L’intervento di Joseph Weiler alla Corte di Strasburgo sul crocifisso
E’ attesa a giorni la sentenza della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Lautsi contro Italia.
Diritticomparati ha già pubblicato un’intervista a Marta Cartabia sul tema del crocifisso nei luoghi pubblici. Pubblichiamo oggi l’intervento di Joseph Weiler, che ha ha avuto grande risalto nell’opinione pubblica.
INTERVENTO ORALE DEL PROFESSOR J.H.H. WEILER IN RAPPRESENTANZA DI ARMENIA, BULGARIA, CIPRO, GRECIA, LITUANIA, MALTA, DELLA FEDERAZIONE RUSSA E DI SAN MARINO – STATI CHE INTERVENGONO COME TERZE PARTI NEL CASO LAUTSI INNANZI ALLA GRANDE CAMERA DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
30 GIUGNO 2010
Mi chiamo Joseph H.H. Weiler, professore di diritto presso la New York University e professore onorario presso la London University. Ho l’onore di rappresentare i governi dell’Armenia, della Bulgaria, di Cipro, della Grecia, della Lituania, di Malta, della Federazione Russa e di San Marino. Tutte le Terze Parti sono dell’avviso che la seconda Camera ha sbagliato nel suo ragionamento, nella sua interpretazione della Convenzione e nelle sue susseguenti conclusioni.
Il Presidente della Grande Camera mi ha spiegato che le Terze parti non possono entrare nei dettagli di un caso, ma si debbono limitare a trattare i principi generali sottostanti il caso, ed una sua possibile soluzione. Il tempo a disposizione è di 15 minuti, di conseguenza toccherò solamente solo gli argomenti più essenziali.
La Camera, nella sua decisione, formula tre principi chiave: gli Stati che intervengono sono pienamente d’accordo con due di essi, ma dissentono decisamente dal terzo.
Concordano pienamente con il principio che la Convenzione garantisce agli individui sia la libertà di religione, sia la libertà dalla religione (la libertà religiosa positiva e negativa), ed essi concordano pienamente sulla necessità che un’aula scolastica educhi alla tolleranza e al pluralismo.
La Camera formula anche un principio di “neutralità”: «Il dovere dello Stato di neutralità e imparzialità è incompatibile con ogni genere di potere da parte sua di valutare la legittimità delle convinzioni religiose o i modi d’espressione di quelle convinzioni».
Da una tale premessa la conclusione è inevitabile: l’esposizione di un crocifisso sul muro di una classe è stata ovviamente ritenuta espressione di una valutazione della legittimità di un convincimento religioso – il Cristianesimo – e quindi una violazione della Convenzione.
Questa formulazione della “neutralità” è basata su due errori concettuali che sono fatali per le conclusioni.
Primo, nel sistema previsto dalla Convenzione tutti i membri devono, in effetti, garantire agli individui la libertà di religione, ma anche la libertà dalla religione. Tale obbligo rappresenta un assetto costituzionale comune dell’Europa. E’, tuttavia, contro-bilanciato da grande libertà quando si tratta della religione o dell’eredità religiosa nell’identità collettiva della nazione e nella simbologia dello Stato.
Così, ci sono Stati membri in cui la laïcité è parte della definizione di Stato, come la Francia, e nei quali, di conseguenza, non ci può essere un simbolo religioso approvato e patrocinato dallo Stato in uno spazio pubblico. La religione è un affare privato.
Ma nessuno Stato è obbligato nel sistema della Convenzione a sposare la laïcité. Così, dall’altra parte della Manica, c’è l’Inghilterra (ed uso questo termine a giusto avviso) nella quale vi è una Chiesa di Stato, il cui Capo dello Stato è anche Capo della Chiesa, nella quale i leader religiosi sono anche membri d’ufficio del Legislativo, nella bandiera c’è la Croce e l’Inno nazionale è una preghiera a Dio di salvare il Monarca, e di concedere lui o a lei la vittoria e la gloria. [Anche se qualche volta Dio non ascolta, come è capitato in una certa partita di calcio, pochi giorni fa …].
Nella sua stessa definizione di Stato con una sua Chiesa ufficiale, l’Inghilterra sembrerebbe, nella sua ontologia, violare le strettoie poste dalla Camera, perché come si farebbe a non dire che con tutti quei simboli non vi sia un certo tipo di valutazione circa la legittimità di un credo religioso?
In Europa c’è una straordinaria varietà di relazioni tra Stato e Chiesa. Più della metà della popolazione dell’Europa vive in Stati che non potrebbero essere denominati Stati laïque. Inevitabilmente nell’educazione statale, lo Stato e i suoi simboli hanno un loro posto. Molti di questi, comunque, hanno un’origine religiosa o esprimono un’identità religiosa attuale. In Europa, la Croce è l’esempio più visibile, apparendo su innumerevoli bandiere, crinali, edifici, ecc. Sarebbe sbagliato sostenere, come alcuni hanno fatto, che la croce sia solo o meramente un simbolo nazionale. Ma è egualmente sbagliato argomentare, come alcuni hanno fatto, che ha solo un significato religioso. È tutti e due le cose, data la storia, parte integrante della identità nazionale di molti Stati europei. [Ci sono studiosi che sostengono che anche le 12 Stelle del Consiglio d’Europa hanno questa stessa dualità!].
Consideriamo una fotografia della Regina d’Inghilterra appesa in classe. Come la Croce, quella immagine ha un significato duplice. È l’immagine del Capo di Stato. Ed è anche l’immagine del Capo titolare della Chiesa d’Inghilterra. È quasi come il Papa, che è Capo di Stato e Capo di una chiesa. Sarebbe accettabile che qualcuno richiedesse che la foto della Regina non debba stare appesa nelle scuole per il fatto che non è compatibile con le sue convinzioni religiose e il suo diritto di educazione, perché cattolico, ebreo o mussulmano? O con la sua convinzione filosofica, perché non credente? Potrebbero la Costituzione irlandese, o quella tedesca non stare appese in una classe o non venire lette in classe, dal momento che nei loro preamboli troviamo un riferimento, nella prima, alla Santa Trinità e a Gesù Cristo Divino Signore, e, nella seconda, a Dio? Certamente il diritto di libertà dalla religione deve garantire che un alunno che obietta, possa non essere coinvolto in un atto religioso, possa non partecipare a un rituale religioso, o non debba avere una qualche affiliazione religiosa come condizione per dei diritti statali. Lui, o lei, dovrebbero certamente avere il diritto di non cantare God save the Queen, se questo contrasta con la loro visione del mondo. Ma può, questo studente, chiedere che non lo canti nessuno?
Questa situazione europea rappresenta una enorme lezione di pluralismo e tolleranza. Tutti i bambini in Europa, atei o credenti, cristiani, mussulmani ed ebrei, imparano come parte della loro eredità europea che l’Europa garantisce da una parte il loro diritto di praticare una religione liberamente – entro i limiti del rispetto dei diritti degli altri e dell’ordine pubblico – e dall’altra il loro diritto di non credere affatto. Allo stesso tempo, “Dio salvi la Regina”, l’inno inglese. [ndr]
come parte di questo pluralismo e di questa tolleranza, l’Europa accetta e rispetta una Francia e una Inghilterra, una Svezia e una Danimarca, una Grecia e una Italia, ognuna delle quali ha modi molto differenti di riconoscere simboli religiosi avallati pubblicamente da parte dello Stato e ciò negli spazi pubblici.
In molti di questi stati non-laïque, ampi settori della popolazione, forse persino la maggioranza, non sono più credenti. Ma il groviglio continuo di simboli religiosi nello spazio pubblico, e da parte dello Stato, è accettato dalla popolazione secolarizzata ancora come parte della identità nazionale, e come atto di tolleranza verso i propri connazionali. Potrebbe anche essere che, un giorno, la popolazione britannica, esercitando la propria sovranità costituzionale, voglia liberarsi della Chiesa d’Inghilterra, come fecero gli svedesi.
Ma questo è compito loro, non di questa egregia Corte, e la Convenzione non è mai stata di certo interpretata come per forzarli a farlo. L’Italia è libera di scegliere di essere laïque. Il popolo italiano può democraticamente e costituzionalmente scegliere di avere uno Stato laïque (e non è una questione per questa Corte se il crocefisso sui muri sia compatibile o meno con la Costituzione italiana, bensì per la Corte italiana). Ma la ricorrente, la signora Lautsi, non vuole che questa Corte riconosca il diritto dell’Italia di essere laïque, ma imporglielo come dovere. Questo non trova un fondamento nel diritto.
Nell’Europa di oggi i Paesi hanno aperto le loro porte a molti nuovi residenti e cittadini. Noi dobbiamo offrire loro tutto ciò che è garantito dalla Convenzione. Dobbiamo dare a loro un giusto trattamento, l’accoglienza e non discriminarli. Ma il messaggio di tolleranza verso l’Altro non dev’essere tradotto in un messaggio di intolleranza verso la propria identità, e l’imperativo giuridico della Convenzione non deve estendere il giusto obbligo che lo Stato garantisca una libertà religiosa positiva e negativa, sino ad una affermazione ingiustificata e senza precedenti che lo Stato si spogli di una parte della sua identità culturale solo perché le espressioni di tale identità possano essere religiose o d’origine religiosa.
La posizione adottata dalla Camera non è un’espressione del pluralismo proprio del sistema della Convenzione, ma è una espressione dei valori dello stato laïque. Estenderla all’intero sistema della Convenzione vorrebbe dire, con grande rispetto, l’americanizzazione dell’Europa. Americanizzazione in due aspetti: primo, una singola ed unica regola per tutti; secondo, una rigida separazione, in stile americano, tra Chiesa e Stato, come se non si possa aver fiducia che i popoli di quegli Stati membri la cui identità è non-laïque vivano i principi della tolleranza e del pluralismo. Questo, ancora una volta, non è Europa.
L’Europa della Convenzione rappresenta un equilibrio unico tra libertà individuale di e dalla religione, e libertà collettiva di definire lo Stato e la Nazione usando simboli religiosi, o persino avendo una Chiesa ufficiale. Noi ci fidiamo delle nostre istituzioni democratiche costituzionali per definire i nostri spazi pubblici e i nostri sistemi educativi collettivi. Noi riponiamo fiducia nelle nostre corti, inclusa questa augusta Corte, per difendere le libertà individuali. È un equilibrio che ha servito bene l’Europa nei passati 60 anni.
È anche un equilibrio che può agire come una guida per il resto del mondo, dato che dimostra ai Paesi che credono che la democrazia implichi la perdita della propria identità religiosa, che non è così. La decisione della Camera ha rovesciato quest’equilibrio unico e rischia di appiattire il nostro panorama costituzionale rubandoci questa qualità superiore di diversità costituzionale. Questa egregia Corte dovrebbe recuperare questo equilibrio.
Passo ora al secondo errore concettuale della Camera – la confusione pragmatica e concettuale – tra laicismo, laïcité e neutralità.
Oggi, nei nostri Stati, la principale divisione sociale che riguarda la religione non è tra, diciamo, cattolici e protestanti, ma tra il credente e il “laicista”. La laïcité, non è una categoria vuota che significa assenza di fede. In tanti la considerano un ampio punto di vista che sostiene, inter alia, la convinzione politica che la religione trova un solo posto legittimo nella sfera privata, e che non può esserci alcun legame tra autorità pubblica e religione. Per esempio, solo scuole pubbliche laiche saranno finanziate dallo Stato. Le scuole religiose devono essere private e non godere di aiuto pubblico. È una posizione politica, rispettabile, ma certamente non “neutrale”.
I non-laïque, benché rispettino in toto la libertà di e dalla religione, abbracciano anche alcune forme di religione pubblica, di cui ho già parlato. La laïcité vuole uno spazio pubblico denudato, un muro in classe privo di ogni simbolo religioso. È giuridicamente disonesto adottare una posizione politica che divide la nostra società, e pretendere che in qualche modo sia neutrale.
Alcuni Paesi, come i Paesi bassi e il Regno Unito comprendono il dilemma. Nel campo dell’educazione, questi Stati capiscono che il loro essere neutrali non consiste nel sostenere il laicismo in opposizione al religioso. Così, lo Stato finanzia scuole pubbliche laiche, e nella stessa misura, scuole pubbliche religiose.
Se la tavolozza sociale di una società fosse solo composta di gruppi blu, gialli e rossi, allora il nero – l’assenza di colore – sarebbe un colore neutro. Una volta, però, che le forze sociali di una società si sono appropriate del nero come proprio colore, allora questa scelta non è più neutrale. Il laicismo non favorisce un muro privo di tutti i simboli di uno Stato; sono solo i simboli religiosi che hanno l’anatema.
Quali sono le conseguenze di tutto ciò sull’educazione?
Consideriamo la seguente parabola di Marco e Leonardo, due amici che stanno cominciando la scuola. Leonardo va a trovare Marco a casa sua. Entra, e nota un crocefisso: «Che cos’è?», gli chiede. «Un crocefisso – perché, non ne avete uno? Ogni casa dovrebbe averne uno». Leonardo ritorna a casa agitato. La sua mamma, con pazienza, gli spiega: «Loro sono cattolici praticanti. Noi no. Noi seguiamo le nostre convinzioni». Ora immaginiamo una visita di Marco a Leonardo. «Caspita!», esclama «nessun crocefisso? Un muro vuoto?» «Noi non crediamo in queste assurdità», gli dice il suo amico. Marco ritorna a casa agitato. «Sì, noi abbiamo le nostre convinzioni». Il giorno dopo entrambi i bambini vanno a scuola. Immaginiamo la scuola con un crocefisso.
Leonardo ritorna a casa agitato: «La scuola è come la casa di Marco. Sei sicura, mamma, che vada bene non avere un crocefisso?». Questo è il nocciolo della domanda di Lautsi.
Ma immaginiamoci, anche, che in questo primo giorno di scuola i muri siano vuoti. Marco tornerebbe a casa agitato. «La scuola è come la casa di Leonardo», griderebbe «Vedi, te l’avevo detto che non ne abbiamo bisogno».
Ancora più allarmante sarebbe una situazione in cui i crocefissi, che stavano sempre là sul muro, di colpo venissero rimossi.
Non fate quest’errore. Un muro denudato per mandato statale, come in Francia, può suggerire agli alunni che lo Stato sta prendendo un atteggiamento anti religioso. Noi abbiamo fiducia nei programmi scolastici della Repubblica francese, che insegnino ai loro bambini la tolleranza e il pluralismo, ed allontanino una tale nozione. C’è sempre un’interazione tra quello che c’è sul muro, e come esso è discusso e insegnato in classe.
Ugualmente, un crocefisso sul muro potrebbe essere percepito come coercitivo. Ancora, dipende dal programma svolto in classe contestualizzare e insegnare al bambino nella classe Italiana la tolleranza e il pluralismo. Potrebbero anche esserci altre soluzioni, come mostrare simboli di più religioni, o trovare altri modi educativi appropriati per veicolare il messaggio del pluralismo.
È chiaro che date le diversità dell’Europa su questo punto non ci può essere una soluzione che sia calzante per ogni Paese membro, per ogni classe e per ogni situazione.
C’è bisogno di tenere conto della realtà politica e sociale dei diversi luoghi, della sua demografia, della sua storia e delle sue sensibilità e delle suscettibilità dei genitori. Però, la Francia con il crocefisso sul muro non è più Francia. L’Italia, senza, non è più l’Italia.
Così l’Inghilterra senza God Save the Queen.
Ci possono essere delle circostanze particolari in cui la soluzione adottata dallo Stato potrebbe essere considerata coercitiva e ostile, ma l’onere della prova deve restare comunque all’individuo, e il livello richiesto per la prova deve essere estremamente alto, prima che questa Corte decida di intervenire in nome della Convenzione nelle scelte educative fatte da uno Stato. Una regola per tutti, come ha deciso la seconda Camera, priva di un contesto storico, politico, demografico e culturale non è solamente sconsigliabile, ma mina il pluralismo, la diversità e la tolleranza più autentici che la Convenzione intende salvaguardare, e che sono il marchio dell’Europa.
Il discorso della presenza del crocifisso nelle aule è molto delicato. Ritengo comunque che sia importante avere un punto di riferimento presente nei posti dove si insegna la cultura. Un punto di riferimento non soltanto religioso e storico che ci fa capire le origini del nostro paese, ma un punto di riferimento capace di guidare i nostri figli al pieno rispetto degli uomini e delle loro religioni. Ci fa capire e prender coscienza del vero valore della religione.
Richiamo ad un link del sito di Di Mascio Arturo, del MEDIC, che bene esprime questo concetto:
http://www.arturodimascio.eu/arturo-di-mascio-che-societa-lasceremo-ai-nostri-figli/
Mi sembra che il problema giuridico di fondo non attenga tanto alla presenza del Crocifisso sui muri delle aule scolastiche, quanto alla previsione normativa dell’obbligo di esporlo. Il punto fondamentale su cui riflettere, cioè, non è tanto il valore semantico del Crocifisso – vale a dire la sua legittimazione a rappresentare convinzioni religiose o addirittura l’identità storico/culturale di una comunità (come nelle note posizioni del Consiglio di Stato) – quanto le conseguenze di una imposizione autoritativa della sua presenza nelle aule scolastiche sul modello di laicità.
Il concetto di laicità accolto dalla nostra Corte costituzionale nella nota sentenza n. 203/1989 mi sembra radicalmente orientato ad una piena considerazione dell’autodeterminazione del singolo, che determinò, nel caso di specie, l’annullamento dell’obbligo di ricevere l’insegnamento della religione cattolica. Ora, una ulteriore legittimazione dell’obbligo di esposizione del Crocifisso – il cui fondamento normativo è peraltro quantomai fragile (cfr. Corte cost. ord 389/2004) – finirebbe, a mio parere, per torcere lo stesso modello di laicità italiano, caratterizzandolo in senso uguale e contrario alla laicité. Non indifferenza assoluta, ma preferenza – normativamente sancita attraverso la previsione di un obbligo giuridico di esposizione in un luogo pubblico – per una convinzione religiosa sulle altre.
Tra le due alternative, si cela forse lo spazio per una terza, più aperta alla considerazione della centralità dell’autodeterminazione del singolo e della comunità scolastica nelle questioni che attengono, in generale, alla libertà di coscienza. Sostituire all’obbligo autoritativamente imposto la possibilità per la comunità scolastica – al limite, di aula! – di scegliere attraverso la libera discussione a quali simboli affidare la propria autorappresentazione consentirebbe infatti, per un verso, di recuperare l’autentico valore semantico del simbolo religioso e, d’altro canto, di garantire spazio adeguato alle posizioni di tutti.
E’ molto bello e chiaro il discorso di Weiler, la parabola dei due bambini però non mi pare condivisibile. Credo che se Marco a scuola non trova alcun crocifisso sul muro, non si porrà neanche il problema e non farà un paragone con casa sua. Ritengo che non si possa mettere sullo stesso piano la casa di una famiglia e l’aula di una scuola.
Nel contesto attuale, il Crocifisso si eleva a simbolo evocativo, di quell’irresolubile tensione dialettica tra la garanzia dell’integrazione sociale e la salvaguardia dell’unità e dell’identità nazionale, che segna le dinamiche di ogni processo evolutivo, in senso democratico, degli odierni regimi politici, in cui “il diverso” confluisce inesorabile nel tessuto interno. Da un lato, emerge la molteplicità dei valori, propria della natura pluralistica della società e, dall’altro, il principio di unificazione, che esige di porre un freno alle tendenze disgregatrici e centrifughe. Nella sua proiezione comunitaria, l’ostensione di un simbolo è preordinato a marcare un’identità, affermando un preciso segno di appartenenza; come spiega l’etimologia, «unisce» e «mette insieme» (syn-ballo) coloro che in esso e tramite esso si riconoscono, eppure allo stesso tempo «divide» e «separa» (dia-ballo) coloro che non vi si riconoscono. Sottesa al linguaggio dei simboli religiosi e politici, nella loro dimensione sociale, è, in effetti, una logica che contrappone l’inclusione all’esclusione: o si è dentro la comunità e il “riconoscimento” del simbolo ne è testimonianza o si è fuori e allora si percepisce il simbolo stesso come estraneo ed ostile. Una soluzione ragionevole potrebbe ravvisarsi nell’orientare l’interpretazione verso un principio di massima inclusione di significato, in forza del quale andrebbero ricompresi entro l’area semantica della rappresentazione simbolica, e ritenuti allo stesso modo rilevanti, tutti quei significati che, nell’attuale momento storico, risultino riconducibili al simbolo, in base agli usi sociali oggettivamente riscontrabili, ritenendo che tutti concorrano alla determinazione del contenuto semantico complessivo. Tale ragionamento è facilmente adattabile al Crocifisso che, al termine di siffatta disamina, appare suscettibile di significati molteplici, prestandosi ad un’ampia lettura che non esclude, ma include, che non impone, ma rispetta; quest’ultimo si pone non solo quale simbolo religioso, già di per sé denso di significato, in una prospettiva di resurrezione e speranza, ma altresì storico, culturale, identitario e universale.
Ma anche a prescindere dal riconoscimento di simbolo “laico” e valorizzando la sola natura che gli è propria di simbolo religioso (con ciò rincuorando i cattolici dichiaratasi offesi da una degradazione del Crocifisso a mero simbolo civile), si osserva come il Crocifisso costituisca semplicemente un “non simbolo” per i non credenti, per i non cattolici; una presenza assolutamente trascurabile per chi non vi si riconosca ed in quanto tale, impossibilitata a condizionare comportamenti personali e ad interferire negativamente sulle proprie convinzioni. A prescindere dal significato attribuitogli, non può imporsi allo Stato l’adozione di una norma che vieti espressamente l’esposizione del Crocifisso, giacchè risulta a sua volta in contrasto con l’art. 9 della Convenzione che assicura la libertà di manifestazione delle proprie convinzioni religiose: la neutralità dello Stato, così come non ammette l’imposizione di un obbligo, non può parimenti disporre alcun divieto, costituendo entrambi, una compressione del medesimo diritto tutelato. Oltretutto chi ravvisa nel Crocifisso un simbolo vuoi religioso, vuoi laico, finisce per subire una sorta di discriminazione alla rovescia, al fine di salvaguardare la libertà religiosa altrui. Se, infatti, centrale si rivela il riferimento al diritto dei genitori di riservare ai figli un insegnamento conforme alle proprie convinzioni, non si vede perché, nell’ipotesi in cui ci siano genitori che desiderino la presenza di un simbolo religioso, questi dovrebbero rinunciarvi, solo perché altri studenti o i loro genitori lo ritengano «perturbant émotionnellement», senza peraltro comprovarlo con dati obiettivi. Occorerebbe, allora, predisporre adeguate modalità che consentano di comporre tali divergenze, piuttosto che privilegiare i diritti di alcuni, negando i diritti di altri. Una soluzione potrebbe essere quella prospettata dal disegno di legge proposto dal Prof. CECCANTI che, nel caso di contestazione del Crocifisso in aula, impone al direttore didattico di pervenire ad un accordo amichevole; qualora questo non dovesse raggiungersi, egli deve adottare, dopo aver informato il provveditorato agli studi, una regola ad hoc, per il singolo caso, che rispetti la libertà di religione del dissenziente ed operi un giusto contemperamento delle convenzioni dell’intera classe. Sulla stessa linea si pone la recente sentenza del Tribunale Superiore di Giustizia della comunità autonoma spagnola di Castilla y León, resa nota il 15 dicembre 2009, che valorizza il principio di autonomia scolastica. Ivi si legge che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo va interpretata e ponderata in relazione alla tradizione costituzionale nazionale, individuando quella spagnola (ma citando al contempo anche quella italiana) come propria di uno Stato laico, ed esclude che in assenza di conflitti si possa procedere ad una rimozione indiscriminata e generalizzata, consentendola solo a fronte di una richiesta esplicita dotata di serie motivazioni.
Nella libertà tutelata ex art. 9 CEDU rientra, altresì, la libertà di cambiare religione, di mutare il proprio credo e dunque, perché no, di lasciarsi interrogare da un Crocifisso, di mettere in dubbio le proprie credenze, di avvicinarsi alla profondità del suo messaggio. Anche quest’aspetto merita egual tutela e la scuola costituisce indubbiamente il luogo per eccellenza della conoscenza, del sapere, del confronto, considerata, d’altronde, l’estrema difficoltà di poter approdare eventualmente ad una diversa religione, restando ancorati alla propria famiglia e ai valori su cui si fonda, al proprio ambiente o popolo di appartenenza. Lo Stato deve sì rispettare il diritto dei genitori di assicurare l’educazione ai figli secondo le proprie convinzioni (art. 2 Protocollo I), ma allo stesso tempo deve tutelare la libertà di pensiero, di coscienza e di religione del fanciullo (art 14 Convenzione sui diritti del fanciullo). Diventa, allora, determinante capire se l’adesione a taluna religione piuttosto che ad altra sia frutto di una libera scelta del minore o derivi, invece, da un’imposizione dei genitori, salvaguardandolo, se del caso, da condizionamenti che ostano alla libera esplicazione della sua personalità. Restando in tema di educazione, è, inoltre, interessante notare come l’art. 29 della Convenzione sui diritti del fanciullo riconosca tra le finalità educative quella di trasmettere al minore il rispetto non solo dei genitori, della sua identità, dei suoi valori culturali, ma altresì dei valori nazionali del paese nel quale vive e della civiltà diversa dalla sua. “All’ospitalità dei padroni di casa”, deve corrispondere, uno spirito di adattamento da parte di chi viene ospitato, in un vicendevole rispetto di usanze, tradizioni, valori. L’accanimento del genitore contro il Crocifisso esposto nelle scuole italiane tradisce siffatta regola di civiltà, fortemente radicata nel mondo greco antico, contribuendo a maturare nel minore un’avversione ed un’intolleranza verso il paese ospitante, pregiudicandone, in tal modo, l’integrazione.
Ai numerosi allievi extracomunitari giova indubbiamente trasmettere quei principi di apertura alla diversità e di rifiuto di ogni integralismo religioso o laico, ma allo stesso tempo, in questa delicata fase di incontro tra diversificate culture, urge riaffermare anche simbolicamente la nostra identità, tanto più che essa si caratterizza proprio per i valori di rispetto per la dignità di ogni essere umano e di universalismo solidale. Non a caso, in Italia, il d.P.R. n. 104 del 1985, contenente i programmi scolastici, espressamente riproduce l’intero articolo 3 della Costituzione e, di seguito, per quanto concerne la religione, aggiunge che: “La scuola statale non ha un proprio credo da proporre, né un agnosticismo da privilegiare. Essa riconosce il valore della realtà religiosa come un dato storicamente, culturalmente e moralmente incarnato nell’assetto sociale di cui il fanciullo ha esperienza ed, in quanto tale, la scuola ne fa oggetto di attenzione nel complesso della sua attività educativa, avendo riguardo per l’esperienza religiosa che il fanciullo vive nel proprio ambito familiare, in modo da maturare sentimenti e comportamenti di rispetto delle diverse posizioni in materia di religione e di rifiuto di ogni forma di discriminazione.
La Corte di Strasburgo, nella sua pronuncia si è, inoltre, sottratta al rispetto di quei “margini di apprezzamento“ che di norma riconosce agli Stati, specie in materia di libertà religiosa, al fine di salvaguardare le tradizioni costituzionali nazionali, stante appunto l’assenza di visioni uniformi nell’area europea. Il meccanismo di protezione costituito dalla Convenzione è, infatti, sussidiario rispetto ai sistemi nazionali di tutela dei diritti umani, lasciando in primo luogo ad ogni Stato contraente il compito di assicurare i diritti e le libertà che essa contiene. Si limita, così, a stabilisce alcuni standards universali di protezione riservando agli Stati uno spazio per decidere come applicarli nel modo più rispondente alle condizioni interne; spazio, in tal caso manifestamente violato.
Ne emerge come il Crocifisso appaia comunemente riconosciuto quale elemento essenziale, costitutivo del patrimonio storico e civico-culturale dell’Italia, simbolo di valori universalmente condivisi. Rappresenta l’identità non solo della penisola italiana, bensì della stessa Europa che ha innegabili radici cristiane. Siffatta identità, forgiata proprio dai principi del cattolicesimo, non può essere cancellata, «al pari della Divina Commedia o degli affreschi di Giotto», pur nel rispetto delle diverse sensibilità, del multiculturalismo e del concetto di laicità. Anche da un punto di vista pedagogico, il nascondimento di quell’identità costituisce un disvalore che priva la popolazione di fondamentali elementi di identificazione personale e comunitaria. La condanna della Corte di Strasburgo finisce così per risuonare come una violazione della nostra storia e tradizione, ponendosi in disarmonia con la stessa cultura europea, ancorata al principio dell’essere “uniti nella diversità”, alla cui stregua, nel rispetto delle identità, culture e tradizioni nazionali, si aspira alla creazione di un’unione fra popoli.