Lo scioglimento anticipato dell’Assemblea nazionale francese, ennesimo esempio dello squilibrio dell’iperpresidenzialismo della Quinta Repubblica
La decisione annunciata dal presidente francese Emmanuel Macron la sera del 9 giugno ha destato grande sorpresa e sconcerto. Se, infatti, i risultati delle elezioni europee non hanno smentito le previsioni formulate dai sondaggi, niente lasciava presagire la reazione immediata del presidente con una risposta istituzionale di tale portata, tanto più che l’ipotesi dello scioglimento anticipato, invocata durante la campagna elettorale dai leader del Rassemblement national Jordan Bardella e Marine Le Pen, era stata esplicitamente esclusa quasi con scherno, biasimando l’errore di chi avrebbe preteso di nazionalizzare uno scrutinio europeo.
Da quanto tempo il presidente vagliasse tale ipotesi non è dato sapere. Si sa, invece, che la decisione definitiva sarebbe stata presa con pochi intimi consiglieri nei momenti immediatamente successivi alla diffusione dei risultati dello spoglio. Dopo averla comunicata ai ministri e ai presidenti delle assemblee e annunciata alla nazione con il discorso televisivo trasmesso in diretta alle 21 del 9 giugno, il presidente ha quindi firmato il decreto di scioglimento e, contestualmente, quello di indizione delle nuove elezioni. Mentre sorpresa e sconcerto, soddisfazione e paura, continuano a dominare i sentimenti dell’opinione pubblica, catapultata senza soluzione di continuità da un’elezione ad un’altra (brevissima) campagna elettorale, per i costituzionalisti è anche il momento dell’analisi. Questo scioglimento anticipato, il sesto nella storia della Quinta Repubblica e il primo dall’introduzione del quinquennato presidenziale, presenta infatti diversi profili di interesse dal punto di vista giuridico.
Una scadenza elettorale troppo vicina?
Il primo profilo, attualmente al vaglio del Consiglio costituzionale in quanto giudice elettorale delle legislative, concerne la data delle elezioni e le sue conseguenze in termini di organizzazione delle operazioni preelettorali.
Il decreto di indizione delle elezioni dell’Assemblea nazionale, pubblicato il 10 giugno, fissa la data del primo turno dello scrutinio al 30 giugno (anticipata al 29 nelle circoscrizioni d’Oltremare). Contro tale decreto sono stati presentati dodici ricorsi, tra l’11 e il 18 giugno, per motivi parzialemente diversi, ma tutti verosimilmente fondati su presunte violazioni di principi connessi col diritto di voto e la libertà delle elezioni.
L’articolo 12 della Costituzione francese, nel disciplinare lo scioglimento, dispone che le elezioni per il rinnovo dell’assemblea debbano tenersi entro un termine che va dai 20 ai 40 giorni a decorrere dallo scioglimento. Convocando gli elettori per il 30 giugno, il presidente ha optato per il termine più breve, che secondo alcuni dei ricorsi, non sarebbe pienamente rispettato con riferimento alle elezioni anticipate al 29 nelle circoscrizioni di Oltremare (sul dibattito in merito all’inizio del decorso del termine – la data di adozione del decreto, quella della pubblicazione, o il giorno successivo alla pubblicazione – si rinvia a questo commento). Ammettendo che la data fissata sia conforme all’articolo 12, viene contestato al decreto di aver violato altre disposizioni in materia elettorale, di natura legislativa e costituzionale.
L’associazione ADELICO (Association de défense des libertés constitutionnelles, fondata da giuristi e politologi sul modello dell’American Civil Liberties Union e molto attiva sul piano contenzioso) contesta in particolare l’impossibilità di rispettare i termini previsti dal Codice elettorale in materia di deposito delle candidature, in violazione dei principi di libertà e sincerità delle elezioni.
Vi sono invero due precedenti nei quali, investito di ricorsi di analogo tenore in occasione delle elezioni anticipate indette dal presidente Mitterand all’indomani della sua elezione nel 1981 e poi nel 1988, il Conseil aveva affermato che “le disposizioni di natura costituzionale prevalgono necessariamente, per quanto riguarda i termini disposti per l’organizzazione della campagna elettorale e la presentazione delle candidature, sulle disposizioni del Codice elettorale” (Dec. n. 81-1 ELEC, Delmas, ripresa poi dalla dec. n° 88-1027/1028/1029). Prendendo atto dell’incongruenza tra le disposizioni del Codice elettorale e l’art. 12, il Consiglio aveva peraltro osservato che le disposizioni sui termini in materia di operazioni preelettorali “non riguardano l’ipotesi di elezioni successive allo scioglimento anticipato”, facendo intendere che il legislatore avrebbe dovuto, per queste ultime, prevedere dei termini derogatori, che tuttavia non sono mai stati esplicitamente codificati, con grave vulnus della certezza del diritto in materia di libere elezioni e di esercizio delle libertà democratiche. A tal proposito, la QPC, indisponibile allora, potrebbe costituire uno strumento per contestare l’incostituzionalità delle disposizioni elettorali laddove non prevedono esplicitamente dei termini derogatori in caso di elezioni indette a 20 giorni dallo scioglimento. D’altronde, delle due l’una: o la fissazione di termini adeguati all’ipotesi più breve prevista dall’art. 12 è conforme agli altri principi costituzionali, e allora è bene che il legislatore sia obbligato a prenderne atto; o non lo è, e allora un’interpretazione alla luce di tali altre esigenze costituzionali si impone.
Per quanto le possibilità di successo di questi ricorsi appaiano scarse, gli argomenti a supporto di una domanda di rinvio dell’elezione non mancano. La Costituzione, infatti, non impone un termine preciso, ma fissa una finestra all’interno della quale le elezioni debbano svolgersi, al fine di assicurare una continuità alle istituzioni democratiche nel più breve tempo possibile, tanto più che per prassi anche il Senato sospende i suoi lavori a seguito dello scioglimento della camera bassa. Tale esigenza costituzionale va però conciliata con altri principi di egual rango. Nel corso della deliberazione che aveva portato a dichiarare legittimo il termine previsto dal decreto del 1981, Georges Vedel aveva ammonito sulla necessità “di prendere le dovute precauzioni affinché l’interpretazione data […] non permetta, a causa di una decisione precipitosa, di infrangere la libertà o la sincerità del voto, ipotesi che si concretizzerebbe se gli elettori non avessero il tempo di essere informati sulle intenzioni e i programmi dei diversi partiti”. C’è perciò da chiedersi se non ci troviamo proprio davanti ad una di queste ipotesi, dato che lo scenario è completamente diverso da quello su cui il Consiglio è stato chiamato a decidere in passato. Nel 1981 e nel 1988, infatti, si usciva da campagne presidenziali nelle quali gli stessi partiti concorrenti per le legislative avevano potuto presentare dei programmi in materia di politica nazionale. Oggi invece le elezioni sono indette al seguito di una campagna per le elezioni europee e, per di più, si assiste ad una riconfigurazione dell’offerta politica, a destra come a sinistra. Meno di due settimane di campagna ufficiale, dal 17 al 28 giugno, con delle formazioni politiche parzialmente inedite, possono essere considerate sufficienti al corretto svolgimento di libere elezioni democratiche? Gli argomenti costituzionali a supporto di una domanda di rinvio non sembrano del tutto infondati.
Ma concretamente, il Consiglio potrebbe rinviare lo scrutinio? Si oppongono a questa possibilità altre considerazioni, di natura non strettamente giuridica. Al di là dell’opportunità di una decisione che vada ad incidere su un contesto politico così delicato (e che senz’altro esporrebbe l’organo a veementi critiche, in particolare da parte di quelle forze politiche che già mal sopportano la sua esistenza), vi sono ostacoli di ordine pratico: la difficoltà di organizzare uno scrutinio nel giorno delle celebrazioni del 14 luglio e la necessità di preparare l’apertura delle Olimpiadi che avrà luogo il 26 luglio. Sono probabilmente le ragioni per le quali il presidente si è premurato di indicare “l’urgenza” tra i fondamenti giuridici (e in questo caso anche fattuali, è il caso di precisare) sulla base dei quali è stato emanato il decreto (“vu l’urgence” appare tra i visa del decreto, dopo i riferimenti normativi). È però legittimo chiedersi: se le tempistiche rendevano così difficile l’organizzazione di una consultazione elettorale, non era forse auspicabile, anziché piegare le esigenze democratiche all’“urgenza” del contesto, adeguare invece le esigenze di strategia politica agli imperativi dell’agenda istituzionale e posticipare la reazione presidenziale ?
Si tratta di considerazioni che in parte esulano, per la loro componente politica, dalle finalità del presente commento, e tuttavia si intersecano con un’altra questione giuridica fondamentale. A chi spettava la valutazione in merito? È il presidente che prende da solo la decisione, in quanto gli articoli 12 e 19 fanno dello scioglimento un potere formalmente e sostanzialmente presidenziale, un pouvoir propre che questi esercita senza controfirma. Ma la Costituzione prevede procedure consultative volte ad assicurare la partecipazione di altri attori al procedimento di formazione della decisione presidenziale. A questo proposito, si può deplorare una prassi che ha svuotato di senso tali consultazioni e che va oggi a confortare un esercizio solitario del potere presidenziale.
Una prassi che mortifica le consultazioni e avalla un esercizio solitario del potere presidenziale
L’articolo 12 prevede, al primo comma, che “il Presidente della Repubblica può, previa consultazione del Primo ministro e dei presidenti delle assemblee, pronunciare lo scioglimento dell’Assemblea nazionale”. L’articolo 19 include lo scioglimento tra gli atti che il presidente esercita senza controfirma.
Nel caso di specie, si è appreso dalla stampa e dal fotografo ufficiale dell’Eliseo come il Primo ministro Attal e la presidente della camera bassa Braun-Pivet siano stai informati della decisione presa, contestualmente ad altri ministri e membri della maggioranza presidenziale. Yaël Braun-Pivet avrebbe invocato proprio l’articolo 12, richiamando il presidente Macron al suo obbligo di consultarla in maniera privata e confidenziale, ottenendo così un breve scambio in un’altra stanza. Dopo averla annunciata agli esponenti della sua maggioranza, Macron ha quindi telefonato al presidente del Senato Gerard Larcher per comunicargli la decisione presa, della quale quest’ultimo ha “preso atto”. Tutti presi alla provvista dalla decisione, non solo hanno espresso il loro disaccordo, ma hanno lamentato in maniera più o meno esplicita il loro disappunto per l’impossibilità di formulare le proprie riserve prima della determinazione della decisione.
Non si tratterebbe di una rottura, ma di una prassi consolidatasi già in occasione delle precedenti decisioni di scioglimento, secondo la quale la consultazione era stata derubricata a mera informazione, suscettibile di essere comunicata ai tre organi simultaneamente, ed anche contestualmente ad altre persone. Il fatto che si tratti di una pratica invalsa sulla Quinta Repubblica non significa però che la si debba considerare come una consuetudine costituzionale legittima. Sembra si tratti piuttosto di una prassi contra constitutionem che priva la disposizione della sua ragion d’essere.
Sebbene consultazioni non vincolanti da parte di un organo cui appartiene l’interezza del potere decisionale possano sembrare una pura formalità, non si può non riconoscere come esse partecipino appieno alla composizione di quel delicato sistema di pesi e contrappesi che tende ad assicurare l’equilibrio tra i poteri e nel loro esercizio. Un sistema che è fatto non solo di poteri di agire e di impedire, ma anche di poteri di consigliare e di influenzare.
Una consultazione può concorrere a quest’equilibrio solo se è tale da consentire all’autorità consultata di esercitare una moral suasion, una magistratura di influenza, in modo da contribuire ad una decisione éclairée, grazie all’opinione di organi che i costituenti hanno ritenuto utile inserire nel circuito della decisione. La Costituzione francese dice, insomma, che il presidente può prendere da solo la decisione definitiva, ma che a tale decisione deve pervenire a seguito di un procedimento deliberativo che includa il dialogo con i rappresentanti della nazione, nonché di quell’organo nei confronti del quale la decisone sarà presa. Non si può che convenire con la presidente dell’Assemblea nazionale che una comunicazione collettiva sulla decisione già presa non corrisponde affatto ad una consultazione, che richiederebbe invece un confronto confidenziale faccia a faccia, nella quale la persona consultata possa quanto meno cercare di contribuire alla determinazione della decisione, al suo contenuto, alle tempistiche, all’anticipazione delle conseguenze, e non limitarsi a prendere atto di una volontà già fermamente consolidata.
Poiché ha il potere di decidere da solo, tanto vale che agisca da solo come gli sembra opportuno: questo il leitmotiv che accompagna le evoluzioni della prassi della Quinta Repubblica sotto il segno della presidenzializzazione, rafforzata di recente dagli imperativi dell’emergenza, dell’urgenza, della ricerca del più utile risultato nel più breve tempo. Aver snaturato, fino a di fatto sopprimere, tali consultazioni è sintomatico delle derive di questa presidenzializzazione, nella quale il capo dello Stato, rafforzato nei suoi poteri dalla lettera della Costituzione e dalla legittimazione data dall’investitura democratica, tende ad accentrare il potere decisionale fino ad allargare i limiti della sua funzione, che si tratti di esercitare pienamente i propri poteri, o di agire indirettamente attraverso quelli del suo governo (non si dimenticherà che si deve alla decisione del presidente, più che della Prima ministra, l’aver fatto uso di tutto l’arsenale di strumenti messi a disposizione del governo per far approvare la riforma delle pensioni). Il prezzo dell’efficienza e della governabilità, in Francia, è un sistema che manca gravemente di contropoteri e che finora deve il suo equilibrio quasi esclusivamente alla capacità di autoregolazione del monarque républicain, “capo di tutto e responsabile di niente”, come deplorava François Hollande, che pure come altri si è poi adattato al ruolo. Sono queste le istituzioni della Quinta repubblica che vengono lasciate in eredità alle forze politiche che democraticamente accederanno al potere, anche se lo scenario potrebbe cambiare in caso di coabitazione e/o di sparizione del fait majoritaire a seguito delle prossime elezioni, mettendo tra parentesi la prassi presidenzialista… perlomeno fino al 2027.