L’ultima sentenza Lautsi: margine di apprezzamento, principio maggioritario e libertà di coscienza
Il 18 marzo è stata pubblicata l’attesa sentenza della Grand Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa alla dibattuta questione della compatibilità tra obbligo di esposizione del Crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche della Repubblica italiana e alcune norme della CEDU, tra cui l’art. 9 della Convenzione – in materia di libertà di coscienza e religione – e l’art. 2 del Protocollo addizionale n. 1, relativo al diritto all’istruzione: quest’ultima disposizione, in particolare, prevede che lo Stato, “nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento”, debba rispettare il diritto dei genitori a provvedere a tali compiti secondo le proprie convinzioni.
La sentenza resa sulla stessa questione dalla seconda Sezione della Corte (3 novembre 2009) aveva ricavato dal combinato operare delle due disposizioni segnalate la conclusione secondo cui l’obbligo di esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche violava, oltre che il diritto dei genitori di cui all’art. 2 del Protocollo citato, anche la libertà religiosa e di coscienza dei giovani allievi dell’istituto scolastico, nella misura in cui l’esposizione (obbligatoria) di un simbolo riconducibile ad una delle confessioni religiose presenti nella comunità politica italiana – sia pure maggioritaria e facente parte della tradizione culturale e spirituale del Paese – si poneva in contrasto con l’obbligo dello Stato di garantire un ambiente scolastico “neutro”, nel senso (non di indifferente alle diverse convinzioni anche religiose ma) di aperto alla molteplicità delle posizioni presenti nel contesto di una moderna democrazia pluralista (parr. 48 ss.).
La sentenza, come noto, aveva dato luogo ad un vasto dibattito in dottrina e nella pubblicistica, di cui è traccia anche negli archivi di questo blog (cfr. il contributo di I. Ruggiu, la pubblicazione dell’intervista di Marta Cartabia all’Avvenire e la pubblicazione dell’intervento di Joseph Weiler dinanzi alla Corte del 30 giugno 2010).
Com’era stato segnalato in uno dei commenti a precedenti post sul tema (a.b. sul post di I. Ruggiu), si è rivelata decisiva – nella sentenza della Grande Camera – la questione del margine di apprezzamento riconosciuto allo Stato nell’osservanza della Convenzione, rilievo peraltro centrale nel ricorso del Governo italiano avverso la sentenza della seconda Sezione. Proprio su questo profilo è necessario soffermarsi, prima di svolgere alcune considerazioni generali sul rapporto tra obbligo di esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche, libertà religiosa e di coscienza, principio di laicità.
Nella sentenza in esame, la Corte lega il margine di apprezzamento alla salvaguardia di tradizioni legate all’esperienza religiosa ed all’universo simbolico che ad essa fa capo, riservandosi la funzione di sindacare la coerenza interna e la ragionevolezza delle previsioni normative e delle prassi statali in ordine al rispetto della Convenzione, con riferimento – nel caso di specie – alla protezione della libertà religiosa. La sussistenza del margine di apprezzamento è dedotta, tra l’altro, dall’asserita assenza di un “vasto consenso europeo” sul tema (profilo aspramente criticato nell’opinione dissenziente del giudice svizzero Malinverni), che giustificherebbe la specifica rilevanza dell’istanza identitaria rispetto all’esigenza di garantire uniformemente i diritti tutelati dalla Convenzione.
Il legame tra margine di apprezzamento e salvaguardia della tradizione e dell’identità dello Stato membro – di per sè non criticabile – è tuttavia ammissibile, come si ricordava, solo nei limiti di un controllo molto puntuale sulle soluzioni concretamente adottate dallo Stato membro, sotto il profilo della loro effettiva incidenza sulla libertà religiosa dei singoli (vedi, sul punto, le penetranti osservazioni di Antonella Ratti, nel post pubblicato ieri). Tale controllo mira, in modo particolare, a neutralizzare le conseguenze potenzialmente negative di una saldatura tra margine di apprezzamento e valutazioni dell’istanza identitaria affidate in modo esclusivo alla maggioranza (vedi, su questo profilo, il saggio di Susanna Mancini su Giurisprudenza Costituzionale, fasc. 5/2009). In altre parole, non si tratta dell’automatica legittimazione di ogni valutazione relativa alla salvaguardia dell’identità nazionale o della tradizione storica e culturale, che si traduca in previsioni normative, orientamenti giurisprudenziali o prassi idonee all’individuazione di un margine di apprezzamento; tutto al contrario, sono ammesse solo quelle soluzioni nazionali che superino lo scrutinio della Corte europea, orientato alla valutazione in concreto dell’incidenza di simili soluzioni sull’effettivo godimento – nel nostro caso – della libertà religiosa (in questo senso vedi la sentenza Ahmet Arslan c. Turchia, 23 febbraio 2010, ma anche, molto significativamente, l’opinione dissenziente del giudice Malinverni). Sulle forme e sulla portata di simile controllo si gioca dunque l’intera partita del bilanciamento tra identità costituzionale nazionale ed effettività della CEDU, orientato – è bene ribadirlo – alla protezione della libertà religiosa.
Appare dunque necessario concentrare queste rapide osservazioni critiche proprio sul modo in cui la Corte ha esercitato tale forma di controllo sulla ragionevolezza del margine di apprezzamento.
La Corte individua, come limite interno alla salvaguardia del margine di apprezzamento nazionale su questa materia, la ravvisabilità di comportamenti attivi volti all’indottrinamento o al proselitismo. In tale contesto argomentativo, pur riconoscendo che l’esposizione del Crocifisso attribuisce visibilità preponderante alla religione (già) maggioritaria, essa ritiene che l’imposizione dell’obbligo di esposizione del Crocifisso non travalichi nell’indottrinamento degli allievi, in linea con quanto a suo tempo sostenuto in relazione a programmi di insegnamento relativi alla cultura religiosa prevalente nello Stato membro (sent. Folgero e altri c. Norvegia del 29 giugno 2007). Vale ricordare – specie ai fini di una riflessione sul rapporto tra margine di apprezzamento e valutazioni maggioritarie dell’istanza identitaria – che, nella sentenza Dahlab (15 febbraio 2001, r. n. 42393/98), pure richiamata, la Corte aveva giustificato il divieto di indossare il velo islamico per l’insegnante, in quanto “segno esteriore forte” suscettibile di incidere sulla sensibilità religiosa degli allievi, con ricadute peraltro assai significative sulla libertà religiosa del singolo (l’insegnante, in questo caso), sulla sua autodeterminazione, sulla sua identità culturale. L’esposizione di un simbolo religioso sulla persona dell’insegnante veniva cioè considerato maggiormente lesivo della libertà religiosa degli allievi rispetto ad un programma di insegnamento incentrato sulla cultura religiosa prevalente o, come nel caso che oggi ci occupa, rispetto all’obbligo di esporre un simbolo religioso – riconducibile alla religione maggioritaria – sulla parete dell’aula scolastica (su questi passaggi, vedi per maggiori dettagli il post di Antonella Ratti). E’ davvero molto difficile trovare un comune denominatore a simili decisioni se non facendo riferimento all’applicazione del principio maggioritario, o quantomeno alla preferenza per “rendite di posizione” di convinzioni religiose tradizionalmente prevalenti. L’interpretazione di concetti come “indottrinamento” e “proselitismo”, in linea di principio riconosciuti come condotte attive rivolte alla trasmissione di un determinato credo religioso, appare mutevole a seconda delle fattispecie ed in definitiva profondamente condizionato da interpretazioni del contesto socio-culturale di riferimento, spesso fortemente influenzate da prospettive “maggioritarie” (nel nostro caso, un ricorso governativo), laddove sarebbero forse preferibili percorsi argomentativi di respiro più ampio, ispirati al paradigma comparativo e ad una considerazione più approfondita dei contesti (vedi, sul punto, il bel post di Renato Ibrido del 18 marzo).
Ma c’è un altro profilo della sentenza – sempre relativo al controllo sul margine di apprezzamento – che merita di essere sottolineato. Rispetto alla sentenza della seconda sezione si registra, infatti, un deciso mutamento di paradigma nell’interpretazione del principio di laicità: all’abbandono della centralità dell’autodeterminazione dei giovani allievi in materia religiosa si accompagna infatti il recupero – nell’interpretazione del principio di laicità – di una prospettiva istituzionale, incentrata cioè sulle relazioni interconfessionali e tra lo stato e le confessioni religiose. Ciò traspare molto chiaramente da uno degli argomenti utilizzati dalla Corte per sostenere la legittimità dell’obbligo di esposizione del Crocifisso come espressione del margine di apprezzamento dell’Italia nell’applicazione della CEDU, vale a dire quello legato all’assenza di intolleranza verso le altre religioni nell’ambiente scolastico (punto 74), come fattore di relativizzazione della portata della preferenza accordata alla confessione maggioritaria attraverso l’obbligo di esposizione del Crocifisso. L’insistenza sul profilo maggioritario e l’associata sottolineatura di atteggiamenti di non intolleranza verso le religioni minoritarie orienta infatti l’interpretazione del principio di laicità privilegiandone la dimensione istituzionale.
In altre parole, e semplificando, ciò che conta non sono i processi di autodeterminazione dei singoli, la loro libertà di coscienza – che era stata invece al centro della sentenza del 2009 – e la tutela di essa di fronte a ingerenze anche meramente simboliche o “passive” da parte dello Stato; l’attenzione è rivolta piuttosto ai gruppi confessionali, alla necessità di una loro rappresentazione in sede scolastica, ad una considerazione delle loro esigenze, secondo un atteggiamento non certo criticabile in linea di principio – la tutela del gruppo può riflettersi in un ampliamento di tutela del singolo anche se non sempre è così – ma esposto all’influenza del principio maggioritario (come evidente proprio nel caso che ci occupa) ed inevitabilmente parziale, nella misura in cui evita di includere nel ragionamento il profilo della protezione di percorsi di autodeterminazione, come espressione del principio di laicità.
Il problema resta infatti, almeno a mio parere, proprio quello dell’intreccio tra principio di laicità, autodeterminazione, contesto di riferimento (l’ambiente scolastico) e imposizione normativa dell’obbligo di esposizione del Crocifisso. Quest’ultimo, seppure non (più) oggetto di coercizione e addirittura desueto in moltissimi istituti scolastici, si pone infatti ancora – e proprio la giurisprudenza sul caso Lautsi ne è un segnale – quale ostacolo all’accoglimento di domande volte alla rimozione del simbolo, tanto in sede amministrativa (anzitutto in seno alla comunità scolastica di istituto), quanto in sede giurisdizionale, entrando in conflitto – oltre che con i diritti dei singoli – anche con l’autonomia scolastica disciplinata dalla legge e protetta dagli artt. 2, 33, e 34 della Costituzione. La cornice scolastica – la comunità di istituto, la comunità di aula – è luogo privilegiato di accompagnamento di processi di autodeterminazione, formazione sociale nella quale il singolo svolge la propria personalità ai sensi dell’art. 2 Cost. it. (ma vedi, in questo senso, anche l’opinione dissenziente del giudice Malinverni, specie per il richiamo alle osservazioni del Comitato ONU per la protezione dell’infanzia). La scuola pubblica, in modo particolare, rappresenta una cornice necessariamente neutra, che accoglie in sé la pluralità di esperienze di vita e cultura presenti sul territorio di riferimento, nel quadro di programmi di insegnamento orientati all’esposizione aperta, critica e pluralista delle diverse opzioni culturali e religiose. Neutralità non nel senso di indifferenza, ma nel senso di apertura alla molteplicità, alla coesistenza, alla cooperazione solidale tra diverse identità culturali, come è proprio di una democrazia costituzionale orientata al pluralismo dei valori. Simile contesto entra inevitabilmente in sinergia con l’autodeterminazione, intesa come espressione della dignità umana (Ridola, La dignità dell’uomo e il principio libertà nella cultura costituzionale europea, in Id., Diritto comparato e diritto costituzionale europeo, Giappichelli 2010, pp. 77 ss., 102 ss., 132 ss.), come libertà che fonda le scelte e definisce l’identità morale (De Monticelli, La questione morale, Raffaello Cortina, 2010, p. 154). Come tale, l’ambiente scolastico non può tollerare l’imposizione di obblighi che finiscano direttamente o indirettamente per qualificarlo, anche se proprio per questa sua vocazione primaria non rimane – non può rimanere – indifferente al contesto culturale, alle convinzioni personali e religiose e all’universo simbolico che ne è espressione. Il ruolo dell’ordinamento giuridico non può essere quello di imprimere una direzione ai processo di autodeterminazione che la cornice scolastica accompagna. Esso dovrebbe riscoprire piuttosto la propria funzione di “luogo di scoperta del giusto” (De Monticelli, op. cit., 156), una scoperta indipendente da predeterminazioni autoritative, frutto di una libertà non (più) guidata (ivi, 184) e che si realizza attraverso l’apertura di spazi di esperienza sempre più vasti e plurali. In quest’ottica, la soluzione di legittimare l’obbligo, giustificandolo sulla base dell’assenza di restrizioni nei confronti delle altre religioni o peggio sulla base di una neanche troppo velata applicazione del principio maggioritario presenta gli stessi svantaggi di un generale divieto di esposizione, che finirebbe per tradurre la neutralità in ostile indifferenza. Sarebbe preferibile piuttosto, in questa come in altre questioni che investono la libertà di coscienza, privilegiare – secondo l’insegnamento di L. Elia – soluzioni facoltizzanti (che potrebbero discendere, al limite, dalla mera eliminazione della previsione normativa dell’obbligo), lasciando la scelta all’autodeterminazione, in questo caso, della comunità scolastica e dei singoli attraverso di essa. Non si esclude, dunque, che la presenza del Crocifisso possa rappresentare un referente simbolico fondamentale, anche da un punto di vista critico, per arricchire l’ambiente scolastico come spazio di esperienza all’interno del quale si articolano processi di autodeterminazione. Bisogna domandarsi piuttosto – ma è argomento che esula, in parte, dal discorso – quanto l’obbligo di esposizione del Crocifisso possa distorcere la valenza del simbolo, declinandola in un senso polemico che non le è proprio, in definitiva esponendolo a contaminazioni lato sensu politiche che dovrebbe preoccupare chi di dovere, piuttosto che far parlare di “vittoria storica”. E’ l’imposizione dell’obbligo, infatti, e non il simbolo in sé, ad impedire di fare dell’ambiente scolastico uno spazio aperto ad ogni simbolo, ad ogni convinzione, privo di condizionamenti autoritativi, in cui lasciar “tornare a respirare” (De Monticelli) l’esperienza giuridica e la partecipazione civile, secondo percorsi di autodeterminazione consapevole, responsabile, solidale, ispirata al dialogo e al confronto.
I bei commenti di Antonella Ratti e Angelo Schillaci alla sentenza Lautsi convergono su di una critica che è rivolta, al contempo, all’argomentazione giuridica adottata dalla Corte (in particolare, sull’uso della dottrina del margine di apprezzamento) ed alla decisione sostanziale adottata.
Schillaci in particolare contrappone alla visione accolta dalla Corte, di un pluralismo condizionato dai contesti culturali di partenza, una concezione molto affascinante dell’autodeterminazione indivuale – rispetto al cui libero sviluppo la scuola dovrebbe farsi garante. Non entro nel merito della critica dell’uso della dottrina del margine di apprezzamento con riferimento alle questioni religiose, su cui sicuramente avremo anche nel prossimo futuro molti interventi e commenti, poiché su questo la Corte manifesta indirizzi mutevoli ed incoerenti. Mi limito alla questione del rapporto tra scuola, società e autodeterminazione individuale, che affronto secondo una disposizione personale pienamente laica, forse radicalmente laica.
Ora, a me sembra che l’autodeterminazione dell’individuo sia anzitutto un percorso indivuale di liberazione dai condizionamenti imposti dai contesti di vita, per rendere libera e consapevole la scelta di questi contesti, trasformandoli e trasformando la propria dislocazione rispetto a questi. In questa prospettiva, in una società pienamente condizionata dal fenomeno religioso in ogni suo momento, è inevitabile che anche la scuola rifletta questo condizionamento. La formazione culturale ed umana che porta all’autodeterminazione è, allora, proprio quel percorso formativo – scolastico, ma anche familiare – che prende coscienza dei condizionamenti culturali ed apprende a distaccarsene, a relativizzare, a discutere. Ben venga, dunque, il crocifisso nella aule, se potrà essere l’occasione per comprendere la condizione della nostra società nazionale per persone che da lì potranno partire per sottoporre questi condizionamenti a processi autodeterminati e autodeterminativi di critica, contestazione, così come di conferma e valorizzazione, secondo le proprie prospettive. Non credo, insomma, ad una scuola rarefatta, “camera sterile” rispetto alla società che è chiamata a descrivere e formare, ma credo, piuttosto, in una scuola come luogo di lotta per l’autodeterminazione.
Il tema della libertá di religione é un tema sicuramente difficile da affrontare. Basti pensare alle grandi questioni che ha dovuto gestire la Corte suprema canadese e penso per esempio alla decisione sulla chiusura domenicale e l´attenzione che i giudici hanno prestato al fatto che il legislatore avesse tenuto in considerazioni variabili ed eccezioni (per esempio il fatto che la legge non si applicasse a chi chiudesse giá il sabato per motivi religiosi) che hanno permesso di considerare proporzionata rispetto ad un determinato obiettivo la disciplina imposta legislativamente e che incideva, solo indirettamente e in via potenziale, con la libertá religiosa di alcuni.
Ma penso anche al caso dell´Hutterian Brethern of Wilson Colony sull´obbligo di avere una foto sulla patente quando un loro comandamento importantissimo é quello di non essere mai fotografati. Anche in questo secondo caso, peró, nonostante una corte di grado inferiore avesse deciso in senso contrario, la Corte suprema ha sancito che l´obbligo fosse legittimo perché recessivo rispetto alla necessitá di evitare il furto di identitá.
Pur essendo d´accordo con a.b. (che sembra sostanzialmente indifferente alla presenza del crocifisso nelle classi o, al massimo, vede il crocifisso,strumento di autodeterminazione attravero il suo rifiuto, in una dimenisone di fatto resistenziale) e, per di piú, convinto che l´integrazione si deve costruire non solo a livello legislativo (penso ad una legge sulla cittadinanza che dia il diritto a tanti giovani figli di immigrati ad avere una “patria”, dato che della loro di origine non sanno spesso neanche la lingua ed hanno sempre vissuto in Italia) ma anche culturale, penso prima di tutto alla lingua, ( ma rimangono anche in costituzione dei limiti ben precisi alla libertá religiosa e, in maniera ancora piú evidente, in materia di organizzazione delle confessioni religiose diverse dalla cattolica), mi domando peró quale sia il fine di questa imposizione, del crocifisso a scuola…ed é forse qui, sul problema della proporzionalitá- declinato nella forma del principio teleologico come per esempio avviene quando si applica in Canada l´Oakes Test, che manca una vera risposta…rispetto a quale fine é legittimo imporre il crocifisso a scuola? davvero si puó risolvere tutto dicendo: “dato che non serve a nulla, né ad indottrinamento, né a proselitismo, che ne parliamo a fare, rientra nel margine di apprezzamento”…qui forse manca la necessaria analisi, anche nella sua dimensione istituzionale, del principio di laicitá e di cosa si debba intendere con neutralitá, dato che non sempre, come dimostra il caso canadese, una legge generale, apparentemente neutrale, é in grado di rispettare tutti i credo religiosi divenendo cosí, inevitabilmente, non piú neutrale e di come, d´altro canto, una legge speciale, su cui il sindacato dovrebbe essere particolarmente stretto, possa essere, sia pur non laicamente, neutrale.
l’aggettivo “resistenziale” per la mia posizione mi riempie di gioia!
Ho apprezzato molto il commento di Angelo ma su un punto mi piacerebbe ottenere una risposta dell’Autore del post: benché capisco la sua sincera interpretazione, come si fa a non parlare di “vittoria storica”? A prescindere da come la si pensi, non si può non sottolineare come più di 20 stati abbiano preso ufficialmente posizione a favore del ricorso italiano (la metà dei quali intervendo esplicitamente in qualità di Amicus Curiae). Questi Paesi hanno vissuto il momento della lettura della sentenza come una semplice conseguenza della vittoria diplomatica che avevano già incassato, “minacciando” la Corte che, di fronte a quello che avevano percepito come un tentativo di rimessa in discussione della loro identità profonda, in quanto detentori ultimi della sovranità sui trattati del sistema CoE, sarebbero stati pronti a far valere una sorta di interpretazione autentica non solo degli stessi ma anche dell’ermeneutica ordinaria del Giudice. Per chi l’ha vissuto da qui, l’impressione suscitata dal fermento diplomatico è stata senza precedenti.
Non a caso, leggo questo pronunciamento come un passaggio cruciale con riferimento ai miei temi. Il fatto è che il sostegno all’Italia di cui sopra unisce quasi tutta l’Europa centrale, orientale e balcanica. Il Patriarca Cirillo di Mosca aveva chiesto di «unire le Chiese contro l’avanzata del secolarismo», il Metropolita Hilarion proposto la costituzione di una «alleanza strategica tra cattolici e ortodossi» per difendere insieme la tradizione cristiana «contro il secolarismo, il liberalismo e il relativismo che prevalgono nell’Europa moderna». Questo fenomeno importante indica che la “transizione democratica” all’Est non si è accompagnata dalla “transizione culturale” fortemente sponsorizzata dall’Ovest. In effetti, si è sempre pensato che l’unità europea si sarebbe fatta ineluttabilmente dall’Ovest all’Est, attraverso una “conquista dell’Est” al liberalismo economico, e culturale dell’occidente. Ora, in modo singolare, il caso Lautsi ha provocato un movimento di senso inverso dall’Est all’Ovest. Per dirne una, come cambierà l’approccio della Corte verso la Turchia dopo tutto ciò? E non ho ancora fatto osservazioni sul Medio Oriente in fiamme…
Grazie per il commento, che apre uno squarcio interessantissimo sui “retroscena”. Quanto al chiarimento che mi chiedi, non negavo il fatto della vittoria – è un fatto, lo sottolinei molto bene – criticavo piuttosto la sua interpretazione trionfalistica, almeno nella misura in cui tradisce la convinzione che da soluzioni anti-secolaristiche o filo-confessionali adottate nella sfera pubblica possano derivare elementi di forza per il valore dei simboli o più in generale per le posizioni e i valori legati a determinate tradizioni religiose. Le Chiese, forse, potranno guadagnare posizioni, ma i valori di cui sono o dovrebbero essere testimoni?
Per farla breve, e fuori dai denti, mi sembra che la vittoria sul piano politico nasconda una sconfitta sul piano spirituale, o quantomeno la certificazione (per giunta trionfalistica) di una debolezza. In questo senso criticavo le affermazioni delle gerarchie, ma ripeto: sulla vittoria “politica” c’è poco da dire, è un fatto.
Caro Angelo,
ti ringrazio sinceramente per questa ulteriore chiarificazione del tuo punto di vista che, ribadisco, trovo molto degno di attenzione. Tuttavia, forse non sono riuscito a fare emergere con nettezza il mio punto di vista perché, nel momento in cui discorrevo dell’importanza della vittoria diplomatica degli Stati che si sono affiancati all’Italia, intendevo mettere in luce la loro prova di idealismo e non già (o non solo) di realismo muscolare.
Con i limitati strumenti dell’intelletto di cui dispongo rispetto al delicato passaggio che esprimi “fuori dai denti”, non riesco proprio a pronunciarmi sul tuo timore per cui “la vittoria sul piano politico nasconderebbe una sconfitta sul piano spirituale”. Ma la mia impressione è che la reazione degli Stati (e delle Chiese) alla prima sentenza CEDU sul caso Lautsi sia avvenuta in sincera sintonia con i sentimenti delle “masse” le quali, assieme agli attori istituzionali, avevano percepito quel pronunciamento come un tentativo di rimessa in discussione della loro identità profonda. Quest’affermazione va presa decisamente con le molle: 1. grandi fette di quelle masse avevano accolto con fervore e come l’ultimo capitolo dell’illuminismo l’idea di staccare il Crocifisso dai muri italiani; 2. portarsi appresso “il popolo” quando si sostiene una posizione è un’operazione che, molto giustamente, viene derisa dal lettore; 3. molti “sondaggi” avvalorerebbero la mia tesi ma trovo che la conta su questi temi sia inutile (e di nuovo risibile).
Ciò nonostante, sarà che seguo con passione la vicenda sin dai suoi primi sviluppi, la mia sensazione è di aver assistito ad un vero e proprio risveglio di una parte importante dell’Europa (di qui le mie considerazioni, che poi mie non sono, geopolitiche.
Di nuovo, potresti rispondermi che le conclusioni politiche non coincidono con quelle spirituali e di nuovo non saprei rispondere. Tuttavia, per quel che vale, ti propongo un’immagine che conservo di quella giornata in cui si è data lettura del dispositivo della sentenza della Camera Grande. Non so se sarà più utile di un sondaggio o se servirà per dare una risposta spirituale, ma ho il ricordo di un’Aula gremita di giovani molto emozionati, a prescindere dalle opinioni politiche e religiose. Il Relatore recitava e tutti lo ascoltavano col fiato sospeso; i più audaci tenendosi per mano…
Trovo condivisibili i rilievi critici avanzati dagli autori dei diversi post. Se la sentenza della seconda camera mi era sembrata povera da un punto di vista delle argomentazioni, questa mi sembra pericolosamente in linea con le letture più riottose e difensive in materia di art. 9 CEDU. E’ infatti ben noto che, mentre in tutti gli altri articoli il margine d’apprezzamento ha da tempo abbandonato un significato di deferenza nei confronti degli stati, è solo nell’art. 9 che la Corte, nonostante qualche piccola evoluzione negli ultimi anni, continua a identificare in modo irriflesso i termini del consensus inquiry con le tradizioni maggioritarie della popolazione. Quando uso l’espressione “irriflesso” intendo dire che la Corte a) né si dà cura di iscrivere i termini del bilanciamento alla luce dei termini concreti della controversia (rilievo del diritto leso, proporzionalità, ecc.) e b) né si cimenta con un esame serio della diffusione dei convincimenti in quella certa società, prestando ad esempio attenzione al ruolo delle minoranze e all’evoluzione dei convincimenti collettivi.
Quanto ad a) trovo infatti bizzarro, se non assurdo, ritenere che l’esposizione obbligatoria e costante di un simbolo così poco neutrale come il crocifisso non esplichi alcun effetto significativo sull’educazione, per di più di soggetti in tenera età. Non è un simbolo astratto o che richiede comunque un’interpretazione: per la fantasia di un bambino ha una fisicità e un’eloquenza difficilmente eguagliabile (ha ragione a.b.: è sufficiente essere padri per saperlo).
Quanto a b), la Corte non si perita in alcun modo di offrire ragioni a supporto della coincidenza tra esposizione del crocifisso e tradizione nazionale: accetta la posizione del governo, e nulla più. Ora, se il margine d’apprezzamento vuole essere uno strumento per la salvaguardia di un ragionevole pluralismo e non per la creazione di zone franche sottratte al controllo della Corte, bisogna partire dalla considerazione che le “tradizioni nazionali” non sono dati di realtà, ma costruzioni artificiali. Le tradizioni non esistono in natura, sono il frutto di discorsi e retoriche che si accumulano nel tempo. Finché è un politico a perorare la tradizioni cattolica italiana mi può anche andare bene, ma che lo faccia una Corte investita del compito di tutelare diritti mi crea non pochi problemi: sulla base di quali elementi i giudici effettuano questa valutazione? C’è un richiamo, che so, all’evoluzione del costume o alla diffusione effettiva dei convincimenti religiosi? C’è un ragionamento serio sugli itinerari costituzionali del principio di laicità? C’è insomma una complessità storica e sociale che, pur non essendo compito di una corte prendere in esame, non può essere trascurata in modo apodittico. In assenza di tutto questo, dire che la tradizione italiana è cattolica mi sembra poco più di un rozzo sociologismo.
Per di più con la conseguenza, questa sì pericolosa per una corte che si occupa di diritti, che i non credenti o i credenti di altre religioni non sono ammessi a far parte di questa “identità profonda”.
Infine, non riesco a comprendere in che senso la Corte (par. 70) si riservi il compito di sorvegliare in futuro sulle condizioni di rispetto del diritto: cosa deve succedere perché la Corte torni sui propri passi? Mi sembra che, anche in questo caso, l’espressione sia piuttosto una clausola di stile per celare una decisione molto, forse troppo, deferente nei confronti della ragion di stato.
p.s. sottopongo alla discussione un profilo secondo me un po’ trascurato: ma è proprio così evidente che la previsione dell’obbligo di esposizione in un regio decreto di natura regolamentare sia sufficiente a soddisfare il requisito della legalità della misura restrittiva?
Mi permetto di intervenire in questo dibattito cercando di aggiungere alcuni spunti critici alla discussione, senza la pretesa di fornire alcuna risposta e scaricando il compito sui più esperti.
Ciò che mi ha colpito fin dalla lettura del comunicato stampa, e poi è stato confermato dalla lettura della sentenza, è stata la sensazione di un ragionamento “a ritroso” della corte, cioè partendo dal risultato finale della pronuncia per risalire alle motivazioni, come se la Corte si fosse trovata di fronte ad un passo che si è resa conto di non avere l’autorità di compiere. Le considerazione contenute nel post di Alessio Pecorario, e lo scorcio fornito sul lavoro diplomatico che ha preceduto la sentenza, in qualche modo mi sembrano confortare questa sensazione.
Di fronte a questa contrainte, la Corte mi è sembrata tuttavia scegliere una via che non rinuncia affatto a difendere le più importanti affermazioni di principio contenute nella sentenza della Seconda Camera, e in particolare non si piega al riconoscimento della singolare metonimia proposta dal Governo Italiano (e non solo) e già contenuta nelle sentenze del TAR e del Consiglio di Stato, per cui il Crocifisso, nel suo rappresentare una parte delle radici della cultura civile italiana, sta appeso nelle aule scolastiche a rappresentarle tutte. La Corte mi sembra invece giocare essenzialmente su un profilo direi quasi “fattuale”, non rilevando in concreto, e in relazione al contesto generale, il raggiungimento di quel limite minimo di impatto sul fanciullo che giustificherebbe il rilevamento della violazione (par. 66). L’applicazione del margine di apprezzamento, quindi, se è motivata ampiamente su una presunta assenza di consenso europeo sul tema, è di fatto incentrata nel cuore della sentenza piuttosto su un principio che ricorda piuttosto quello del de minimis non curat praetor, nel senso che pure in presenza di una potenziale violazione di un principio, ma in assenza di una condizione che di fatto intacca concretamente un diritto garantito dalla Convenzione, il giudice di europeo leva le armi e chiede al dibattito politico nazionale di essere all’altezza dei temi trattati.
E su questo ultimo punto vorrei sollecitare le vostre considerazioni, visto che il ruolo “contro-maggioritario” della CEDU si fonda su un delicato bilanciamento non solo con le istanze maggioritarie, ma con lo stesso meccanismo democratico che conduce alle prese di decisione, nel quale le minoranze non sono prive di ogni possibilità di intervento. Indipendentemente dalle necessità “diplomatiche”, insomma, non credo che sia necessariamente un male che in questo ambito la “palla” torni nel campo della politica, tanto più che la Corte non ha rinunciato nella sentenza a porre degli importanti paletti.
Ciò detto, vorrei precisare che sono d’accordo con la maggior parte delle considerazioni fatte dal Dott. Schillaci e dalla Dott.ssa Ratti riguardo alle ambiguità che sorgono da questo tipo di atteggiamento. In particolare, mi sembra che la sentenza contenga un equivoco quando sostiene che la rimozione del crocifisso significherebbe non un passo indietro dello Stato di fronte ad un’opzione filosofica, ma bensì la scelta di un campo, per l’appunto quello della laicité. Condivido, invece l’opinione del Dott. Schillaci nel senso che la scelta della neutralità dello Stato nella predisposizione dello spazio educativo non sia una scelta di campo, ma l’applicazione di un metodo che è l’unico compatibile con il rispetto non solo e non tanto del diritto dei genitori a fornire ai figli un’istruzione conforme alle loro opinioni religiose e filosofiche, ma della stesso carattere pluralista dell’istruzione, che è un fondamento imprescindibile della “società democratica” cui si riferisce la Convenzione. Si tratta, cioè, non dell’adesione alla neutralità come dogma, ma dell’utilizzo della neutralità come metodo, tra l’altro limitatamente a ciò che si impone, e non a ciò che si permette. La sentenza forse si tiene troppo alla larga da queste considerazioni, e, incentrando il ragionamento sul bilanciamento tra il diritto dei genitori a educare i propri figli secondo le loro convinzioni filosofiche e il margine di apprezzamento lasciato agli Stati per la promozione delle loro identità culturali e delle loro tradizioni nell’istruzione, rischiando così di far rientrare dalla finestra quell’identificazione tra un simbolo di parte e il tutto del sostrato pluralista della cultura nazionale.
Due ulteriori questioni che mi lasciano perplesso:
par. 68: “… It is not for the Court to take a position regarding a domestic debate among domestic courts”.
Mi pare un passaggio poco condivisibile.
par. 74: “… the beginning and end of Ramadan were often celebrated in schools; and optional religious education could be organised in schools for all recognised religious creeds”.
Ma sono vere queste informazioni che il Governo ha fornito alla Corte e che la Corte assume per sostenere la propria argomentazione? Più in generale, c’è stata una verifica sulla veridicità di queste informazioni? E quali sono, nel diritto italiano, i “recognised religious creeds”?
La prima è una clausola di stile che la Corte usa spesso quando è chiamata a risolvere una questione di interpretazione del diritto nazionale che non è decisa univocamente dalle corti interne. ciò, il più delle volte, non le impedisce di dire la sua (ricordo qualcosa di analogo nel filone sull’insindacabilità parlamentare).
La seconda questione mi pare più rilevante: che esame ha svolto la Corte sulla rappresentazione fornita dal Governo? Quasi nulla, contrariamente a quanto ci ha abituato in relazione a tante altre materie. L’ho scritto, secondo me questo è uno dei più evidenti punti deboli della sentenza.