoca della cittadinanza, il punto di partenza dell’analisi può essere costituito dalla decisione Zambrano dell’8 marzo 2011, causa C-34/09.


Com’è noto, il caso riguarda due bambini di origine colombiana, che essendo nati in Belgio avevano acquistato la cittadinanza di tale Paese (non avendo i genitori chiesto la registrazione prevista dalla legislazione della Colombia) e, di conseguenza, quella europea.

Sulla base della cittadinanza europea dei propri figli, il sig. Zambrano aveva domandato un titolo di soggiorno e un permesso di lavoro alle autorità belghe: in difetto, infatti, sarebbe stato costretto ad allontanarsi dall’Europa e figli in tenera età avrebbero dovuto seguirlo.

La peculiarità della decisione dipende dal fatto che la Corte di giustizia, nel pronunciarsi, ha preso come esclusivo riferimento l’art. 20 del TFUE relativo alla cittadinanza europea, considerato che – come contestato dai Governi intervenuti – i bambini non si erano mai mossi dal Belgio e non potevano dunque far valere i diritti previsti dalla direttiva 2004/38 relativamente all’accompagnamento o al ricongiungimento dei propri familiari (dir. 29-4-2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione europea e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri).

Sulla base dell’affermazione prima ricordata, relativa alla portata dello status di cittadino europeo, i giudici di Lussemburgo hanno ritenuto che «l’art. 20 TFUE osta a provvedimenti nazionali che abbiano l’effetto di privare i cittadini dell’Unione del godimento reale ed effettivo dei diritti attribuiti dal loro status di cittadini dell’Unione» (p.to 42).  Nella particolare situazione oggetto del giudizio, il rigetto delle richieste del genitore avrebbe avuto l’effetto di costringere anche i figli a lasciare il territorio dell’Unione, mettendoli quindi nell’impossibilità di godere dei diritti connessi alla cittadinanza europea. In questo modo viene individuato – seppur indirettamente – uno specifico contenuto della cittadinanza europea, cioè la garanzia di non essere costretti ad abbandonare il territorio dell’Unione. Si tratta di una formula che richiama la definizione tipica della cittadinanza nazionale come diritto di entrare ed uscire liberamente dal territorio dello Stato e di non essere espulsi. Sembra, così, delinearsi un profilo forte della cittadinanza europea, che può essere fatto valere anche nei confronti dello Stato membro di appartenenza. E’ interessante la considerazione svolta, commentando questa decisione, da Loïc Azoulai secondo cui la formula “territorio dell’Unione” «is not only the metaphor which designates the sum of the physical territories of the member states. It is a normative reference which refers to a new common space, a space of distribution of rights and common values» (in A comment on the Ruiz Zambrano judgment: a genuine European integration, reperibile nel sito dell’European Union Democracy Observatory on Citizenship (EUDO), all’indirizzo internet http://eudo-citizenship.eu EUDO).

2. Nelle decisioni successive, tuttavia, la Corte ha cercato di precisare questa affermazione, circoscrivendone la portata. Si conferma in questo modo lo sviluppo incrementale della sua giurisprudenza, dove le pur significative aperture tese a favorire il processo di integrazione europea sono temperate da immediati e successivi pronunciamenti caratterizzati da maggiore prudenza.

La prima occasione è costituita dalla sentenza McCarthy del 5 maggio 2011, causa C-434/09, dove la Corte si trova ad affrontare la peculiare situazione di una donna di nazionalità britannica che dopo il matrimonio nel 2002 richiede e ottiene, avendone diritto, anche la cittadinanza irlandese, al fine di far valere i diritti connessi all’esercizio della libertà di circolazione e soggiorno. La sig. McCarthy, in realtà, non aveva mai lasciato il territorio del Regno Unito, Stato di cui è cittadina, e il richiamo alla normativa europea era funzionale ad assicurare il diritto di residenza al coniuge, di nazionalità giamaicana, che secondo la legislazione britannica sull’immigrazione avrebbe dovuto lasciare il Paese. La Corte, sulla base di «un’interpretazione letterale, teleologica e sistematica» esclude anche in questo caso l’applicabilità della direttiva 2004/38, «che si occupa delle modalità di esercizio del diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri [e], non può essere destinata a trovare applicazione ad un cittadino dell’Unione che goda di un diritto di soggiorno incondizionato per il fatto che soggiorna nello Stato membro di cui ha la cittadinanza» (p.ti 31 e 34) e questo a prescindere, aggiunge la Corte, dal fatto che possieda anche la cittadinanza di un altro Paese membro.

I giudici europei, tuttavia, non si fermano qui, ma – seguendo l’impostazione emersa nella causa Zambrano – prendono direttamente in considerazione le norme del Trattato sul funzionamento dell’Unione ed in particolare l’art. 20, letto in questo caso in connessione con l’art. 21. Dallo status di cittadino europeo, secondo l’art. 20, conseguono una serie di diritti che possono essere fatti valere anche nei confronti del proprio Paese di appartenenza, ivi compreso il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri conferito dall’art. 21. L’art. 20, in particolare, «osta a provvedimenti nazionali che abbiamo l’effetto di privare i cittadini dell’Unione del godimento reale ed effettivo del nucleo essenziale dei diritti conferiti dallo status suddetto» (p.to 47, che riprende la decisione Zambrano, p.to 42).

Nel caso di specie, però, la Corte non ritiene che si verifichi una simile eventualità. Nella sentenza si legge, infatti, che «la misura nazionale in questione [nell’odierna causa principale] non ha come conseguenza che la signora McCarthy si vedrà obbligata a lasciare il territorio dell’Unione», ma anzi quest’ultima, in quanto cittadina britannica, ha un diritto incondizionato a risiedere nel territorio del proprio Paese di appartenenza (p.to 50).

La decisione della Corte, dunque, riafferma la centralità della cittadinanza europea, che è destinata a divenire lo status fondamentale per i cittadini degli Stati membri, status che porta con sé un nucleo di diritti che i Paesi membri non possono ledere nel contenuto essenziale. Nello stesso tempo, però, sembra offrire un’interpretazione restrittiva del diritto per eccellenza – riconosciuto nel precedente Zambrano – e cioè del diritto a risiedere nel territorio dell’Unione. Se dal punto di vista formale è evidente che nessun cittadino di uno Stato membro può essere costretto a lasciare il proprio Paese di origine e di conseguenza il territorio dell’Unione; dal punto di vista sostanziale, però, l’impossibilità di garantire il diritto di soggiorno al proprio coniuge, cittadino di un Paese terzo, può sicuramente condizionale la libertà di scelta del cittadino europeo.

La soluzione accolta dalla Corte – forse condizionata dalle peculiarità della vicenda all’origine della controversia – sembra riproporre una lettura dei contenuti della cittadinanza europea incentrata sui diritti originariamente previsti dai Trattati, in primis la libertà di circolazione e soggiorno, senza che vengano valorizzate le potenzialità insite nelle riforme più recenti del diritto europeo, in particolare nella Carta dei diritti fondamentali, che gode oggi del medesimo valore dei Trattati istitutivi, dove trova riconoscimento – tra l’altro – il diritto alla tutela della vita familiare.

3. E’ evidente che le considerazioni da ultimo formulate presuppongono un cambiamento di prospettiva molto significativo nei rapporti tra i cittadini europei e l’Unione. Significherebbe ritornare ad un’impostazione fondata sul binomio classico del costituzionalismo moderno, e cioè sul legame inscindibile tra bill of rights e frame of government, quale era emersa con forza nella riflessione della dottrina al
l’inizio del 2000, nella fase di scrittura della Carta di Nizza prima e del Trattato costituzionale poi. Le condizioni che caratterizzano l’attuale stadio del processo di integrazione europea sono tuttavia profondamente diverse, anzi si può pensare che tale processo si sia arrestato se non addirittura che stia regredendo. In questo contesto, gli interventi della Corte di giustizia in materia di cittadinanza possono essere visti come il tentativo di arricchire progressivamente il ruolo dell’Unione, senza tuttavia mettere eccessivamente in discussione le prerogative degli Stati.

Da questo punto di vista, la decisione Dereci et al. del 15 novembre 2011, causa C-256/11, pur confermando la rigida impostazione emersa nel caso McCarthy, sembra tratteggiare una possibile via di sviluppo. Si tratta di un caso molto complesso, che riunisce cinque cause che interessano l’Austria. Lo schema di ragionamento è articolato, in quanto i promotori dei giudizi a livello nazionale sono cittadini di Paesi terzi che presentano tutti legami familiari con cittadini austriaci (rispettivamente coniugi, genitori, figli) e che non avrebbero diritto, sulla base della legislazione nazionale, a rimanere nel territorio austriaco. I familiari, cittadini austriaci, tra l’altro, non hanno mai esercitato la libertà di circolazione e di conseguenza non si possono avvalere dei diritti alla stessa connessi, come quello al ricongiungimento familiare, né dipendono dai ricorrenti per la propria sussistenza (p.to 22).

La Corte esclude anche in questo caso l’applicazione del diritto derivato – sia della direttiva 2004/38, in ragione del fatto che i cittadini austriaci interessati non avevano mai esercitato la libertà di circolazione, sia della direttiva 2003/86 (del 23-9-2003, relativa al ricongiungimento familiare), poiché concerne il diritto al ricongiungimento familiare di cui godono i cittadini di Paesi terzi legalmente soggiornanti e non, come sarebbe nel caso in oggetto, i cittadini dell’Unione – e prende come riferimento le norme primarie in materia di cittadinanza dell’Unione, in particolare l’art. 20 TFUE.

La possibilità per i cittadini dei Paesi terzi di rimanere nel territorio austriaco sarebbe connessa allo status di cittadini europei dei familiari, parte dunque di quel fascio di diritti che lo caratterizza. Anche in questo caso il criterio che si vorrebbe far valere è quello enucleato nella decisione Zambrano e cioè la garanzia, per i cittadini europei, del diritto di risiedere nel territorio dell’Unione, come condizione necessaria per «il godimento effettivo e sostanziale dei diritti attribuiti dallo status di cittadino dell’Unione» (p.to 40). Tuttavia la lettura che ne danno i giudici europei è ancora una volta particolarmente stringente, finalizzata a confermare – per così dire – l’eccezionalità della vicenda svoltasi in Belgio, legata alla tenera età dei cittadini interessati che senza i genitori non sarebbero potuti rimanere nel territorio dell’Unione europea. Può essere utile richiamare direttamente le parole della Corte secondo cui «questo criterio riveste [pertanto] un carattere molto particolare in quanto concerne l’ipotesi in cui, malgrado la circostanza che il diritto derivato relativo al diritto di soggiorno dei cittadini di Stati terzi non sia applicabile, un diritto di soggiorno non può essere negato, in via eccezionale, al cittadino di uno Stato terzo, familiare di un cittadino di uno Stato membro, a pena di trascurare l’efficacia pratica della cittadinanza dell’Unione di cui gode quest’ultimo» (p.to 67).

Tale ipotesi, secondo la Corte, non si verificherebbe necessariamente nei casi in esame, in quanto i cittadini austriaci interessati – tra cui, ad esempio, la moglie e i tre figli minorenni del sig. Dereci – non si troverebbero nella condizione di essere obbligati a lasciare il territorio dell’Unione. Esplicitando la posizione già assunta nella decisione McCarthy, la Corte conferma di non considerare i legami familiari come un fattore determinante nella scelta di lasciare il territorio dell’Unione, affermando che «[di conseguenza] la mera circostanza che possa apparire auspicabile al cittadino di uno Stato membro per ragioni economiche o per mantenere l’unità familiare nel territorio dell’Unione, che i suoi familiari, che non possiedono la cittadinanza di uno Stato membro, possano soggiornare con lui nel territorio dell’Unione, non basta di per sé a far ritenere che il cittadino dell’Unione sia costretto ad abbandonare il territorio dell’Unione qualora un tale diritto non gli venga concesso» (p.to 68).

4. Questa volta, però, le vicende familiari coinvolte sono più complesse ed impongono alla Corte una riflessione più ampia, i cui esiti – a mio parere – presentano profili di particolare interesse, per la comprensione non solo dei contenuti della cittadinanza europea, ma più in generale della tutela dei diritti fondamentali nel contesto dell’Unione. Una volta escluso che il diritto a soggiornare per i ricorrenti, cittadini di Paesi terzi, si possa fondare, alla luce del ragionamento appena ricordato, sulle norme dei Trattati in materia di cittadinanza (applicabili – ovviamente – ai familiari titolari della cittadinanza austriaca), i giudici europei si interrogano sulla possibilità di ricondurre tale diritto nell’ambito «del diritto relativo alla tutela della vita familiare» (p.to 69). Secondo la Corte, questa ipotesi si collocherebbe in un contesto diverso, quello cioè delle disposizioni relative alla tutela dei diritti fondamentali e della relativa applicabilità. Il riferimento è ovviamente all’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, ispirato all’art. 8 della Cedu, secondo cui «ogni individuo ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle sue comunicazioni».

Colpisce che la Corte nella sua argomentazione abbia ritenuto di mantenere separate le due prospettive di analisi, fondate l’una sulle norme del Trattato in materia di cittadinanza dell’Unione e l’altra sul diritto al rispetto della vita privata e familiare. Quest’ultimo – come la maggior parte dei diritti contenuti nella Carta – è affermato in termini generali, rispetto a tutte le persone, ma ciò non dovrebbe escludere la possibilità di utilizzarlo nel contesto della riflessione sui contenuti della cittadinanza europea. I diritti connessi allo status di cittadino europeo sarebbero dunque diversi dai diritti fondamentali che l’Unione ha riconosciuto con la scrittura della Carta di Nizza come espressione della propria identità (costituzionale)? Questa domanda – a mio parere – riveste oggi, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, un ruolo essenziale per comprendere il significato della formula utilizzata dalla Corte di giustizia secondo cui «lo status di cittadino dell’Unione è destinato ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri». Le sentenze McCarthy e Dereci et al., pur mettendo al centro la cittadinanza europea, sembrano ancora legate nella definizione dei suoi contenuti ai diritti espressamente riconosciuti nei Trattati e in particolare alla libertà di circolazione e soggiorno. Non solo, nel momento in cui prende in considerazione i diritti fondamentali la Corte appare interessata soprattutto a circoscriverne la portata, insistendo sulle limitazioni poste dall’art. 51 all’efficacia della Carta. In forza di tale previsione, come è noto, le disposizioni della Carta si applicano agli Stati membri solo nell’ambito dell’attuazione del diritto dell’Unione e, in ogni caso, non incidono sulle competenze dell’Unione, né estendono l’applicazione del diritto europeo al di là di tali ambiti materiali. Quasi per sopperire ai limiti dell’impostazione appena ricordata, la Corte nella decisione Dereci et al. si fa carico di prospettare al giudice nazionale il percorso da seguire nel caso in cui le posizioni dei
ricorrenti «non siano soggette al diritto dell’Unione», invitandolo a verificare il rispetto della Cedu: «difatti, occorre ricordare che tutti gli Stati membri hanno aderito alla Cedu, al quale consacra, nel suo art. 8, il diritto al rispetto della vita privata e familiare» (p.to 73).

5. I diversi passaggi del ragionamento della Corte di Lussemburgo che si è cercato, seppur sinteticamente, di ricostruire lasciano trasparire – pur con le riserve segnalate – la difficile ricerca di un nuovo punto di equilibrio nella definizione dei contenuti della cittadinanza europea e, come necessaria conseguenza/premessa, dei caratteri dell’Unione.

C’è infine un ultimo aspetto che merita di essere sottolineato, anch’esso suscettibile di letture differenti. Nella verifica delle varie ipotesi prospettate nel caso Dereci et al. per giustificare il diritto di soggiorno dei cittadini di Paesi terzi la Corte di giustizia attribuisce un ruolo fondamentale al giudice nazionale. E’ al giudice del rinvio che spetta, innanzitutto, alla luce delle norme dei Trattati in materia di cittadinanza valutare nel singolo caso se il diniego del soggiorno di un cittadino di Paesi terzi – che nei termini generali delineati nella sentenza non è in contrasto con il diritto dell’Unione – «non comporti per il cittadino dell’Unione europea interessato [cioè il familiare], la privazione del godimento effettivo e sostanziale dei diritti attribuiti dallo status di cittadino dell’Unione». E’ sempre al giudice nazionale che compete, poi, stabilire se alla luce delle circostanze delle cause principali le posizioni dei ricorrenti siano soggette al diritto dell’Unione e in tal caso, conseguentemente, giudicare le decisioni delle autorità statali alla luce dell’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali. Ed, infine, se non è possibile applicare il diritto dell’Unione, lo stesso giudice dovrà svolgere – secondo le modalità previste da ciascun ordinamento nazionale – il controllo sul rispetto delle norme della Cedu.

Una prima spiegazione di questa insistenza sulle responsabilità dei giudici nazionali può essere vista nei caratteri del “sistema integrato” di tutela dei diritti che opera oggi in ambito europeo, nel quale i giudici degli Stati membri sono considerati i primi garanti del rispetto sia del diritto dell’Unione sia della Convenzione europea, in rapporto rispettivamente con la Corte di Lussemburgo e la Corte di Strasburgo.

Alla luce della prospettiva di analisi proposta all’inizio – volta a cogliere gli sviluppi della riflessione sulla cittadinanza europea in relazione all’evoluzione del processo di integrazione – è possibile tuttavia ipotizzare una lettura diversa. L’attenzione al ruolo e il coinvolgimento dei giudici nazionali potrebbero essere un modo per favorire l’accettazione da parte degli Stati della progressiva costruzione di un nucleo forte di diritti connessi allo status di cittadino europeo; una sorta di richiesta di legittimazione a livello nazionale, che passa attraverso l’opera dei giudici. Non mancano anche in questo caso i profili di problematicità e le riserve. In questo modo, infatti, la Corte di giustizia sembra ridimensionare il proprio ruolo “anticipatore” nell’evoluzione del processo di integrazione europea, confidando su di una presa di responsabilità e su di una “apertura europea” dei giudici nazionali che non è affatto scontata, anche considerate le contestazioni cui il Giudiziario è soggetto in diversi Paesi. Per altro aspetto, si può cogliere in questo atteggiamento una riduzione, se non una rinuncia, da parte della Corte di giustizia ad esercitare il ruolo di Corte dei diritti, che la nuova posizione assunta dalla Carta dei diritti fondamentali avrebbe invece dovuto rafforzare. Il coinvolgimento dei giudici nazionali ed in particolare – considerate le modalità di funzionamento del sistema – dei giudici comuni nella definizione dei diritti derivanti dalla cittadinanza europea e più in generale dei diritti fondamentali dell’Unione se, da un lato, può contribuire al consolidamento di quella Comunità di diritto cui faceva riferimento già nel 1986 la nota sentenza Les Verts (Corte giust. 23-4-1986, causa C-294/83, in Racc., 1339 ss.), dall’altro, se non è sostenuto da un intervento forte di unificazione e di guida da parte della Corte di giustizia rischia invece di favore ulteriormente i particolarismi e le differenziazioni.