L’Europa e la “dimensione costituente della crisi”
(a proposito di Giuseppe Allegri, Giuseppe Bronzini, Sogno europeo o incubo? Come l’Europa potrà tornare a essere democratica, solidale e capace di difendersi dai mercati finanziari, Roma, Fazi, 2014)
Nel romanzo di Roman Gary, Educazione europea, redatto nel 1943 ed edito due anni dopo, l’Europa appare in una duplice accezione: da un lato come orizzonte di libertà, al di là degli stati nazione e della sovranità, da un altro come luogo di scontri, violenze e guerra. Nel tratteggiare un’educazione europea Gary si affida, tra l’altro, al diritto costituzionale: Janek, il giovane eroe del romanzo, notò un grosso volume di diritto pubblico e lo aprì alla pagina che riportava la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: «richiuse il volume con un sorrisetto canzonatorio: “Sì, lo so”, disse Tadek con dolcezza, “è davvero difficile prendere quelle cose sul serio, vero? L’Europa ha sempre avuto le migliori e più belle università del mondo. È là che sono nate le idee più alte, quelle che hanno ispirato le nostre opere più grandi: i concetti di libertà, di dignità umana, di fraternità. Ma esiste anche un’altra educazione europea, quella che ci viene impartita adesso: i plotoni d’esecuzione, la schiavitù, la tortura, lo stupro, la distruzione di tutto quel che rende la vita bella. È l’ora delle tenebre”».
È proprio da questa duplice accezione di Europa come luogo di emancipazione e di solidarietà, ma anche come spazio di guerra e scontro, che, il libro di Giuseppe Allegri e Giuseppe Bronzini, Sogno europeo o incubo?, prende le mosse, movendo proprio dall’ora delle tenebre quando si cercava di pensare “un’altra Europa”. Il volume, che si presenta come un’opera di livello sientifico ma che punta anche alla divulgazione, non incorre nel limite, presente spesso in lavori di questo carattere, dell’approssimazione. Esso al contrario affronta temi centrali nella prospettiva europea, come quello del diritto del lavoro e del funzionamento delle istituzioni comunitarie, con precisione e attenzione sia al dato tecnico-giuridico che agli aspetti politologici e geopolitici europei.
Sebbene il vecchio continente sia, in un primo momento, riuscito a rispondere alla crisi del 2007 attraverso gli strumenti del diritto del lavoro e del welfare, nel corso degli anni ha progressivamente perso solidarietà e prospettive comuni, ed è stato travolto dalla crisi senza avere gli strumenti culturali e politici per interpretarla e, tantomeno, per contrastarla. Proprio per questo l’Europa si pone oggi come un terreno di ricostruzione di un processo politico e costituente, in cui cercare di capovolgere i rapporti di forza esistenti, contrapponendo al capitale finanziario un contropotere basato su forme organizzate di società civile (partiti o movimenti che siano) che possano rivendicare un assetto istituzionale maggiormente democratico, un reddito di cittadinanza, diritti e tutele per il lavoro, dignità della persona.
Nell’attuale fase, considerata da alcuni post-costituzionale, si è andata affermando la cosiddetta governance neoliberale, intesa come una gestione non statuale del governo dell’economia politica che si era sviluppata a partire dagli anni Ottanta del Novecento che ha comportato la supremazia delle autorità economiche sovranazionali. Tuttavia il neoliberalismo affermatosi a partire dalla fine degli anni Settanta non coincide con uno Stato minimo, bensì con uno Stato sbarazzatosi del contropotere esercitato dalla lotta di classe, dal movimento operaio, dalle istanze riformiste e dalle rivendicazioni dei diritti sociali. «Lo Stato massimo – ha scritto Maurizio Lazzarato ne Il governo dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, Roma 2013 – come la crisi ha l’onore di mostrarci, è del tutto compatibile con il neoliberalismo. […] Oggi lo Stato, e non nella sua versione minima, interviene preferibilmente due volte anziché una. Una prima volta per salvare le banche, […] un’altra per imporre alle popolazioni di pagare i costi politici ed economici del primo intervento». Le costituzioni europee del dopoguerra, frutto del compromesso fordista-keynesiano tra capitale e lavoro, profondamente intrecciate dunque con le questioni economiche e proprietarie, sono espressione anche delle concessioni che il capitale ha dovuto fare nei confronti dei lavoratori, prima per uscire dalla crisi del ’29 poi per la ricostruzione postbellica, quando i rapporti di forza tra movimento operaio e capitale erano in maggiore equilibrio. La forza del primo limitava l’espansione del secondo. Oggi invece il capitale non incontra più alcun limite, «se non quello della propria valorizzazione».
L’uscita dalla crisi ha previsto una posizione punitiva nei confronti dei paesi indebitati: il debito come colpa, ricordano gli Autori (Schuld in tedesco, come è noto, indica sia l’uno che l’altra). Sul punto Lazzarato, rileggendo Friedrich Nietzsche attraverso Gilles Deleuze, ha scritto un passaggio suggestivo, utilizzando categorie non economiche ma letterarie, ispirate al Processo di Franz Kafka: «al pari di K, siamo tutti presunti colpevoli senza aver commesso alcun reato. La forma del debito contemporaneo somiglia sia alla “assoluzione apparente” (si passa da un debito all’altro, si chiede un prestito e lo si rimborsa, se ne chiede un altro e lo si rimborsa, all’infinito) sia alla “procrastinazione illimitata”, dove si è indebitati in modo continuativo e il debito non è mai (e non deve mai) essere del tutto onorato, poiché il credito non è stato concesso in vista di un rimborso ma per essere in una condizione di variazione o di modulazione continua».
Tuttavia al pessimismo (e nichilismo) nietzschiano si deve reagire. E il libro di Allegri e Bronzini ne è un esempio importante. Esso contrappone, mi sembra, alla lotta di classe che da trent’anni le oligarchie finanziarie internazionali stanno conducendo vittoriosamente (grazie al silenzio e alla complicità del ceto politico e sindacale europeo), nuove forme di conflitto che sappiano da un lato imporre un limite al potere (nella tradizione del costituzionalismo democratico) e dall’altro rivendicare spazi di autonomia e di libertà, oltre il pubblico e il privato (nella prospettiva di un costituzionalismo dei beni comuni). Una guerra condotta, per essere sintetici, da coloro che detengono e dispongono del capitale – che dipendono dal profitto – contro coloro che dispongono della forza lavoro – che dipendono dal salario – ovvero una guerra del capitale contro i vincoli che il modello sociale europeo gli aveva imposto in nome della democrazia costituzionale.
«La storia del capitalismo degli anni settanta del ventesimo secolo – ha scritto recentemente Wolfang Streeck – incluse le continue crisi economiche succedutesi in quel periodo, è la storia della fuoriuscita del capitale dalla regolamentazione sociale entro cui era stato costretto dopo il 1945» (Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Milano 2013). Il “malessere” del capitale di fronte alla democrazia, alla costituzione e a ogni senso del limite, che fino agli anni Settanta era stato imbrigliato da ciò che definirei la “costituzionalizzazione della lotta di classe” (grazie a forti partiti e sindacati di massa a livello europeo), dopo la fine dei trenta gloriosi, è riuscito progressivamente ad azzerare le conquiste sociali e a ripristinare il suo dominio illimitato, gestendo la crisi prima con una politica inflazionistica, poi con l’indebitamento pubblico e infine con quello privato. Non a caso alcuni interpreti della «ragion capitalista» (tra i quali Mario Tronti, Berlinguer a Pomigliano, in Nuova Panda, schiavi in mano, Roma 2011) hanno parlato di «assolutismo del capitale» o di «neoliberalismo assoluto».
Tornando al volume di Streeck, e alla sua polemica con Jürgen Habermas, ampiamente affrontata nel libro, esso inserisce la crisi del sistema europeo all’interno di una lunga fase storica di crisi del capitalismo secondo una letteratura critica che procede dalla riflessione di Raniero Panzieri alla fine degli anni Sessanta in Italia fino all’Habermas della Teoria dell’agire comunicativo. Questa lettura appare assai convincente, mentre la parte conclusiva del volume che auspica un ritorno alle sovranità (anche monetarie) nazionali è irricevibile da un punto di vista politico, economico ma anche morale. La posizione di Streeck tuttavia ha il merito, riconosciuto dagli Autori stessi che però la liquidano come “marxismo ortodosso”, di essere più incisiva di quella di Habermas, in quanto punta a stigmatizzare gli aspetti strettamente economici della crisi, riconducendola alla rivoluzione conservatrice degli anni Settanta e Ottanta (in particolare di Margaret Thatcher e Ronald Reagan) quando inizia la “rivincita del capitale” nei confronti delle conquiste dell’età dell’oro, per dirla con Eric Hobsbawn. Le politiche di austerity non sono altro che il punto di approdo del processo di progressivo svincolarsi del capitale da ogni limite sociale.
A questo processo ad oggi vincente – i cui risultati sono drammaticamente rappresentati dal costante trasferimento della ricchezza dal basso verso l’alto (che ha contribuito alla creazione delle due Europe) – gli Autori contrappongono un modello che sappia rispondere alla crisi attraverso una profonda ridefinizione del vincolo tra politica ed economia, anteponendo la prima alla seconda e restituendo alle istituzioni rappresentative e alla costituzione la loro ragion d’essere, ovvero difendere diritti, libertà e luoghi di autonomia dalla prepotenza del potere e del capitale.
Di fronte alla molteplicità di forme che la rivolta e la protesta ha assunto nel corso degli ultimi anni, da Occupy Wall Street agli Indignados, dalle primavere arabe alle occupazioni simboliche di piazze e luoghi pubblici, così come alla rivalutazione di spazi abbandonati – nella maggioranza dei casi con effetti troppo limitati ed estemporanei –, gli Autori invitano a trasformare questa capacità destituente (come nella sponda meridionale del mediterraneo) in potere costituente, attraverso una nuova soggettività che sappia di nuovo tenere insieme politica e conflitto (secondo le suggestioni di Roberto Esposito). Di fronte all’implosione del patto sociale (quello tra capitale e lavoro) che era stato alla base delle democrazie europee, è sempre più necessario ripensare le ragioni della crisi del modello europeo e proporre un nuovo processo costituente europeo, da contrapporre alla dimensione “ottriata” (di cui ha parlato polemicamente Habermas) del percorso conclusosi con il no di Francia e Paesi Bassi alla costituzione nel 2005 e approdato poi al trattato di Lisbona del 2009. All’interno dello spazio europeo, inteso come luogo del conflitto, emerge la necessità, di carattere istituzionale, di colmare il deficit democratico e sociale che – ab initio – ha caratterizzato la progressiva formazione dell’Unione europea, attraverso, in particolare, la restituzioni di poteri al Parlamento e alla Corte di Giustizia. Questi due organi, ci ricordano gli Autori, che secondo il trattato di Lisbona avrebbero dovuto vedere i loro poteri ampliati, di fatto negli anni della crisi del debito sovrano hanno visto ridursi sempre più il loro ruolo a vantaggio di quello che essi chiamano un “direttorio degli esecutivi”. L’Europa della legalità, dei diritti e delle garanzie (creata, nel silenzio della politica, principalmente dalla magistratura, lasciata ancora una volta a svolgere un ruolo di supplenza e di «apripista costituzionale», scrivono i due Autori) ha lasciato il posto a quella del “diritto dell’emergenza” (istituzionalizzato dal Fiscal Compact e dal Meccanismo europeo di stabilità del 2012) che recide i legami col metodo comunitario e con la tradizione solidaristica europea. In tal modo il Parlamento «è scomparso dalla scena». Quando la politica si è mossa, ricordano gli Autori, lo ha fatto allontanandosi dai principi della Carta dei diritti di Nizza, ma anche del Trattato di Lisbona, e non rispondendo all’esigenza di una maggiore democrazia sociale continentale. Infatti dal 2010 si è scelto di intraprendere la strada di un potenziamento del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo, che lo stesso Trattato costituzionale considera un organo con il compito di individuare strategie di lungo periodo.
Gli Autori ci invitano a pensare un’Europa (e una classe dirigente europea) capace di non subire i processi costituenti imposti dal sistema neoliberale, come il pareggio di bilancio e le politiche di austerity, basato su deregolamentazione, privatizzazioni ed espansione dei mercati (quello che Étienne Balibar ha definito una «rivoluzione dall’alto», eversiva del costituzionalismo democratico) e propongono un dialogo con i movimenti di protesta, cercando di coniugare mobilitazione dal basso e scelte costituenti (secondo il proposito di Habermas e Derrida del 2003), per restituire alla rappresentanza democratica, svuotata di significato, e più in generale al costituzionalismo, stretto nella morsa della crisi dello Stato-nazione e del debito sovrano, la sua funzione di contropotere.