L’inizio di una nuova era politica? Il ritorno del Labour a Downing Street

Le elezioni britanniche che, come da tradizione, si sono svolte di giovedì hanno consegnato il paese al partito Laburista e al suo leader Keir Starmer. Dopo 14 anni di governo Conservatore – prima in coalizione con i Liberal-Democratici, poi alla guida di governi monocolore (seppur, tra il 2017 e il 2019, puntellati dall’appoggio esterno del Partito Unionista Democratico nord-irlandese) – si chiude così una lunga stagione politica. L’esito delle elezioni ha assegnato non solo una chiara e forte maggioranza al Labour, rievocando i fasti dell’era del New Labour di Tony Blair, ma ha anche severamente punito il partito Conservatore, che si ritrova tra i banchi dell’opposizione con l’ingombrante presenza di Reform UK ed una folta delegazione di Liberal-Democratici. I numeri alla Camera dei Comuni lasciano intendere che possa così aprirsi una nuova era con un partito predominante – il Labour – come era già stato tra il 1979 e il 1997 per i Conservatori, tra il 1997 e il 2010 per i Laburisti e tra il 2010 e il 2024 ancora per i Conservatori. Al tempo stesso, Starmer non dovrebbe sottovalutare alcuni elementi che potrebbero rendere la sua navigazione meno sicura di quanto i numeri lascino intendere.
Facciamo, innanzitutto, un passo indietro. Se il 22 maggio 2024 diversi commentatori si chiedevano perché il Primo Ministro Rishi Sunak avesse (inaspettatamente) deciso di sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni, la domanda – per quanto accademica – pare ancora più rilevante all’indomani del voto. Tutti i segnali puntavano nella stessa direzione. I sondaggi di opinione avevano fotografato il netto vantaggio dei Laburisti sui Conservatori dalla disastrosa, seppur brevissima (27 giorni), esperienza di governo di Liz Truss. Per tutto il 2024, il vantaggio del Labour si è attestato intorno ai 20 punti percentuali. Nelle elezioni suppletive – o by-elections – tenutesi nell’ultimo anno, i Conservatori hanno perso sette seggi (sei andati al Labour, uno ai Liberal-Democratici) e ne hanno mantenuto uno soltanto (paradossalmente, quello lasciato vacante da Boris Johnson, sebbene la competizione si sia giocata – a detta dello stesso vincitore – su temi strettamente locali). Le suppletive di Wellingborough dello scorso febbraio hanno fatto registrare, a detta di Sir John Curtice, il secondo maggior spostamento di voti dai Conservatori verso i Laburisti dal secondo dopoguerra. Infine, le elezioni locali dello scorso maggio hanno ancora severamente punito il partito Conservatore. Insomma, qualsiasi risultato diverso da una clamorosa debacle elettorale avrebbe potuto dirsi sorprendente.
La campagna elettorale del Primo Ministro uscente è stata, in effetti, rivolta a cercare di rendere meno drammatica la sconfitta attesa. Una campagna che, con metafora calcistica, si potrebbe descrivere come giocata tutta in difesa piuttosto che all’attacco, e ben riassunta dallo slogan scelto dallo stesso Sunak prima del voto: “Vota Conservatore. Ferma la super-maggioranza Labour”. Come se l’esito del voto fosse già agli atti, e l’unica questione ancora aperta riguardasse la dimensione della vittoria del Labour, ovvero della sconfitta dei Tories. Una sconfitta quindi attesa, la cui portata metteva anzi in dubbio lo status dei Conservatori come ‘Opposizione Ufficiale’. Il leader di Reform UK, Nigel Farage, proprio su questo punto aveva invitato gli elettori a votare per il suo partito (“Siamo noi l’opposizione al governo Laburista”) mentre alcuni sondaggi prevedevano addirittura il sorpasso (in termini di voti) di Reform UK e (in termini di seggi) dei Liberal-Democratici. Sondaggi a cui gli stessi Conservatori sembravano dare molto credito, con Rishi Sunak a chiudere la campagna elettorale in alcuni marginal seats dell’Inghilterra rurale da sempre rappresentati dai Conservatori e, addirittura, la riproposizione dell’ex premier Boris Johnson (in chiave anti-Reform UK) ad uno degli eventi elettorali conclusivi.
Evidentemente, tutto ciò non è bastato. A conteggio ultimato il Labour ha ottenuto 412 seggi – un risultato straordinario alla Camera dei Comuni, superato di poco solo nel 1997 (con 418 seggi) da Tony Blair. Al contrario, il partito Conservatore – con soli 121 seggi – ha ottenuto il peggiore risultato della sua storia, facendo anche peggio rispetto al 1906, quando ne ottenne 156. La maggioranza di 176 alla Camera dei Comuni è, nei fatti, quella “super-maggioranza” per il Labour da cui aveva messo in guardia Rishi Sunak. Incidentalmente, un risultato ben superiore a quello ottenuto da Boris Johnson, con una maggioranza di 81, alle politiche del 2019. Un ulteriore elemento che sancisce la vittoria del Labour è quello relativo alla geografia del voto. Con il referendum su Brexit, l’espressione “Regno Dis-Unito” aveva acquisito popolarità, con maggioranze diverse a favore di Remain (in Scozia, Nord Irlanda e Londra) o Leave (in Galles e Inghilterra). In queste elezioni, con l’ovvia eccezione dell’Irlanda del Nord (che ha un distinto sistema partitico), il Labour ha vinto in ciascuna delle nazioni che compongono il Regno Unito: Galles, Inghilterra e Scozia. Quest’ultima merita un accenno particolare visto che lì, nel 2019, il Labour aveva conquistato un solo seggio.
Deve inoltre essere sottolineato il risultato di Reform UK, il terzo partito con 4 milioni di voti, che è stato lo sfidante più vicino ai Laburisti nel nord-est dell’Inghilterra, quasi doppiando lì le e i candidati Conservatori, e vincendo 5 seggi (sebbene meno di quanti previsti dall’exit poll, che gliene attribuiva addirittura 13). I risultati mostrano ancora una volta l’intuito politico di Nigel Farage – il cui ritorno in politica ha senz’altro significativamente contribuito a questo risultato – che, all’ennesimo tentativo, è finalmente riuscito a conquistare un seggio parlamentare (a Westminster). Reform ha avuto un risultato ancora migliore dei suoi predecessori: lo UKIP aveva sì già conquistato 4 milioni di voti nel 2014, ma un seggio soltanto. Il Brexit party, dopo aver vinto le elezioni per il Parlamento Europeo nel 2019, aveva contratto un patto di desistenza con i Conservatori, ritirando i suoi candidati. Superando il 14%, Reform UK si propone seriamente come alternativa ai Tories e, come altrove in Europa, il suo successo pone domande esistenziali al partito di destra mainstream, chiamando in causa la leadership, la strategia e il posizionamento futuro del partito Conservatore.
Sir Keir ed il Labour hanno, dunque, molti ottimi e giustificati motivi per celebrare. Tuttavia, vi sono diverse ragioni – alcune strutturali, altre contingenti – per non auto-compiacersi troppo. Tra le prime va ricordata la volatilità elettorale, che permette ad un partito nuovo (anche se con un leader riconosciuto e conosciuto) – Reform UK – di superare il 14 percento, pur in presenza di un sistema maggioritario uninominale. Gli elettori hanno un’identificazione sempre più bassa con i partiti e scelte sbagliate o crisi impreviste possono fare rapidamente evaporare il consenso. Per informazioni chiedere a Boris Johnson, il trionfatore delle elezioni del 2019, travolto dagli scandali e dimessosi dal Parlamento. Inoltre, una maggioranza parlamentare così ampia riflette un consenso elettorale non così straordinario, con meno voti in termini assoluti e percentuali di quanti ottenuti nel 2017 dal Labour di Jeremy Corbyn (incidentalmente eletto, come indipendente, a Islington). Più in generale, la percentuale di voti ottenuta dai due partiti principali è la più bassa mai registrata.
Tra le seconde, Starmer farebbe bene a ricordare che il suo successo è, almeno in parte, il risultato delle difficoltà degli altri attori politici e competitors. Se i Tories piangono, i Nazionalisti Scozzesi non ridono. Finita la lunga stagione di Nicola Sturgeon nel 2023, con un cambiamento di leadership poco prima delle elezioni, i Nazionalisti sono ora molto lontani dai fasti del 2015 (quando si presero 56 dei 59 seggi scozzesi) ma anche del 2019 (quando si fermarono a 48). Non sarebbero quindi tanto le ricette di policy o l’agenda politica Laburista ad attrarre gli elettori, quanto piuttosto la voglia di mettere un punto fermo alla stagione Conservatrice o lo scontento (al di là del vallo di Adriano) per lo SNP. In un sondaggio pre-elettorale di YouGov, alla domanda (rivolta ad elettrici ed elettori Laburisti) sul perché voterebbero Labour, la lapidaria risposta di quasi metà campione è stata: “to get the Tories out”. In effetti, altri sondaggi rilevano che Starmer non è straordinariamente popolare, nemmeno tra i suoi elettori, ma è considerato affidabile e credibile.
Infine, Sir Keir è stato sicuramente molto abile nella gestione del partito – esercitando un controllo ferreo sulle candidature e sulla linea politica – e ha strategicamente schivato i temi più divisivi, come quello della Brexit. Tuttavia, il governo Labour dovrà presto confrontarsi con le questioni più salienti per l’elettorato, come le politiche sull’immigrazione, la sanità pubblica e la crescita economica, e dovrà necessariamente affrontare il tema dei rapporti con l’Unione Europea. Su questi temi, l’opposizione sarà prevedibilmente durissima. Starmer potrà contare su una straordinaria maggioranza parlamentare, ma non dovrà dimenticare che molti cittadini del Regno sono stanchi e disillusi nei confronti della classe politica, e di fronte alla incapacità del governo Laburista di rilanciare il paese sarebbero forse pronti – come abbiamo visto altrove in Europa – ad affidare le chiavi del numero 10 di Downing Street al nuovo rappresentante di Clacton, Nigel Farage che, celebrando i risultati del suo nuovo partito, ha commentato: “la rivolta contro l’establishment è in corso”.