Libera circolazione e diritti “derivati” dalla (doppia) cittadinanza UE: la vita familiare al vaglio della CGUE nel caso Lounes
La libertà di circolazione, per i cittadini europei, è uno di quei diritti acquisiti al quale sarebbe difficile rinunciare. Oltretutto, l’esercizio di quest’ultima da parte di un nazionale comunitario è stato più volte esaminato dai giudici di Lussemburgo, poiché invocabile da tutti coloro che si spostano (o intendono spostarsi) in uno «Stato membro diverso da quello di cui [hanno] la cittadinanza», ivi compresi i rispettivi familiari, per come si evince dall’art. 3, paragrafo 1, della direttiva 2004/38. Eppure, verrebbe da chiedersi cosa succederebbe se il soggetto che rivendica una serie di diritti accessori, proprio sulla scorta di quanto stabilito dalla suddetta direttiva, possegga la cittadinanza di due Stati membri.
In realtà, seppur con specifiche prerogative (come già detto su questo blog) la CGUE si è già trovata a dover discutere di questi temi: nel caso della sig.ra McCarthy (C-434-09), è stato stabilito, ad esempio, che è proprio grazie all’esercizio della libera circolazione che il soggetto diventa meritevole di tutela e può richiedere il riconoscimento dei diritti di cittadino UE. Tuttavia, proprio nella pronuncia in questione, la Corte ha interpretato la legislazione di riferimento in maniera «letterale, teleologica e sistematica», escludendo l’applicabilità diretta, anche ai coniugi provenienti da Stati terzi, poiché il suddetto richiamo normativo si occupa solo «delle modalità di esercizio del diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri» (vd. Morviducci, 2017, 51). Dunque, come applicare tale direttiva nel caso in cui si sia prodotto un trasferimento in un altro Stato e il soggetto vi sia diventato cittadino, in virtù di una normativa nazionale?
È quanto la Corte ha cercato di chiarire con la sentenza nel caso Lounes (C-165/16) relativamente ad una questione tutt’altro che sopita, bensì destinata ad essere oggetto di numerose discussioni, anche in virtù degli ordinamenti a cui si riferisce. La vicenda riguarda una cittadina spagnola, trasferitasi nel Regno Unito nel 1996. Nel rispetto della legislazione vigente, la sig.ra Ormazabal ha successivamente acquisito la residenza permanente nel territorio, concessagli automaticamente e in virtù del suo soggiorno. Dopo alcuni anni, anche a seguito di una situazione personale stabile, il soggetto ha acquisito la cittadinanza britannica per naturalizzazione. La sig.ra Ormazabal ha, poi, sposato un cittadino algerino nel Regno Unito, il quale era entrato nel territorio con un visto valido per sei mesi, successivamente scaduto e mai rinnovato.
Dopo aver contratto matrimonio, quest’ultimo ha richiesto un titolo di soggiorno in qualità di familiare di un cittadino dello Spazio economico europeo (SEE). L’istanza è stata rigettata dal Ministero competente, giacché – a parere dello stesso – la sig.ra Ormazabal non era più da considerarsi come cittadina UE, perché già in possesso della cittadinanza britannica. Dopo il ricorso alla High Court of Justice, il giudice nazionale decide di predisporre un rinvio pregiudiziale, al fine di sondare la compatibilità della legislazione britannica con il diritto dell’Unione. La questione verte sulla possibilità da parte del coniuge di un cittadino UE, proveniente da uno Stato terzo, di ricevere l’autorizzazione al soggiorno nel Paese di residenza del familiare: in particolare, il giudice si interroga sulla possibilità di accordare il soggiorno sulla base del diritto dell’UE o in virtù di quanto richiesto dalle regole di diritto interno (tra l’altro riformate dopo la sentenza McCarthy), in virtù delle quali il soggetto non avrebbe potuto continuare a vivere nel Regno Unito. Tale decisione avrebbe, de facto, costretto la coppia a trasferirsi in un altro Paese.
Con la decisione in esame, l’Alto Tribunale europeo ha stabilito che il cittadino dell’Unione non è autorizzato a invocare i diritti di libera circolazione (ivi comprese le eventuali norme sul ricongiungimento familiare) contenute nella direttiva 2004/38/CE, nel momento in cui acquisisce la cittadinanza di un altro Stato membro. Tale posizione è suffragata dal fatto che la legislazione comunitaria richiamata non pretende disciplinare il soggiorno dei soggetti in uno Stato di cui sono già cittadini, visto che tale diritto è frutto, in primis, di un principio di diritto internazionale e, pertanto, diventa incondizionato. Sulla base di questa prima conclusione, i giudici sanciscono che il coniuge, il sig. Lounes, non può vantare un diritto di soggiorno “derivato” nel Regno Unito sulla base della stessa direttiva.
Tuttavia, la Corte ha dichiarato che la sig.ra Ormazabal potrebbe invocare la sua cittadinanza europea sulla scorta di quanto stabilito dai Trattati istitutivi e, in particolare, dall’art. 21, par. 1 del TFUE. Nell’istanza di remissione, infatti, la ricorrente era stata considerata come una cittadina spagnola che si era trasferita in un altro Paese dell’UE. A tal proposito, le disposizioni sulla cittadinanza europea contenute all’interno dei Trattati, a differenza della direttiva 2004/38, seppur non contengono norme specifiche sui membri della famiglia, danno luogo – e qui l’elemento di novità – ad un diritto per i suoi destinatari a condurre «una vita normale […] beneficiando della vicinanza dei loro familiari».
Questo richiamo esplicito alla vis dei Trattati istitutivi, darebbe al coniuge la possibilità di usufruire di un diritto di soggiorno derivato nello Stato membro di residenza del cittadino dell’Unione. Tale decisione si rende necessaria, a parere dei giudici di Lussemburgo, al fine di mantenere l’effetto utile dei diritti conferiti dai Trattati. Su questo punto, poi, la Corte si sofferma con particolare riguardo, argomentando che sarebbe ingiusto trattare la ricorrente in maniera meno favorevole, non riconoscendo che si tratta pur sempre di un soggetto che si è trasferito nel Regno Unito, conservando la nazionalità spagnola. Inoltre – continua la Corte – ledere il diritto di condurre una normale vita familiare, per solo il fatto di aver ricercato (mediante la naturalizzazione) un inserimento più profondo in un altro Stato membro, sarebbe contrario alla logica dell’integrazione progressiva nella società del Paese ospitante, perseguita proprio dall’articolo 21, paragrafo 1, TFUE.
Pertanto, con tale sentenza, si stabilisce che un nazionale di un Paese terzo che si trovi nella situazione del sig. Lounes può beneficiare di un diritto di soggiorno derivato nel Regno Unito sulla base dell’articolo 21, paragrafo 1, TFUE, in condizioni che non devono essere più rigorose di quelle previste dalla direttiva per la concessione di tale diritto a un medesimo soggetto, familiare di un cittadino dell’Unione, che ha esercitato il proprio diritto di libera circolazione stabilendosi in uno Stato membro diverso da quello di cui possiede la cittadinanza.
Vi è, quindi, la necessità di considerare la natura dei soggetti coinvolti. Coloro che posseggono un doppio titolo e che si spostano all’interno del territorio dell’UE (in un certo senso, già oggetto delle cause riunite C‑7/10 e C‑9/10) costituiscono quasi un’eccezione alla regola. Infatti, sarebbe ingenuo non osservare che sussiste un legame ben solido tra i le implicazioni inerenti l’esercizio della libera circolazione e i diritti di cittadinanza derivati nei confronti dello Stato membro di cui essi hanno la cittadinanza. È proprio la Corte a suggerirlo ogniqualvolta ha considerato rilevante la situazione dei cittadini dell’UE, dei relativi coniugi extra-europei e le norme sul ricongiungimento familiare: tra i molti casi, si pensi a quanto stabilito relativamente a coloro che si trasferiscono in un altro Stato membro e fanno successivo ritorno nel proprio Paese d’origine (causa C-370/90, chiarita poi con la causa C-127/08); analogamente, anche sullo status di quei cittadini dell’UE che vivono nel Paese di cui posseggono la cittadinanza ma che svolgono un’attività economica al di fuori di esso (causa C-60/00). In un secondo momento, la CGUE ha ulteriormente chiarito e delimitato la posizione giuridica imputabile proprio a queste categorie di soggetti (come già discusso su questo blog).
La sentenza in esame, invece, ci impone di ragionare scindendo i due termini del discorso, vale a dire dando il giusto peso giuridico al concetto di cittadinanza (così come inteso a livello sovranazionale) e di nazionalità. È abbastanza evidente che questa dicotomia assume maggior valore, soprattutto se viene messa in rilievo la tutela del familiare, in quanto nazionale extra-UE. Se da un lato, la Corte ribadisce l’importanza dello status civitatis nazionale, dall’altro muove un piccolo passo in avanti, nel considerare gli effetti transfrontaliere che ne possono derivare, seppur utilizzando (stavolta in senso includente) il vincolo dell’unità familiare.
Ciò nonostante, sorge l’interrogativo se tale decisione è da intendersi valevole per tutti i soggetti che acquisiscono una doppia cittadinanza o, più semplicemente, per tutti coloro che ne siano già in possesso (per i motivi più vari). Allo stesso modo, sarebbe giusto comprendere se tali diritti derivati, poiché provengono dall’applicazione dei Trattati e non dalla direttiva 2004/38, possono portare ad acquisire un diritto di residenza più stabile e duratura (in tal senso, si confronti con quanto già deciso nella causa C-529/11).
Ciò che, al contrario, appare certa è la valenza soggettiva della sentenza. Tra l’altro, la decisione è applicata nei confronti di un ordinamento che, verosimilmente, dovrà prendere una decisione più chiara su quale status destinare ai cittadini UE residenti nel proprio territorio (ivi compresi i loro familiari) e verso i quali la CGUE sembra dare maggiore riguardo. Sullo sfondo di questo giudizio, che già presagisce una serie di ricadute dirette e rilevanti, resta il nodo su quale peso (e limite) darà il Regno Unito alla libera circolazione e alle situazioni giuridiche pregresse, che da essa sono derivate.