L’unità della tradizione giuridica europea negli sviluppi (meno noti) della scienza giuridica tedesca degli anni Trenta. Note su K. Tuori, Empire of Law. Nazi Germany, Exile Scholars and the Battle for the Future of Europe, Cambridge University Press 2020
Empire of Law si prefigge di scandagliare il terreno in cui germoglia l’invenzione della tradizione secondo cui l’integrazione giuridica europea sia sorretta dall’intrinseca unità delle diverse tradizioni giuridiche europee, cercando di porre argine al senso di frustrazione causato dalla «simplistic way in which the notion of a shared past has been used as an argument for the future in European legal discourse». Il processo collettivo che orienta gli Stati nazionali nella direzione dell’integrazione europea non si sarebbe infatti avviato al momento della capitolazione dei regimi nazista e fascista e dell’affievolirsi del nazionalismo di estrema destra, non sarebbe solamente il risultato di una reazione “postuma” agli orrori dei totalitarismi. L’A. sostiene che un ruolo fondamentale spetti ai giuristi tedeschi degli anni Trenta, che, seppur fautori di teorizzazioni fra loro non sovrapponibili, condividono una visione della storia del patrimonio giuridico europeo che trova il suo fondamento nel diritto romano.
La «rivoluzione nazista» accantona violentemente quei principi di «humanity, equality, rights and security» considerati «selfevident in Europe at the time», come testimoniato da una lettera di Kantorowicz dell’aprile 1933 riportata dall’A. nell’Introduzione. I giuristi tedeschi emigrati, molti dei quali riescono ad inserirsi negli ambienti accademici di Gran Bretagna e USA, si imbarcano nell’ardua impresa scientifica, a volte affetta da una serie di inesattezze dal punto di vista storico e metodologico, di collegare la tradizione giuridica continentale con quella atlantica, riconducendo idee quali lo stato di diritto, la libertà e l’uguaglianza ad un comune patrimonio europeo risalente all’antica Roma. D’altra parte, un secondo gruppo di giuristi, tedeschi, ma anche italiani, abbraccia i principi del totalitarismo, che in vario modo non mancherà di promuovere una propria idea di unità europea e di romanità. Fra i giuristi “esuli” l’A. sottolinea il contributo di F. Schulz e F. Pringsheim, nonché di P. Koschaker, che invece rimarrà in Germania, pur occupando una posizione marginale. Quanto all’opera dei giuristi allineati con il regime, l’A. si sofferma sulle teorie di F. Wieacker e di H. Coing, adattate nel secondo dopoguerra in funzione della costruzione di una «common past theory». La contiguità di questi lavori, realizzati da studiosi così diversi, mette in evidenza le potenziali contraddizioni della «question of heritage», che da una parte caratterizza la riflessione giuridica della Scuola storica e dall’altra viene utilizzata dai teorici del nazismo per sostenere le tesi più odiose. Gli studi dei giuristi citati vengono posti in dialettica, da una parte, con quelli di altri autori contemporanei che, vivendo da emigrati, affrontano variamente la problematica della formulazione di una tradizione giuridica europea e, dall’altra, con quelli di altri studiosi europei coinvolti con i regimi totalitari. La particolare attenzione posta dall’A. all’opera degli esuli è dovuta al fatto che «The scientific innovation that followed would probably not have been possible without their horrendous removal from their homeland», in quanto gran parte degli sforzi teorici dei giuristi “in esilio” si concentrano sui diritti e sulla necessità della loro garanzia. Il dibattito del secondo dopoguerra sulla configurazione di un regime europeo dei diritti umani ha infatti evidenziato «the centrality of human rights language in shaping the agenda of European integration». La narrazione dell’Europa che ne risulta, incentrata sui diritti umani, sullo stato di diritto e sull’eguaglianza, diventerà inoltre un fattore unificante durante la guerra fredda.
Il Cap. II si prefigge di studiare l’emergere dell’idea di libertà come concetto giuridico fondamentale per la tradizione europea, seguendo il percorso scientifico di Schulz. In particolare ci si sofferma sui concetti di libertà e autorità e sul modo in cui essi definiscono il rapporto tra diritto e politica nei Principles of Roman Law, «un’opera atipica» che costituisce una prima reazione al nazismo – alcuni studiosi non concordano però su questo punto – la cui edizione tedesca (1934), seguita dopo due anni da quella inglese, viene pubblicata poco prima dell’entrata in vigore del divieto per gli ebrei di dare alle stampe opere scientifiche. Qui il diritto romano viene idealizzato e, in contrapposizione al diritto nazista, ne vengono lodate le sue presunte caratteristiche, quali l’indipendenza dalla politica, la concezione della cittadinanza come status fondato non sull’etnia ma sull’appartenenza, la continuità e l’umanità. La prospettiva di Schulz è raffrontata con quella di altri studiosi emigrati. Ad es. Levy e Momigliano presentato argomentazioni simili a Schulz quanto al collegamento tra libertà e repubblicanesimo, mentre teorici politici quali Arendt e Strauss si occuperanno della questione della libertà in relazione alla crisi dello Stato liberale. In particolare nello sviluppo della riflessione di Arendt grande importanza rivestirà l’incontro con la realtà statunitense: la filosofa nel 1946 scriverà stupita in una lettera di come il sentimento di libertà lì sia forte al punto da far ritenere a molti di non poter vivere senza. Anche negli USA però la libertà non è al riparo da rischi, come prova l’ascesa dell’executive branch e l’affermarsi dello administrative state durante la guerra. Roosevelt affermerà in un discorso la necessità di difendersi con tutti i mezzi, comprese le limitazioni alle libertà fondamentali e, proprio in questo frangente, gli intellettuali tedeschi espatriati saranno fondamentali nel sensibilizzare l’opinione pubblica quanto alle insidie dell’executive privilege.
Il Cap. III si concentra sulla contrapposizione tra le idee di uguaglianza, cosmopolitismo e stato di diritto, in opposizione alle politiche naziste. Pringsheim, recatosi in Gran Bretagna a seguito delle violenze naziste, comincerà a tenere delle lezioni di Diritto Romano in varie università. In una conferenza, in seguito pubblicata sul Journal of Roman Studies (1934), riformula il mito della Roma adrianea facendo dell’Imperatore-filosofo un politico cosmopolita, giudice e legislatore giusto. Al di là delle distorsioni storico-metodologiche, l’esaltazione della Roma adrianea costituisce una reazione rispetto alle violazioni della costituzione perpetrate dal nazismo. Se Pringsheim si leva a difesa dello Stato di diritto per mezzo della storia romana, l’A. nota come invece altri studiosi espatriati (Neumann, Hayek) attacchino direttamente il totalitarismo e l’idea di konkrete Ordnung. Particolare importanza viene data al fatto che, con il sostegno di molti espatriati tedeschi, negli USA la libertà e la difesa dello stato di diritto diventino i principi fondamentali sui quali si informa la politica del dopoguerra. Intanto una parte degli esuli tornerà in Germania: fra questi vi è Pringsheim, che cercherà di riformare il sistema universitario e prevenire una recrudescenza del nazismo.
Nel Cap. IV vengono affrontate le questioni della crisi del diritto romano in Germania – considerato “anti-tedesco” da una parte degli ideologi nazisti – e delle sue prospettive future attraverso le opere di Koschaker. Quanto alla posizione del giurista nei confronti del regime, il giudizio non è unanime. Koschaker scrive i suoi lavori principali, Die Krise des Römischen Rechts und die romanistische Rechtswissenschaft (1938) e Europa und das römische Recht (1947), come risposta alla crisi dello studio del diritto romano, sebbene gli interrogativi di fondo riguardino la formazione della cultura giuridica europea e le modalità attraverso cui il diritto romano diventi patrimonio giuridico comune. L’idea di Europa di Koschaker, che coniuga universalismo e particolarismo, da una parte attinge alla tradizione imperialista e alla tradizione cattolica, dall’altra alla concezione della cultura europea come portato di una specifica realtà storico-culturale. L’A. nota la contraddittorietà della definizione della tradizione giuridica europea di Koschaker, posta nei termini di “legge naturale relativa”, cui è sottesa proprio quella pretesa di essere particolare e universale insieme. Il confronto tra Koschaker e altri studiosi (Bonfante, Riccobono, De Francisci) permette di collocare i suoi scritti tra le varie e contraddittorie teorie dell’europeismo. L’Europa diventa la formula magica «di una sorta di quasi-universalismo, tema condiviso da autori conservatori e liberali, dai nazisti e dai fascisti ai socialisti radicali». Anche in una prospettiva di riforma dell’educazione giuridica Koschaker presenta il diritto romano come fondamento della scienza giuridica privatistica europea, sulla cui base mediare fra le nazioni d’Europa. Queste idee sarebbero poi state elaborate dai Cristiano-conservatori, fra i quali troviamo J. Maritain. R. Schuman sarà influenzato proprio dalle idee di Maritain quanto al progetto di una nuova Europa fondata sui diritti umani e sulla democrazia ispirata ai valori cristiani, ma rimane ancora da approfondire il collegamento tra gli intellettuali di area cattolica e l’idea di Europa di Koschaker. La pubblicazione di Europa coincide invece con l’avvio dell’integrazione europea. Ma non finisce qui: P. Pescatore, allievo di Koschaker a Tubinga, sarà giudice della Corte di Giustizia (1967-1985), fra i fautori più convinti di un organo giurisdizionale europeo forte e indipendente. Pescatore, sostenitore della prima ora del primato del diritto europeo sul diritto nazionale, vede la Corte come un cantiere aperto, attraverso cui promuovere una certa idea di Europa. Come affermato dallo stesso A., non è dato sapere precisamente quanto l’insegnamento di Koshaker abbia influito sull’allievo, ma è interessante osservare come eventi e studi apparentemente lontani dalla nostra quotidianità giuridico-istituzionale finiscano per riverberarvisi.
Nel Cap. V l’A. ritorna agli anni del totalitarismo per occuparsi del percorso verso l’idea di Europa intrapreso dai giuristi più giovani, che spesso comporta una “conversione” ai valori democratici dopo la guerra. Ci si occupa in particolare dell’opera di Wieacker, allievo di Pringsheim, presto diventato giurista “di regime”, poi “riabilitato” durante la denazificazione dell’accademia. L’idea di diritto e di scienza giuridica di Wieacker, non appare, nonostante la sua appartenenza al NSDAP, in linea con l’ideologia nazista. La scienza giuridica viene intesa da Wieacker come tradizione ed «ethos intergenerazionale». Privatrechtsgeschichte der Neuzeit è un’opera «rivoluzionaria» in quanto promuove una nuova narrazione sul concetto di Europa, oltrepassando le barriere tra diritto romano e diritto contemporaneo. Nell’opera di Wieacker si possono rintracciare influssi weberiani e schmittiani, nonché frequenti rifermimenti a Savigny. Durante gli studi in Italia, il giurista subirà anche l’influenza di Riccobono e intraprenderà un dibattito con Betti e Gadamer sul significato da attribuire alla differenza tra interpretazione storica e giuridica. La sua sensibilità verso la realtà sociale e politica è invece dovuta all’influenza della Kieler Schule, che, tuttavia, si indebolirà a partire dagli anni della guerra, come dimostrano i suoi scritti. L’A. osserva come non fosse facilmente prevedibile che Privatrechtsgeschichte, un libro «che incorporava sia il vecchio che il nuovo, che si rivolgeva sia agli ex nazisti sia alle esigenze della nuova situazione politica» potesse rappresentare «a turn toward Europe». Allo stesso modo della svolta verso la democrazia e lo stato di diritto, questa svolta verso l’Europa può essere interpretata come un evento esterno e, in questo caso, si può affermare che «the will to belong worked in the opposite direction as it had done in the 1930s, leading not only Wieacker but also most of the legal academia to discover the shared roots of European legal science».
Da ultimo viene affrontata la questione del rapporto tra narrativa europea e tradizione dei diritti, prendendo spunto dal contributo di Coing, che sarà per lungo tempo direttore del Max Planck Institute for European Legal History, il primo giurista a mettere in relazione la tradizione dei diritti con l’idea di patrimonio giuridico europeo. Coing è un rappresentante della borghesia tedesca e non è chiaro se la sua adesione al nazismo fosse stata o meno convinta. L’esperienza della guerra invece costituirà un punto di partenza fondamentale per lo sviluppo della sua opera, in cui confluiscono la tradizione storica e quella del diritto naturale. Tale discorso si pone nell’ambito del dibattito sui diritti seguita alla caduta dei totalitarismi, che in Germania non trova in un primo momento grande seguito nel mondo accademico. L’approccio di Coing si dimostrerà vincente in quanto ricorre alla tradizione giuridica esistente per fondare i diritti, introducendo una «terza via»: «He argued that rights may be founded through tradition, not through nature or through a convention. Human rights are thus something that is based on personhood and morality, not as inalienable rights as suggested by Enlightenment thought or humanity itself». Il contributo di Coing alla teoria dei diritti va di pari passo a quello al diritto romano. Il disegno di un patrimonio giuridico europeo condiviso svolge lo stesso ruolo della Recezione, che è al contempo processo di riutilizzo della legge antica ed elemento fondativo. La storia giuridica europea «began to resemble a constitutional project without a constitution, where tradition operates at the same time as a justification and context». Il ruolo svolto da Coing nell’ambito del nascente dibattito europeo è stato riconosciuto, fra gli altri, da R. Zimmermann, nonché da W. Hallstein, futuro Presidente della Commissione CEE.
Con questo lavoro l’A. ci consegna una vivida rievocazione degli sviluppi meno noti della scienza giuridica tedesca degli anni Trenta, che ha contribuito, nel pieno della crisi dello Stato di diritto, all’edificazione dell’idea di tradizione giuridica europea. Certo, come affermato dall’A., il dibattito di cui si dà conto «relates to a very thin slice of Europe, namely the culture and population that is white, conservative and nationalist», ma vale la pena leggere questo studio anche in riferimento al fatto che in Europa, così come negli USA, si sta assistendo a preoccupanti rigurgiti dell’estremismo di destra e all’utilizzo della religione come fattore di esclusione e violenza. L’insegnamento che se ne può ricavare è quello della necessità dei principi fondamentali «the notions of humanity, equality, the rule of law, security and a sense of inclusion», già chiari a Schulz.