L’ultima decisione sul velo del Bundesverfassungsgericht tra continuità e discontinuità giurisprudenziale
Nell’ambito della giurisprudenza dei paesi europei e della Corte europea dei diritti dell’uomo, la posizione del Bundesverfassungsgericht sulla questione del velo islamico si è contraddistinta per un tendenziale favore per la libertà religiosa dell’insegnante. Così, almeno, si era orientato il secondo Senato del Tribunale costituzionale nella prima sentenza sul velo del 2003, ritenendo incostituzionale un provvedimento di inidoneità all’insegnamento pronunciato in base alla legge sull’impego pubblico del Baden-Württemberg. Al contempo, il Tribunale aveva stabilito che era necessaria una più accorta ponderazione tra i diversi diritti e principi in gioco: la libertà religiosa positiva dell’insegnante e il principio di parità nell’accesso agli impieghi pubblici, da un lato, il diritto dei genitori all’educazione dei propri figli, la libertà religiosa negativa di questi ultimi, il principio di neutralità e il compito educativo dello stato, dall’altro. Tale ponderazione avrebbe dovuto essere effettuata in prima battuta dai legislatori dei Länder, dopo un dibattito pubblico che avrebbe dovuto tenere conto, fra l’altro, dell’impatto delle norme proposte sulle singole comunità religose (BVerfGE 108, 282, del 24 settembre 2003).
La seconda e al momento ultima sentenza del BVerfG su questa materia risale alla fine di gennaio 2015 (ma è stata pubblicata solo a marzo) e riguarda la legittimità costituzionale di una legge del Land Nordrhein-Westfalen approvata nel 2006 sulla scorta delle indicazioni date dal Tribunale costituzionale nella prima decisione (BVerfG, 1 BvR 471/10, del 27 gennaio 2015). La pronuncia è stata presa 6 : 2 dal primo Senato, che ha salvato alcune norme della legge, richiedendo però che di esse fosse data un’interpretazione conforme a costituzione. Di un’altra norma è stata invece dichiarata l’incostituzionalità. I giudici dissenzienti hanno contestato alla maggioranza di essersi discostata dal precedente del 2003 senza un’adeguata giustificazione.
La legge del Nordrhein-Westfalen aveva stabilito il divieto per gli insegnanti di «dare qualsiasi testimonianza esteriore di carattere politico, religioso o comunque relativa a una concezione del mondo» che fosse in grado di «mettere in pericolo o di disturbare» la neutralità confessionale dello stato in ambito scolastico (§ 57 comma 4 frase 1 SchulG NW). In particolare, la legge aveva vietato «qualsiasi comportamento idoneo a suscitare presso gli studenti o i genitori l’impressione che un insegnante potesse adottare un contegno contrario alla dignità umana, al principio di eguaglianza, ai diritti fondamentali o all’ordinamento fondamentale liberal-democratico del GG» (§ 57 comma 4 frase 2 SchulG NW). Seguiva una norma secondo cui queste prescrizioni non dovevano considerarsi violate per l’assunzione, da parte del Land, di un compito educativo volto ad insegnre agli alunni un profondo rispetto verso Dio, a trasmettere loro i valori cristiani e a rappresentare i «valori e le tradizioni culturali cristiane e occidentali» (§ 57 comma 4 frase 3 SchulG NW). Sulla base di tali norme, il dirigente di una scuola aveva ammonito una pedagogista che, pur avendo accettato di non portare il velo durante le lezioni, lo aveva sostituito con un cappello di lana e con un pullover a collo alto del medesimo colore. Un’altra insegnante era stata dapprima ammonita e poi licenziata per essersi rifiutata di togliere il velo in classe. I provvedimenti erano stati confermati dalla corte federale del lavoro. Entrambe le donne, ricorrenti dinanzi al BVerfG, erano cittadine tedesche di religione musulmana.
Il primo Senato ha seguito, per buona parte della sua motivazione, gli argomenti sviluppati dal secondo Senato nel 2003, riconfermando la tendenziale prevalenza della libertà religiosa sui beni con essa confliggenti. Mentre, tuttavia, la sentenza del 2003 si era limitata a tratteggiare le linee generali della ponderazione, da effettuare alla luce del principio della praktische Konkordanz, per poi affermare la neccessità di una legge statale specifica, qui i giudici hanno effettuato un esame più articolato, applicando il principio di proporzionalità fino allo stadio della cd. proporzionalità in senso stretto. Sono tornati quindi a considerare tutti i diritti e i principi coinvolti, evidenziando – tra l’altro – come la portata della libertà religiosa dovesse intendersi a partire dall’autocomprensione (Selbstverständnis) della comunità religiosa di appartenenza e delle titolari del diritto. Da questa angolatura, lo stato avrebbe dovuto bensì accertare effettivamente il carattere religioso della motivazione che spingeva le donne ad indossare un determinato capo di abbigliamento (a questo proposito i giudici hanno richiamato due sure del Corano), dovendo tuttavia restare estraneo a una valutazione sulla verità o falsità di determinate asserzioni religiose. Quanto al principio di neutralità, il BVerfG ha ripreso pressoché testualmente il precedente del 2003, relativamente ai passaggi sull’«apertura rispetto alla molteplicità delle convinzioni del mondo e religiose» e sulle radici che tale apertura ha in un’«immagine dell’uomo che è plasmata dalla dignità e dal libero sviluppo della personalità». Il Tribunale ha ribadito inoltre le considerazioni, sviluppate fin dalla sentenza sul crocifisso (BVerfGE 93, 1, del 16 maggio 1995), relative alla differenza della portata simbolica di quest’ultimo rispetto al velo islamico: mentre il crocifisso deve considerarsi un simbolo il cui significato, legato alla fede cristiana, viene fatto proprio e imposto dallo stato, il velo islamico deve intendersi come un simbolo dall’impatto più circoscritto sugli studenti e non fondamentalmente coercitivo, poiché esso viene introdotto nelle aule in seguito a una scelta individuale.
La novità principale dell’argomentazione dei giudici di maggioranza, nella sentenza del 2015, riguarda il giudizio di proporzionalità in senso stretto, alla luce del quale il primo Senato ha ritenuto giustificabile una compressione della libertà religiosa della donna solo qualora risulti un «pericolo concreto» per la convivenza pacifica all’interno della comunità scolastica e per la neutralità dello stato. Quali segnali della sussistenza di un pericolo concreto siffatto, i giudici hanno individuato una «perorazione esplicita [dell’insegnante] in favore della propria fede o il tentativo di influenzare gli studenti attraverso il suo comportamento». Non sarebbe invece stato sufficiente un pericolo astratto, coincidente con il solo fatto di indossare il velo islamico. I giudici hanno ammesso, comunque, che in alcune scuole e in alcuni distretti la situazione avrebbe potuto essere tale da far presumere, in astratto ma con elevata probabilità, l’emersione di conflitti interni alla comunità scolastica. Solo in questi casi il legislatore del Land avrebbe potuto vietare alle insegnanti il velo islamico, in via generale e preventiva, ma limitatamente alle zone interessate e autorizzando per le disposizioni di dettaglio l’emanazione di norme regolamentari. Sulla base di queste considerazioni, i giudici hanno ritenuto che delle prime due proposizioni normative del § 57 comma 4 potesse essere data un’interpretazione costituzionalmente conforme, caratterizzata dall’inserzione del requisito ulteriore del «pericolo concreto». Hanno invece ritenuto incostituzionale la terza frase del medesimo comma, data l’univocità del dato testuale che introduceva un inammissibile privilegio per le religioni cristiane.
Una seconda novità della sentenza del 2015 riguarda i parametri di costituzionalità: accanto a quelli utilizzati nella decisione del 2003 e richiamati più in alto, sono stati esaminati gli art. 3 comma 2 GG, sul divieto di discriminazione in base al genere, la legge federale sulla parità di trattamento (Allgemeines Gleichbehandlungsgesetz) e gli art. 9 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Quanto al primo di questi parametri, i giudici hanno ritenuto che la norma sul divieto di testimoniare la propria fede con segni esteriori, benché a prima vista neutrale, costituisse una forma di discriminazione indiretta nei confronti delle donne islamiche, poiché – data la prescrizione religiosa di portare il velo – finiva per colpire soprattutto queste ultime. L’Allgemeines Gleichbehandlungsgesetz era rilevante perché, in quanto legge federale, avrebbe dovuto prevalere sulla legge di un Land. I diritti della CEDU, infine, erano stati invocati sia alla luce della giurisprudenza del Tribunale in merito all’integrazione tra norme costituzionali e norme della Convenzione, sia perché quest’ultima, trasposta nell’ordinamento interno con una legge federale, doveva considerarsi preminente rispetto a una legge del Land. Con riguardo a tali parametri il primo Senato è giunto alle medesime conclusioni alle quali lo avevano condotto quelli consolidati: interpretazione conforme per le prime due norme, dichiarazione di incostituzionalità per la terza.
Qualche parola merita l’opinione dissenziente dei giudici Schluckebier e Hermanns che, come accennato, hanno rimproverato alla maggioranza di non aver seguito il precedente del 2003. In effetti, nella motivazione della prima decisione, si diceva espressamente che avrebbero potuto sussistere «buone ragioni per attribuire all’obbligo di neutralità dello stato in ambito scolastico un significato più rigido e maggiormente distanziante […]» e che quindi «sarebbe stato possibile [per i legislatori dei Länder] tenere lontani gli studenti dai riferimenti religiosi trasmessi dall’immagine esteriore di un’insegnante, allo scopo di evitare anticipatamente conflitti con gli studenti, con i genitori o con l’altro personale docente» (BVerfGE 108, 282, 310). È stato questo punto ad essere l’oggetto principale delle prime riflessioni dei costituzionalisti tedeschi, divisi sulla valutazione di affermazioni siffatte come parte della ratio decidendi o come obiter dicta, ma anche – a monte – sull’utilità stessa di tale distinzione e sulla eventuale necessità di investire il plenum ai sensi del § 16 BVerfGG (v. i commenti di C. Möllers, M. Hong, H.M. Heinig su www.verfassungsblog.de). È nondimeno vero, però, che la sentenza del 2003 aveva già fatto riferimento all’insufficienza di un «pericolo astratto», tanto che il Sondervotum di allora (redatta dai giudici Jentsch, Di Fabio e Mellinghoff) aveva contestato il ricorso a tale categoria dogmatica, sia perché essa era stata elaborata originariamente nel diverso ambito del diritto di polizia, sia perché sarebbe stato comunque sufficiente il giudizio prognostico del dirigente scolastico sull’idoneità della candidata.
Quanto agli ulteriori argomenti, i giudici dissenzienti hanno sostanzialmente ripreso quelli formulati nel Sondervotum del 2003, relativi alla titolarità attenuata dei diritti fondamentali per gli impiegati pubblici, al considerevole effetto dispiegato dal simbolo del velo islamico sugli studenti, alla sufficienza dell’accertamento di un pericolo astratto. Con riguardo invece ai nuovi parametri, essi hanno sostenuto la non pertinenza del riferimento al principio di non discriminazione di genere, poiché il divieto per un insegnante di manifestare esteriormente la propria fede sarebbe stato indirizzato in maniera indifferenziata agli uomini e alle donne. Le norme convenzionali e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, infine, sono state valorizzate non tanto perché avevano riconosciuto agli stati un ampio margine di apprezzamento nell’ammettere o vietare il velo islamico nelle scuole, ma soprattutto perché avevano confermato decisioni di altri paesi basate su una concezione più rigida del principio di laicità e su una maggiore compressione della libertà religiosa della donna islamica.
Questo dissenso ripetuto è il riflesso di una forte divisione sulla questione dell’esposizione dei simboli religiosi all’interno della società tedesca, a livello nazionale e all’interno dei Länder. Poco dopo l’emanazionedella sentenza, peraltro, il governo della Baviera ha dichiarato che non avrebbe sospeso l’applicazione delle norme bavaresi corrispondenti a quelle del Nordrhein-Westfalen colpite dal BVerfG (cfr. l’intervento di H.P. Aust in www.verfassungsblog.de). Se però si intende la pronuncia del 2015 come uno svolgimento e un perfezionamento di quella del 2003, è difficile immaginare per il futuro un cambiamento di rotta, nonostante le critiche non del tutto inappropriate alla disinvoltura con cui i giudici costituzionali hanno trattato il precedente del 2003 e nonostante le non irrilevanti implicazioni federalistiche della sentenza. Piuttosto, questa decisione sembra potersi intendere come un rafforzamento dell’approccio tedesco alla questione del velo islamico, approccio maggiormente incline a rendere percepibile negli spazi pubblici il pluralismo religioso frutto dell’autocomprensione dei gruppi e delle singole persone.