Mandati di arresto e giustizia globale: il nuovo corso della Corte Penale Internazionale
Il mandato d’arresto che giovedì 21 novembre 2024 la Corte penale internazionale (CPI) ha emesso nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant riveste un rilevante significato giuridico e politico e rappresenta una svolta nel panorama della giustizia internazionale: è la prima volta nella storia della Corte che un mandato d’arresto viene emesso contro personalità di uno Stato sostenuto dai paesi a democrazia occidentale.
La decisione di emettere i due mandati di arresto (cui si accompagna quello contro il comandante in capo dell’ala militare di Hamas, Diab Ibrahim al-Masri), richiesti il 20 maggio 2024 dal procuratore della Corte penale internazionale a una Camera preliminare della Corte, si inserisce in un percorso di rafforzamento della giustizia penale internazionale e di consolidamento del ruolo della CPI, che già nel 2023 aveva emesso un mandato di arresto contro Vladimir Putin, presidente della Federazione Russa, e contro Maria Alekseyevna Lvova-Belova, commissario per i diritti dei bambini presso l’ufficio del presidente della Federazione Russa, per crimini di guerra commessi in Ucraina.
Anche in questo caso si era trattato di una svolta, dal momento che mai un mandato era stato spiccato nei confronti del leader di un paese membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU.
Entrambi i casi segnano un cambio di paradigma nel diritto internazionale penale e sembrano indirizzarsi, insieme a recenti decisioni della Corte internazionale di giustizia (CIG), nella direzione dell’apertura di un orizzonte giuridico in cui il diritto sovranazionale assume un ruolo di primo piano nella gestione dei conflitti internazionali in un contesto geopolitico carico di tensioni.
Infatti, in passato, sin dalla sua istituzione nel 2002, la CPI si era limitata a perseguire leader e capi militari quasi esclusivamente di Stati dell’Africa, incriminando oltre cinquanta individui, tra cui ventuno detenuti all’Aia, dieci condannati per crimini e quattro assolti. Questo approccio aveva sollevato critiche e sospetti di parzialità politica e di favoreggiamento delle strategie occidentali di «cambio di regime» in quel continente, tanto da essere accusata da alcuni paesi africani di essere uno strumento di neocolonialismo giuridico. La stessa Unione Africana ha spesso contestato la legittimità della CPI, come nel caso del mandato di arresto contro il presidente del Sudan Omar Al-Bashir, denunciato come un attacco all’autonomia politica del continente.
La mancata azione della CPI rispetto a presunte violazioni dei diritti umani attribuibili a rappresentanti di Stati occidentali, come gli Stati Uniti e il Regno Unito, o di loro alleati, ha rafforzato quelle critiche e quei sospetti sulla percezione di un’applicazione selettiva della giustizia internazionale. Ad esempio, le indagini sulle torture nei programmi di detenzione della CIA, commessi in territori di Stati aderenti al Trattato e sulle presunte atrocità compiute da militari britannici in Iraq sono state archiviate nel 2021 per mancanza di prove sufficienti o per motivi procedurali. Invece, il mandato di arresto contro Putin, trattandosi di un atto rivolto per la prima volta contro il leader di una grande potenza e di uno Stato membro permanente del Consiglio di sicurezza, ha dimostrato che la Corte intende operare anche nei confronti di Stati di primario rilievo internazionale. Allo stesso modo, le recenti indagini avviate nei confronti di due leader israeliani hanno dimostrato che la Corte non esita a intervenire nemmeno nei confronti di rappresentanti di Stati a democrazia occidentale. Queste azioni contribuiscono a dissipare ancora di più i sospetti di una giustizia internazionale selettiva, evidenziando l’impegno della CPI a perseguire crimini di guerra ovunque e da chiunque essi siano commessi. In questo modo, la Corte sembrerebbe voler riaffermare la propria legittimità e indipendenza, sottolineando l’universalità dei principi del diritto internazionale.
Uno degli aspetti più controversi della vicenda dei recenti mandati di arresto riguarda la giurisdizione della CPI sui territori palestinesi. La questione affonda le sue radici nella decisione del 5 febbraio 2021 della Pre-Trial Chamber, che aveva confermato la possibilità per la CPI di esercitare giurisdizione sulla cosiddetta “Situazione nello Stato di Palestina”. Nel corso del procedimento che ha condotto alla suddetta decisione, è stata consentita un’ampia partecipazione tramite memorie amicus curiae, presentate da decine di Stati, organizzazioni e individui, in risposta alla richiesta del Procuratore Fatou Bensouda. Questo approccio inclusivo aveva permesso di approfondire una serie di temi cruciali relativi alla portata e ai limiti della giurisdizione della CPI nei territori palestinesi, evidenziando il delicato equilibrio tra diritto internazionale, sovranità statale e tutela dei diritti umani. Le questioni di soglia nelle occasioni affrontate, e risolte nel senso di riconoscere l’esistenza della giurisdizione della Corte, riguardavano in particolare: se la Palestina si qualifichi come uno Stato autorizzato a conferire giurisdizione alla CPI; se gli Accordi di Oslo, che circoscrivono i poteri giurisdizionali penali dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) nei riguardi dei cittadini israeliani, impediscano alla CPI di esercitare tale giurisdizione; se a Israele sia stata data un’opportunità sufficiente per condurre le proprie indagini penali nell’ambito del regime di complementarità della CPI, che dà priorità alle indagini domestiche purché trasparenti ed effettive rispetto ai procedimenti internazionali.
Come è noto, la CPI può indagare su individui appartenenti a Stati non membri qualora i presunti reati siano stati commessi nel territorio di uno Stato membro. Sulla base di questo principio, la Corte ha stabilito che la Palestina, in quanto Stato parte dello Statuto di Roma, conferisce alla CPI giurisdizione sui crimini commessi nei territori occupati, nonostante Israele non sia uno Stato aderente. Un caso simile è quello dell’Ucraina, dove crimini attribuiti a personalità russe (un altro Stato non aderente) ricadono sotto la giurisdizione della Corte in virtù della ratifica ucraina (i cui effetti sono stati fatti decorrere dalla data di avvio dei negoziati per l’adesione della stessa Ucraina allo Statuto di Roma).
L’attuale Procuratore della CPI, Karim Khan, nella sua dichiarazione ufficiale, ha ribadito l’importanza della “complementarità” quale principio fondamentale dello Statuto di Roma, ma ha anche affermato che proprio quel principio comporta che, quando gli Stati coinvolti non dimostrano la capacità o la volontà di perseguire i crimini in modo credibile e imparziale, la CPI deve esercitare la competenza a perseguirli. Nel caso di Israele, Khan ha sostenuto che i procedimenti nazionali non soddisfano gli standard richiesti dallo Statuto di Roma e che questo impone l’intervento della Corte.
Ai sensi dell’articolo 58(1) dello Statuto, una Camera preliminare può emettere un mandato di arresto se ritiene che: (i) ci siano ragionevoli motivi per ritenere che la persona abbia commesso un crimine di competenza della Corte e (ii) l’arresto della persona appaia necessario per garantire la sua presenza al processo, per assicurarsi che la persona non ostacoli o metta in pericolo le indagini o i procedimenti della Corte oppure per impedire che la persona continui a commettere quel crimine o un crimine correlato che rientra nella competenza della Corte e che sorga dalle stesse circostanze.
Le indagini della CPI sulla guerra a Gaza si concentrano su presunte violazioni del diritto internazionale commesse durante il conflitto. Per Hamas, le accuse riguardano i crimini atroci commessi il 7 ottobre 2023, tra cui attacchi deliberati contro civili israeliani, stupri di massa e prese di ostaggi. Questi atti configurano gravi violazioni del diritto umanitario internazionale e possono essere qualificati come crimini contro l’umanità e crimini di guerra (Statuto di Roma, rispettivamente art. 7 e art. 8). Per quanto riguarda invece le accuse contro Netanyahu e Gallant, la CPI ha ritenuto che le politiche israeliane a Gaza, tra cui il blocco totale di beni essenziali come cibo, acqua ed energia, violano il divieto di usare la fame come metodo di guerra, sancito dall’art. 8 dello Statuto. Inoltre, l’attacco deliberato contro la popolazione civile palestinese potrebbe configurare crimini contro l’umanità, trattandosi di azioni che appaiono parte di una politica statale sistematicamente volta a punire collettivamente i palestinesi, in violazione dei principi fondamentali del diritto umanitario. A queste accuse si aggiunge la giustificazione del mandato di arresto con riferimento alle esigenze processuali. La CPI ha ritenuto necessario il mandato per prevenire la reiterazione delle condotte criminose, che sembrano ancora in corso, e per fermare ulteriori crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Inoltre, la classificazione “segreta” dei mandati è stata adottata per proteggere i testimoni e garantire l’integrità delle indagini. La Camera ha però sottolineato che informare le vittime e le loro famiglie dell’esistenza dei mandati risponde al loro diritto alla giustizia e alla trasparenza. Infine, il mandato è ritenuto essenziale per garantire che Netanyahu e Gallant siano sottoposti a processo, permettendo così alla giustizia di svolgere il suo corso in conformità con il diritto internazionale.
Nonostante il peso simbolico delle azioni della CPI, l’esecuzione pratica dei mandati d’arresto rimane una sfida assai ardua, come dimostrano anche i precedenti. La Corte non dispone di una propria forza di polizia e dipende interamente dalla cooperazione degli Stati membri per eseguire gli arresti. Israele, come la Russia, non riconosce l’autorità della CPI e ha già rigettato le accuse come politicamente motivate. È improbabile che leader israeliani o russi vengano quindi consegnati alla Corte. Sebbene i 124 Stati parte dello Statuto di Roma siano giuridicamente obbligati ad arrestare i sospettati presenti nei loro territori e a trasferirli alla Corte, in conformità all’articolo 86 dello Statuto (che impone la piena cooperazione con l’istituzione), le grandi potenze come Stati Uniti, Cina e Russia che non aderiscono allo Statuto, ne limitano inevitabilmente l’efficacia globale.
Nel caso in esame, si pone altresì la questione di come conciliare gli obblighi convenzionali nascenti dallo Statuto di Roma, che hanno lo scopo di rendere efficace la funzione della Corte (e quindi di assicurare l’arresto di Netanyahu, Gallant così come di Putin), con quelli consuetudinari in materia di immunità degli organi statali, che i destinatari dei mandati di arresto potrebbero invocare per il fatto di ricoprire o aver ricoperto cariche istituzionali. In tale prospettiva, l’articolo 27 dello Statuto di Roma assume una portata dirimente, affermando l’irricevibilità di qualsivoglia forma di immunità, inclusa quella derivante dallo status ufficiale, quale causa di esclusione della responsabilità penale dinanzi alla Corte. Tale previsione, innovativa rispetto alla tradizionale configurazione delle immunità sovrane nel diritto internazionale consuetudinario, incarna un principio di rilevanza paradigmatica: la subordinazione delle prerogative istituzionali alla giustiziabilità dei crimini internazionali più gravi. Tuttavia, le indicazioni offerte dalla prassi applicativa risultano, ad oggi, piuttosto limitate. Emblematico è il caso di Omar Al Bashir, contro il quale la Corte aveva emesso due mandati di arresto — nel marzo 2009 e nel luglio 2010 — che non gli hanno impedito di viaggiare liberamente in diversi Paesi senza subire alcuna misura restrittiva. Questo episodio ha evidenziato l’incapacità della Corte di dare concreta attuazione ai propri mandati in assenza di un supporto internazionale coordinato. Pertanto, sebbene l’articolo 27 rappresenti una pietra miliare nell’affermazione della giustizia penale internazionale, la prassi dimostra che il principio della responsabilità individuale, pur consacrato normativamente, resta spesso inefficace a causa delle resistenze geopolitiche e delle lacune strutturali nel sistema di cooperazione tra Stati. Tale contrasto tra la forza normativa dello Statuto e le difficoltà della sua applicazione pratica evidenzia le sfide ancora aperte per il consolidamento di un sistema giuridico sovranazionale capace di superare le inerzie della politica internazionale.
Questo comunque non fa venir meno la necessità di riflettere sulla portata dello strumento del mandato di arresto all’interno del sistema internazionale, in un contesto in cui si assiste a un’accentuazione del concetto di “giustizia politica”. Tale strumento assume un valore simbolico e giuridico cruciale e sembra possedere una potenziale capacità di rimodellare le dinamiche delle relazioni internazionali e di ridefinire gli equilibri tra sovranità statale e responsabilità individuale (L. Ferrajoli). L’attivismo della CPI rappresenta senza dubbio un’evoluzione significativa del diritto internazionale, segnando il passaggio dalla mera regolamentazione dei rapporti interstatali, tradizionalmente gestita dalla CIG, alla giurisdizionalizzazione della responsabilità penale individuale (W.A. Schabas; P. Akhavan; K. Ambos). Sebbene le due corti si occupino di ambiti distinti – la CIG rivolta alla gestione delle controversie tra Stati sovrani e la CPI orientata alla perseguibilità dei crimini internazionali commessi da individui – le due corti contribuiscono insieme a consolidare un sistema giuridico multilivello capace di disciplinare sia le condotte statali sia quelle personali.
Nel contesto del diritto internazionale, i processi discorsivi e giudiziari delle istituzioni come la CIG e la CPI rivestono un ruolo cruciale, ma complesso. Le attività delle due corti rappresentano strumenti fondamentali per consolidare il diritto internazionale quale parametro normativo universale nella gestione dei conflitti armati e delle relative implicazioni.
La combinazione tra responsabilità individuale e statale offre una prospettiva innovativa per ridurre l’impunità e vincolare le condotte, sia personali sia governative, a norme giuridiche condivise. Questa sinergia potrebbe rafforzare il ruolo del diritto internazionale anche nei confronti di Stati influenti, consolidandone la funzione quale architrave di un ordine globale più giusto. Molto dipenderà dalla capacità della CIG e della CPI di affermare la loro imparzialità e neutralità e dal formarsi di un livello di cooperazione internazionale capace di superare divisioni geopolitiche e interessi politici particolari. Peraltro, per poter rispondere alle esigenze risultanti da situazioni sempre più caratterizzate da asimmetrie di potere e dall’ibridazione delle forme di conflitto, è immaginabile che l’attivismo delle Corti internazionali le porti sempre più a oltrepassare i limiti della semplice verifica retrospettiva delle responsabilità per muoversi sul terreno della sensibilizzazione e della promozione di immediati interventi preventivi e misure reattive (R. Teitel; C. Marxsen and A. Peters).
In tal senso, il ruolo delle corti appare destinato ad estendersi sempre più al di là della risoluzione di controversie e a concretarsi anche nell’orientare gli Stati verso un rispetto immediato delle norme fondamentali del diritto internazionale. Questa evoluzione del ruolo delle Corti, e più in generale del diritto internazionale, dipenderà ovviamente dalla capacità della comunità internazionale di rafforzare la cooperazione multilaterale e dalla disponibilità a sostenere la legittimità e l’autorità delle istituzioni giuridiche sovranazionali L.R. Helfer and A.M. Slaughter; H.H. Koh). Resta il fatto che solo attraverso un impegno largamente condiviso si potrà promuovere una governance globale basata sul primato del diritto rispetto alla politica e alle logiche geostrategiche.