L’Unione è morta? Lunga vita all’Unione!
“L’Europa è morta a Lesbo” così l’Oxfam ha denunciato l’atrocità della condizione umane a Lesbo e in altre isole greche al confine con la Turchia. Da un punto di vista umanitario, l’Europa è morta anche altrove, da Calais a Lampedusa fino alla recente ennesima strage nel mediterraneo. Molti colpi sono stati inferti anche dalla politica: la Brexit, la prima gestione della pandemia ma anche i tentativi esterni, da Trump a Putin e a Xi. Il funerale, quello costituzionale, è stato frettolosamente celebrato in Francia e nei Paesi Bassi quando due referendum hanno bocciato la proposta di Costituzione europea del 2003. Alla sepoltura hanno poi subito pensato Regno Unito, Polonia e Danimarca che, sospendendo le proprie votazioni, hanno reso impossibile la ratifica.
La mancata ratifica della Costituzione europea è insieme la conseguenza e la causa di molti dei mali che affliggono l’Unione e la rendono spesso incapace di stare accanto ai propri cittadini non offrendo risposte adeguate alle crisi che la scuotono. Ne è senz’altro la conseguenza perché l’Europa è stata solo formalmente costruita su principi e valori condivisi. Le sue fondamenta sono state infatti gettate esclusivamente sul mercato e sulla moneta comune, rivelatisi fragili orfani di una politica fiscale e sociale comune. Ma ne è anche la causa. Spesso ci poniamo la domanda: “L’Europa dov’è?”. Ebbene, l’Europa è spesso chiusa nelle sue stanze a ricercare i pareggi di bilancio e a lottare contro l’inflazione, ma non c’è a Lesbo e nemmeno a Lampedusa. Il motivo è molto semplice: non ha gli strumenti per esserci. Non si tratta di una mancanza di volontà o di sensibilità politica. Con la sola esclusione del Trattato di Lisbona – che ha fatto entrare dalla finestra molte delle competenze europee che avrebbero dovuto essere sancite dalla Costituzione – la mancata ratifica ha bloccato il processo d’integrazione e gli strumenti di cui l’Unione ha un bisogno disperato per reagire.
Ma le radici della bocciatura popolare della Costituzione vanno ricercate nella costituente stessa. Dopo le conferenze intergovernative che hanno lasciato in dote il Trattato di Amsterdam, nel 1997, e di Nizza, nel 2001, l’Unione si trovava ancora incompiuta per rispondere alla nuova situazione geopolitica: la caduta del muro e l’integrazione con i paesi dell’Europa orientale, che sarebbero entrati nella famiglia europea pochi anni dopo. Un tema che oggi si ripropone con urgenza in presenza delle continue violazioni dello stato di diritto in Polonia e Ungheria, ma non solo.
Il metodo intergovernativo tra Stati sovrani era inadatto a redigere una carta pan-europea. Allora venne dato mandato a una costituente a vocazione democratica. Ma la convenzione stessa nacque azzoppata: il testo approvato in seduta plenaria da parlamentari nazionali ed europei sarebbe comunque dovuto passare da una conferenza intergovernativa.
L’esito lo conosciamo. Il progetto Penelope per una vero testo federalista dell’Europa, voluto dalla Commissione Prodi, venne accolto con freddezza e diffidenza perfino dalla convenzione che limò il testo sulla base di compromessi al ribasso fra francesi, divisi politicamente, e inglesi. La conferenza intergovernativa a cui fu sottoposta la carta fece il resto. I poteri di Commissione e Parlamento europeo subirono cambiamenti meramente estetici, il principio dell’unanimità per le decisioni del Consiglio venne confermato e soprattutto mancò il fondamentale trasferimento di legittimità dalle capitali nazionali a Bruxelles. Dopo tutto, si trattava pur sempre di negoziati fra Stati sovrani. Il processo di ratifica ne è una prova. A un referendum pan-europeo, si preferirono le ratifiche parlamentari e alcuni referendum, di carattere vincolante o di natura consultiva, come quello olandese. Per essere realmente democratica, la Costituzione avrebbe dovuto essere legittimata dalla maggioranza del popolo europeo e non ratificata secondo le diverse procedure nazionali come un comune trattato internazionale.
A distanza di vent’anni, ci ritroviamo con gli stessi problemi di legittimazione e di natura istituzionale acuiti dalle crisi e dal tempo che le ha portate. In politica estera, aldilà del giudizio politico sulle singole decisioni, il Consiglio Ue ha vanificato ogni tentativo europeo di mostrarsi uniti.
Sulla pandemia però, nonostante le iniziali esitazioni, l’Europa è riuscita ad unirsi pur con le difficoltà che l’intero pianeta sta vivendo. Per la prima volta, l’Europa ha avviato un piano di indebitamento pubblico comune di larga scala. Con l’acquisto comune dei vaccini, malgrado l’inesistenza di una Sanità europea, è stato affidato alla Commissione un compito che le spettava per diritto naturale ma che, a causa delle lacune nel diritto formale, ha mostrato tutta la debolezza dell’esecutivo comunitario.
In questo contesto, con luci e ombre, con passi in avanti e passi indietro, finalmente sono ufficialmente iniziati – con una dichiarazione comune sottoscritta dai Presidenti delle principali istituzioni europee – i lavori della “Conferenza sul futuro dell’Europa”.
La Conferenza, il cui nome echeggia aspirazioni costituenti, ha l’obiettivo di costruire un nuovo ponte fra le istituzioni comunitarie e i cittadini europei. Promessa dalla Presidente Von der Leyen nel suo discorso inaugurale al Parlamento europeo che, in quei giorni, votava la fiducia alla Commissione, la Conferenza aspira a coinvolgere rappresentanti delle istituzioni europee, istituzioni nazionali, associazionismo, cittadinanza attiva e semplici cittadini, che verranno in parte anche sorteggiati proprio per rappresentare al meglio le diverse appartenenze sociali e politiche.
Sarà una grande occasione di rifondazione ma, allo stesso tempo, la Conferenza pone nuove sfide e altrettanti rischi. I due pericoli maggiori sono quelli in cui è incappata la convenzione: autoreferenzialità e mancanza di ambizione. Per legittimare l’inaugurazione di un periodo riformista, è innanzitutto necessario includere e coinvolgere tutti gli strati sociali europei. Limitare l’ascolto a chi già d’accordo, a chi è già organizzato o agli entusiasti del progetto federalista renderebbe la Conferenza un esercizio cosmetico che proporrebbe le proprie conclusioni a un popolo ignaro e scettico.
Ai cittadini dovranno essere posti interrogativi semplici, chiari e diretti. Quale è l’Europa che vogliamo? Quale ruolo darle nella gestione delle crisi ambientali, sanitarie ed economiche? Un’Unione fondata sui principi, sui valori e quindi sul diritto universale o un’Europa commerciale volta alla soddisfazione delle sole necessità economiche? Le decisioni su spitzenkandidaten, competenze di Commissione e Parlamento, unanimità del Consigli e liste transnazionali si devono quindi fondare sulla sintesi delle esigenze emerse dall’ascolto. Le discussioni costituzionali non possono limitarsi a scelte su mode burocratiche ma debbono fornire l’impalcatura giuridica a un progetto politico che trae la sua legittimità dal basso.
Altro elemento, forse il più critico e cruciale, riguarda la serietà e la responsabilità delle istituzioni europee e nazionali nel dare seguito alle proposte di riforma che emergeranno. Il rischio è enorme. I veti degli Stati membri potrebbero trasformare l’occasione per il rilancio del progetto europeo in un boomerang di dimensioni potenzialmente catastrofiche. Il mancato seguito, almeno in parte, alle proposte della Conferenza sarebbe l’ennesimo altissimo ostacolo al sogno federalista e benzina sul fuoco di sovranismi e nazionalismi. Non dobbiamo ripetere gli errori del passato e non dobbiamo sottovalutare questo rischio.
Il clima è sicuramente propizio. Le elezioni europee del 2019, ribaltando il calo costante degli ultimi vent’anni, hanno visto un aumento dell’affluenza alle urne. Le ultime rilevazioni dell’Eurobarometro registrano un rinnovato interesse per l’Unione. Aumenta il consenso al progetto politico di integrazione e anche al rafforzamento del Parlamento europeo.
Nonostante la reticenza del Consiglio ad aprire a una stagione di riforma dei Trattati, le differenze tra la dichiarazione di Laeken, che diede mandato alla convenzione dei primi anni 2000, e la dichiarazione congiunta di Parlamento, Commissione e Consiglio che ha dato inizio ai lavori della Conferenza, sono nette, positive e propositive. Le tre istituzioni si sono impegnate a mettere al centro il cittadino chiarendo che la Conferenza si basi su un processo “dal basso verso l’alto” e conferendo ai cittadini “un ruolo più incisivo nella definizione delle future politiche e ambizioni dell’Unione”.
In parallelo agli eventi ufficiali e ai dibattiti che saranno organizzati a livello locale, le tre istituzioni hanno lanciato il 19 aprile una piattaforma virtuale, fondamentale in tempi di pandemia. La piattaforma, accessibile a tutti, raccoglierà tutte le informazioni sulle iniziative organizzate nell’ambito della Conferenza e permetterà a tutti di esprimere opinioni, suggerimenti, critiche su tutti i temi legati al futuro dell’Europa.
La piattaforma è disponibile nelle 24 lingue ufficiali dell’UE e rende quindi possibile il confronto tra tutti i cittadini europei. I contributi della fase di ascolto saranno pubblicati sulla piattaforma e saranno il loro contributo per le “agorà” dei cittadini e per la Plenaria della Conferenza che avrà il compito di tradurre le idee dei cittadini in proposte concrete e realizzabili.
Per concludere: le premesse sono positive anche se non possiamo ignorare che questa occasione, che può essere epocale, può anche trasformarsi in un vero e proprio “boomerang”. Dipende, e dipenderà, da ciascuno di noi.
Se è vero, come diceva Jean Monnet, che nulla dura senza le istituzioni è altrettanto vero però che nulla è possibile senza gli uomini. Abbiamo una grande occasione, non sprechiamola.