L’importanza di essere unici.
L’agenda europea sulla migrazione e i difficili sviluppi dell’accordo di Malta.
Lo scorso 16 ottobre, la Commissione europea ha presentato una relazione sui principali sviluppi delle politiche europee messe in campo dalle istituzioni di Bruxelles in materia di migrazioni e gestione dei richiedenti protezione internazionale. Una materia dove il sottile velo che differenzia le competenze dell’UE e quelle degli Stati membri è difficile da intravedere, dove il termine “unico” si ripete nei documenti giuridici, nelle dichiarazioni e nelle intenzioni dei differenti organi coinvolti.
Unico e comune, ad esempio, è il sistema di asilo europeo, prospettato già dal 2015, e che dovrebbe concretizzare quanto già contenuto nel Trattato di Lisbona, ovvero la realizzazione di uno «status uniforme in materia di asilo per i cittadini di paesi terzi» (art. 78 TFUE). Da qui, le diverse fasi di implementazione del cd. CEAS (Common European Asylum System) sancite a livello intergovernativo nel Programma di Stoccolma, i cui risultati più tangibili sono stati sintetizzati, senza dubbio, nei testi normativi delle Direttive 2001/95/UE (Qualifiche), 2013/32/UE (Procedure) e 2013/33/UE (Accoglienza); a ciò si aggiunga – almeno per completezza – il tanto discusso regolamento n. 604/2013, comunemente conosciuto come Reg. Dublino, in merito alla determinazione del Paese competente ad esaminare la domanda di protezione del migrante all’interno dell’UE. Un quadro che, di per sé, lascia molto spazio all’azione dei Paesi membri, siano essi di arrivo, di transito o di accoglienza. Già nelle parole della Commissione, infatti, si evince che sono «stati compiuti progressi su cinque delle sette proposte» e, quindi, la riforma di questo sistema «non è ancora una realtà e rimane aperta l’esigenza di un approccio comune».
Unica, ma forse non troppo condivisa, è anche l’esigenza di rinnovare i procedimenti amministrativi per il riconoscimento dei diversi titoli di protezione internazionale nei singoli Stati membri. In tal senso, sembrava muoversi proprio il cd. Regolamento Dublino III che, ormai in forza dal 2014, ha avuto comunque il merito di garantire una lieve armonizzazione del sistema rispetto al passato e – laddove è stata riscontrata la collaborazione attiva degli Stati – un’attenzione verso i diritti personali del richiedente. Tuttavia, questi testi normativi nel loro insieme sono anche un inevitabile simbolo della stratificazione di cui soffre questo particolare ambito dell’azione europea, probabilmente troppo intriso di quel timore preventivo che gli stessi governi non mancano di manifestare verso il cd. “asylum shopping”, vale a dire quel meccanismo che sembra innescarsi, non solo in seguito al sistema Dublino, e che consentirebbe al migrante di scegliere il luogo dove richiedere la protezione, contravvenendo all’ormai nota regola del Paese di primo approdo. Tuttavia, queste deduzioni, che si soffermano soltanto sulle ormai risapute criticità di una “regola” di diritto derivato, sarebbero troppo semplicistiche se non rapportate ad altre variabili che necessariamente influenzano il sistema europeo.
È indubbio, infatti, che la gestione del fenomeno migratorio si anima di altri peculiari strumenti, che vanno dalla cooperazione rafforzata con gli Stati terzi alla prevenzione di situazioni in cui lo straniero potrebbe essere leso nei suoi diritti fondamentali o – peggio ancora – rischiare ulteriori trattamenti inumani o degradanti. Eppure, è altrettanto vero che lo stesso Regolamento Dublino III stabilisce che «Uno Stato membro dovrebbe poter derogare ai criteri di competenza, [..] al fine di consentire il ricongiungimento di familiari, parenti o persone legate da altri vincoli di parentela ed esaminare una domanda di protezione internazionale presentata in quello o in un altro Stato membro, anche se tale esame non è di sua competenza» (art. 17). Pertanto, sebbene si tratti di una eccezionalità, gli Stati membri – già a legislazione vigente – potrebbero usufruire di tale strumento per scongiurare il protrarsi di situazioni emergenziali. L’approccio interno, tuttavia, sembra ancora cristallizzato su posizioni scarsamente collaborative che – anche in virtù di riforme delle legislazioni nazionali – rallentano ancora di più la creazione di quello spazio unico di protezione europea che la stessa Agenda sulla migrazione si prefigge di perseguire. Ecco, quindi, che appaiono come sbiaditi quei precetti di fiducia reciproca fra gli Stati, nel rispetto dei diritti delle persone migranti (il cd. mutual trust) e la condivisione degli oneri per la presa in carico dei richiedenti asilo (il cd. burden sharing).
Rispetto alla realizzazione di un sistema di protezione unico, sommessamente, si ha ragione di credere che abbia guadagnato più enfasi la difesa da quelli che la Direttiva 2011/95/UE chiama “movimenti secondari”. Eppure, questo fenomeno – se considerato nella sua essenza giuridica e, perciò, non solo come elemento del dibattere politico, porterebbe a soffermarsi su un’altra importante questione: l’eccessiva stratificazione normativa e la differenziazione amministrativa che ancora sussiste all’interno degli ordinamenti statali ha come plausibile conseguenza la mancata percezione di un sistema di tutela unitario, anche da parte dello stesso migrante. Certamente, tutto ciò può essere generato da questioni interne agli stessi Stati e che riguardano la sostenibilità del procedimento di esame delle domande di protezione; sarebbe comunque errato sottovalutare l’influenza dettata dall’azione del legislatore, ogni qual volta essa sia ispirata da logiche securitarie, che vanno esattamente in senso contrario a quanto previsto dall’Agenda europea: in questo modo, l’intento redistributivo corre il rischio di essere facilmente confuso con quello punitivo.
È all’interno di questo contesto che si inserisce l’accordo raggiunto a Malta lo scorso 3 settembre e che prevede, almeno nella sua versione attuale, la creazione di un sistema preliminare e temporaneo di gestione dei richiedenti protezione internazionale che provengono – si badi bene – dalle rotte del Mediterraneo centrale. L’intento redistributivo, inoltre, verrebbe assicurato da un sistema di rotazione dei porti di attracco, atto ad rendere più efficiente l’approdo e lo sbarco dei migranti e non gravare verosimilmente sulla singola e spesso indotta volontarietà delle autorità costiere di taluni Stati membri. Il meccanismo di ricollocazione – nel documento – dovrebbe essere celere e non superare le quattro settimane dall’arrivo delle imbarcazioni, derogando – nei desiderata dei contraenti – la regola del Paese di primo approdo, attraverso la gestione coordinata con la Commissione europea. Va precisato – tuttavia – che le negoziazioni hanno portato a considerare l’applicazione dell’accordo solo rispetto ai salvataggi compiuti in mare dalle organizzazioni e dalle autorità marittime già impegnate nelle operazioni SAR (ricerca e soccorso), escludendo tutte le altre possibilità di approdo.
Dal punto di vista più squisitamente giuridico, emergono subito alcuni elementi che rendono l’accordo più simile ad un “progetto” che a un documento di cooperazione interstatale: in primo luogo, la sottoscrizione è volontaria ed ha una prima validità di sei mesi, che può essere tuttavia estesa attraverso il placet di tutti i Paesi contraenti. La volontarietà dell’impegno, infatti, si trasferisce anche sul menzionato meccanismo di rotazione dei porti di approdo, giacchè la garanzia di un attracco viene assicurata sempre grazie alla collaborazione dello Stato membro e non in virtù di un obbligo. Del resto, la funzionalità di un simile strumento normativo si basa, inevitabilmente, anche sul mutual consent dei Paesi interessati e, non di meno, sulla capacità di ampliare la platea dei governi contraenti. Tuttavia, va senz’altro ricordato che un documento di questo tipo sarebbe – almeno in via potenziale – pienamente in linea con quella potestà di concludere accordi inter se che è in capo agli Stati membri nelle materie di loro competenza e, quindi, potrebbe essere incluso nel diritto UE, senza però essere annoverato tra le fonti (es. Convenzione di Prüm). Infine, bisognerebbe sondare la portata di tutti i precetti dell’accordo alla luce del diritto internazionale vigente, in particolare rispetto ad alcune clausole (tra le tante, quella del minimum further deviation) che potrebbero influenzarne l’applicazione. Gli sviluppi di un simile strumento, quindi, così come la capacità di essere realmente effettivo ed efficace sono fortemente garantiti – ancora una volta – dall’impegno solidaristico degli Stati membri. In ogni caso, qualora si mantenesse l’impianto originario, il documento firmato a Malta sfiorerebbe lievemente l’ambito di applicazione del regolamento n. 604/2013, anche perché riguarderebbe solo in parte le possibilità di arrivo all’interno dei confini europei: il carattere “geografico” della redistribuzione, infatti, non tiene conto delle ulteriori rotte di migrazione verso i Paesi dell’Unione europea.
Certamente, la collaborazione volenterosa degli Stati va accolta come provvida e quantomai necessaria, tenuto conto che in passato è stata una delle grandi lacune riscontrabili nell’azione europea. Tuttavia, è opportuno che alla mera gestione dei flussi, si rafforzi la protezione degli individui. Da qui deriva la rinnovata importanza nell’essere unici, poiché un sistema comune non si esaurisce con la condivisione degli intenti e la protezione dei confini ma deve estendersi – con umile auspicio – alla protezione dei diritti e alla considerazione del richiedente asilo nel suo complesso, vale a dire non solo relativamente alla presa in carico da parte degli Stati, bensì assicurando una procedura – unica e univoca – per il riconoscimento della protezione internazionale. Da qui, si spera che possa (ri)partire l’azione delle istituzioni europee.