L’État, c’est Saïed: la transizione (verso un iperpresidenzialismo) è compiuta?
La Tunisia è sempre stata considerata una sorta di oasi tra gli stati arabi; la Tunisia come “eccezione”, come “anomalia”.
La Tunisia era considerata “diversa” anche nei tempi più bui delle autocrazie guidate da Bourguiba e Ben Ali e anche al momento delle cosiddette “primavere arabe”. Le ragioni risiedono nell’idea di “Tunisianité” inventata da Bourguiba, caratterizzata dalla pacifica decolonizzazione, dalla diplomazia orientata verso l’Occidente, dal modello di ‘laicità’. Questo tipo di narrativa, a conti fatti estremamente apologetica, non è solo profondamente radicata nel passato, ma anche negli eventi del 2011, ossia la “rivoluzione del gelsomino”. La situazione tunisina, infatti, non si è avvitata né in una involuzione militare, come in Egitto, né in un conflitto civile, come nel caos libico o siriano. La Tunisia è quindi stata ritenuta come l’unica “storia di successo” del mondo arabo post-2011: adozione della Costituzione 2014; politiche libere e trasparenti elezioni; elezione democratica di quattro diversi Presidenti della repubblica e otto Primi ministri. Tutti eventi che hanno confermato la possibilità di un cambio pacifico del potere politico in un paese arabo. Nel 2014 “The Economist” ha addirittura etichettato la Tunisia come il “paese dell’anno”.
Eppure, la storia post-coloniale della Tunisia avrebbe dovuto insegnare che essa è stata sempre anche caratterizzata da ‘Big men’ che si sono avvalsi delle Costituzioni per proteggere le élites e la loro leadership al potere. Ciò che è accaduto con la presidenza Kaïs Saïed è da inquadrarsi in questo contesto. La sua controversa figura ha sempre poggiato su una agenda conservatrice e anti-sistema che mirava a ristrutturare la conformazione del potere in Tunisia. Una agenda che nascondeva la demagogia come chiave di volta per vincere le elezioni, anche se egli ha sempre rifiutato le accuse di populismo shuʿūbiyat (شعوبية). Saïed si è rivolto all’elettorato giovane, privato della possibilità di una mobilità sociale, dei marginalizzati, mettendo in evidenza il divario tra le promesse della rivoluzione del 2011 e la precaria realtà socio-economica della nazione: la contrapposizione tra potere e popolo, vittima, quest’ultimo, del sistema politico fallimentare. Decenni di corruzione e clientelismo, mancanza di un piano economico efficace, altissima disoccupazione, distribuzione di beni di consumo controllata da una pletora di intermediari corrotti e il fallimento al governo del partito islamico moderato an-Nahḍa hanno facilitato l’emergere della nuova figura presidenziale. Tuttavia, non è stata solo la difficile situazione economica a favorire una decretazione ipertrofica, idonea a smantellare il sistema così come tratteggiato a livello costituzionale. La figura forte di un leader con pieni poteri non è mai stata percepita, in realtà, come un vero e proprio vulnus per i processi di riforma, come se la concezione dell’autorità legata a un modello patriarcale su scala nazionale – nel quale l’insieme della società tunisina è immaginata come una grande famiglia guidata dal Presidente – non fosse necessariamente incompatibile con stagioni riformiste.
Ecco che si è facilmente passati da ‘modello’ di democrazia del Maghreb, a un regime autoritario che si è avvalso di un sistema già in sofferenza. Come si ricorderà, infatti, a partire dalla mancata istituzione di una Corte costituzionale (per i recenti sviluppi, si rimanda qui), fino al congelamento dei lavori del Parlamento, l’ultimo biennio della storia istituzionale tunisina ha visto un accrescimento progressivo e inarrestabile dei poteri presidenziali, all’interno di uno stato di emergenza mai cessato (se non per brevi periodi) dal 2011. Sempre, peraltro, in una sorta di rispetto ‘formale’ della procedura costituzionale.
Sarebbe senz’altro azzardato parlare di colpo di stato – sebbene questa sia stata l’espressione maggiormente utilizzata dai contestatori di Kaïs Saïed – ma come fu per la destituzione silente (e “medicale”) di Bourguiba, la Tunisia registra un cortocircuito istituzionale che ha rovesciato – e alterato – gli equilibri tra poteri, già fragili e poco consolidati nella fase post-transizione. Silentemente, cioè, l’attuale Presidente ha aggiunto tasselli decisivi, idonei ad alterare l’ordine costituito, ora depotenziando gli altri poteri, ora ricalibrando la propria posizione, a scapito dell’esecutivo bicefalo, cui era votata la forma di governo dopo la rivoluzione. In effetti, se appariva alquanto probabile che, alla fine, la figura presidenziale si sarebbe imposta così nettamente da decretare un presidenzialismo di fatto (come già segnalato qui), snaturando la lettera del testo costituzionale, un accentramento così vistoso e incontrollato sembrava uno scenario scongiurabile. Certamente, siamo (ancora) lontani dal neopatrimonalismo alla Ben Ali, ma, al contempo, lo spettro di un iperpresidenzialismo ‘alla turca’ rischia di minacciare il (relativamente) giovane sistema tunisino. D’altro canto, gli steps, le tappe e le fasi succedutisi in Tunisia, a partire dal 2021, sembrano ricalcare l’excursus di Erdoğan, soprattutto per ciò che concerne una svolta autoritaria sostanziale, vidimata soltanto successivamente anche a livello costituzionale. E attraverso plebisciti. In effetti, anche Kaïs Saïed ha ‘firmato’ la sua Costituzione, che ha ufficialmente consacrato il ruolo presidenziale come il vero e unico timone istituzionale. Se non, addirittura, come identificazione e immedesimazione nello Stato stesso. Eppure, il Presidente ben conosce la ‘giustizia’ costituzionale e, come si saprà, proprio sull’interpretazione del testo ha basato, e giustificato, la propria ascesa. Kaïs Saïed, piuttosto, si è mosso con consapevolezza e competenza tra le maglie costituzionali stesse, nell’alveo di ciò che la Costituzione non diceva o non disponeva chiaramente e univocamente.
Anche in questo caso, la Tunisia non appare un’eccezione, presentando delle analogie con altri sistemi africani (come il Madagascar di Rajaonarimampianina o il Gambia di Jammeh, tra gli altri) in cui si possono notare dinamiche riferibili a forme di ‘dittatura costituzionale’, che, infatti, è definibile “costituzionale, perché si presenta con vari limiti prescritti dalla legge e imposti dalle strutture istituzionali, ma il ‘dittatore’ esercita il potere secondo procedure costituzionali che portano la dittatura a esistere, a imporsi e a strutturarne portata e fini” (cfr. qui, p. 1807). E l’ultimo tassello dell’ambizioso progetto (costituzionale) di Saïed si è concretizzato nella delegittimazione dei partiti politici come forma di rappresentanza mediata e condivisa con il popolo. Il sogno di processo di democrazia diretta ‘anti-sistema’, che accarezzava sin dal 2013 e che era stato ideato originariamente dal suo consigliere, Ridha Chiheb, intellettuale di sinistra, soprannominato ‘Lenin’, si è avverato. Il sistema di Saïed/Chiheb si basava idealmente su un modello di elezione decentralizzata, costruita come una piramide rovesciata, chiamata “nuova costruzione”, al-bināʾ al-ǧadīd (الجديد البناء), o “nuova istituzione”, al-tasīs al-ǧadīd (الجديد التأسيس), nel quale il Parlamento è posto al vertice rovesciato e assume quindi scarsa rilevanza, a vantaggio di consigli locali che costituivano l’ossatura della democrazia diretta. Il sistema, che trae ispirazione dalla “massocrazia” (Ǧamāhīrīa) di Gheddafi e dal pensiero di Pierre-Joseph Proudhon, tende a eliminare il divario creatosi tra cittadini e politica. Per il Presidente tunisino il ruolo dei partiti ha raggiunto il suo apice nel Ventesimo secolo e il partito come tale è condannato a scomparire (si veda, ad esempio, qui). Tale scuola di pensiero, del resto, è perfettamente in linea con quanto affermato nel 2021 da Saïed, ossia “al-barlamān ḵatir ʾalā dawla” (البرلمان خطر على الدولة), il “Parlamento è un pericolo per lo Stato”. La nuova legge elettorale (Decreto presidenziale n. 55 del 15 settembre 2022) si sviluppa, in parte, da questa cornice ideologica e ha così previsto che i candidati siano eletti individualmente e non tramite un voto di lista presentato dai partiti, che pertanto vengono svuotati di senso e di “peso”. Si crea, così, una sorta di democrazia ‘direttissima’ che, peraltro, è già stata sperimentata e ‘testata’ con il 94% dei voti favorevoli in occasione della riforma costituzionale presidenziale. Ma con un sottile malinteso di fondo. Il Presidente vince, ma non grazie a tutti e, di certo, non rappresenta tutti. Ad esempio, solo il 30% degli aventi diritto ha votato per il referendum e la volontà di neutralizzare il ruolo dei partiti politici si è rivelato un boomerang, poiché, alla già flebile partecipazione registrata, si è ora aggiunta un’ondata di inviti all’astensione, in termini però di vero e proprio ‘boicottaggio’ del progetto presidenziale. Il Presidente che i tunisini “amano”, evidentemente, non riscuote sufficienti consensi tali da poter modellare così pervasivamente e massicciamente la struttura e il funzionamento della Tunisia come sistema, ovvero come insieme di organi, di poteri separati ma collaborativi, di istituzioni e di mediazioni. La Tunisia, matura, che proponeva un suo modello democratico, lasciandosi alle spalle decenni di competizioni elettorali dubbie e non scevre da brogli e denunce, ripiomba nella ‘regressione’.
L’art. 23 della African Chart on Democracy, Elections and Governance del 2007 ha affermato che un colpo di stato può essere anche descritto come “Any amendment or revision of the
constitutional or legal instruments, which is an infringement on the principles of democratic change
of government”. Il caso tunisino sembra aderire perfettamente a questa definizione. Nonostante Saïed sia riuscito (in parte) a erigere una “nuova istituzione”, questa è nata come un frutto avvelenato, scontando il ‘peccato originale’ di aver tratto linfa da silenzi e lacune procedurali, da situazioni di vuoti di potere creati ad arte e persino da azioni ai limiti della costituzionalità.