L’ergastolo “ostativo” alla prova della Corte EDU. Brevi osservazioni sulla sentenza Viola c. Italia
Nel mese di giugno 2019 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha per la prima volta sottoposto al proprio vaglio la disciplina dell’ergastolo c.d. “ostativo” disciplinato dall’art. 4bis dell’Ordinamento Penitenziario.
In particolare, il ricorso ha trovato origine nelle doglianze di un detenuto, Marcello Viola, le cui condanne nel 1995 e poi nel 1999 all’ergastolo (dovute alla sua appartenenza ad una associazione criminale calabrese di stampo mafioso di cui, peraltro, era risultato a capo e in virtù della quale era stato sottoposto al regime del c.d. “41bis” dal 2000 al 2006) e, soprattutto, l’assenza del requisito di “collaborazione con la giustizia” avevano impedito a più riprese tanto la concessione di permessi premio, quanto l’accesso al beneficio della liberazione condizionale.
L’oggetto del giudizio, sostanzialmente, riguardava l’automatismo legale volto ad impedire ex art. 4bis O.P. ai condannati per determinati gravi reati, di accedere a tutti i benefici penitenziari – che, peraltro, hanno quale unico scopo quello di promuovere la risocializzazione del detenuto a compimento dell’indirizzo costituzionale dettato dal terzo comma dell’art. 23 Cost. – qualora gli stessi non si rendano disponibili a “collaborare con la giustizia” nelle modalità descritte dallo stesso Ordinamento Penitenziario all’art. 58ter.
La sentenza ha quindi finalmente affrontato il nodo problematico dell’impossibilità di concedere qualsiasi provvedimento che influisca positivamente su entità e modalità di esecuzione della pena detentiva ai condannati all’ergastolo per determinati delitti se non “nei casi in cui tali detenuti e internati collaborano con la giustizia” dichiarandone la non conformità al dettato convenzionale.
Va detto che, in Italia, il tema della condanna a vita è stato oggetto di un numero assai copioso di interventi della giurisprudenza costituzionale, di legittimità e di merito. Proprio tale dato, in realtà, rappresenta un allarmante segnale allorché la Corte di Strasburgo, nonostante tale vaglio diffuso della giurisprudenza nazionale, evidenzi criticità tanto serie e gravi quanto quelle emerse nella sentenza in commento.
La Consulta, a ben vedere, è parsa adoperare come un vero e proprio grimaldello il terzo comma dell’art. 27 della Costituzione rileggendo i regimi detentivi “senza fine”, ma anche quello emergenziale disciplinato all’art. 4bis O.P., cercando di ricondurre a Costituzione tutto il sistema penitenziario italiano.
In via generale, nella sent. 313 del 1990 la Corte aveva affermato come la funzione di risocializzazione dovesse sempre e necessariamente accompagnare la pena dalla sua creazione normativa sino alla sua estinzione, ma anche giustificato la pre-condizione per accedere ai benefici penitenziari imposta dall’art. 4bis O.P. alla luce della discrezionalità del legislatore che, con tale disposizione, avrebbe inteso privilegiare la prevenzione generale rispetto alla singola posizione soggettiva di ogni detenuto (sent. 306 del 1993). Ancora, e sempre in relazione all’art. 4bis O.P., la Corte nella sent. 273 del 2001 ha ritenuto compatibile con il terzo comma dell’art. 27 Cost. l’idea che solo attraverso la volontà di collaborare con la giustizia il condannato per determinati e gravi delitti possa concretamente dimostrare la propria volontà di iniziare un percorso di reinserimento. Infine, i giudici costituzionali hanno anche escluso che tale divieto possa essere considerato un automatismo legale, non rappresentando un divieto assoluto ma una condizione necessaria per l’accesso ai benefici (sent. 135 del 2003).
Ebbene, tali indirizzi interpretativi non sembrano però aver incontrato la condivisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Infatti, la Corte sovranazionale ha escluso la conformità ai principi generali di rispetto della dignità dell’uomo della circostanza che alcuni benefici penitenziari possano essere inderogabilmente subordinati ad una condotta attiva di collaborazione con le autorità inquirenti del reo. «Il principio della “dignità umana”», affermano i giudici convenzionali, «impedisce di privare una persona della sua libertà con la costrizione senza operare, nel contempo, per il suo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di recuperare un giorno tale libertà» (par. 113).
Di più, la nozione di “collaborazione” individuata nell’ordinamento italiano non può in alcun modo essere considerata quale sintomo di un percorso di reinserimento e rieducazione libero e consapevole, rappresentando al contrario l’“unica opzione aperta al ricorrente” dallo Stato, che influisce direttamente su beni fondamentali come la libertà personale e la libera autodeterminazione dell’individuo ristretto(«Se è vero che il regime interno offre al condannato la scelta se collaborare o meno con la giustizia, la Corte dubita della libertà di tale scelta, così come dell’opportunità di stabile un’equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale del condannato», par. 116).
Nel ragionamento della Corte, peraltro, si è coerentemente inserita una variabile specifica relativa alla tipologia di ambiente criminale nel quale si sviluppano i reati più gravi individuati dall’art.4 bis O.P.: la minaccia di violenza, ritorsione e aggressione ai familiari ed ai congiunti del potenziale “collaboratore”.
Non solo, quindi, la scelta di collaborare non sarebbe di per sé libera e quindi non può fungere da parametro di giudizio del percorso di risocializzazione ma, ancor di più, deve prendersi coscienza del fatto che la decisione di non collaborare sia spesso altrettanto non libera, essendo il frutto non di una determinazione susseguente alla fedeltà all’organizzazione criminale, bensì conseguenza diretta della paura per l’incolumità dei propri cari.
La Corte ha, in ogni caso, sottolineato come coerentemente ai propri principi il sistema detentivo italiano offra un vasto arco di opportunità progressivamente più intense perché il detenuto, in perfetta osservanza del terzo comma dell’art. 27 Cost., possa ritornare a diretto contatto con la società potendo così pienamente reinserirsi nel complesso sistema vitale seguendo quell’iter intorno al quale la potestà punitiva deve necessariamente articolarsi. Tanto più, quindi, stupisce come si possa aver privato di qualsiasi “beneficio”, peraltro indirizzato esclusivamente al pieno compimento della funzione rieducativa che il carcere dovrebbe avere, un detenuto come Viola, il ricorrente, la cui condotta detentiva ultradecennale era stata priva di qualsiasi richiamo. Di più, tale situazione è stata esclusivamente frutto di un divieto tout court imposto dall’ordinamento senza alcuna possibilità di gradazione, di cui difficilmente – se non a prezzo di un complesso e forzato iter logico – può trovarsi una coerenza ai principi della nostra Costituzione e del comune sentire europeo.
Proprio in questo senso, la Corte ha considerato che sulla base dell’art. 4 bis O.P. la “non collaborazione con la giustizia” abbia finito per rappresentare una ineluttabile – e quindi incomprensibile – presunzione di pericolosità priva di qualsiasi giustificazione concreta e, quindi, sicuramente eccessiva. Si deve infatti anche tener conto di come «la suddetta presunzione inconfutabile impedisce de facto al giudice competente di esaminare la domanda di liberazione condizionale e di verificare se, durante l’esecuzione della sua condanna, il ricorrente si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi nel cammino della correzione per cui il mantenimento della detenzione non è più giustificato per motivi inerenti alla pena» (par. 129).
Come sempre, i giudici convenzionali non hanno ignorato la “storia criminale” del ricorrente, prendendo atto della pericolosità sociale del ristretto ma, allo stesso tempo, ricordando come non si possa attuare una presunzione di pericolosità solo in ragione del crimine commesso, tanto più se il fatto sia avvenuto a distanza di tanto tempo. In questa prospettiva, l’art. 3 CEDU costituisce un limite invalicabile a qualsiasi pretesa dello Stato, che non può mai e per nessun motivo sottrarsi al vaglio di coerenza del proprio ordinamento e della propria condotta alla luce del divieto assoluto di tortura e trattamenti inumani e degradanti.
Nell’iter argomentativo dei giudici di Strasburgo, peraltro, un ruolo centrale è svolto, anche in questo caso, dal concetto di dignità umana. Privare un individuo della libertà personale significa sottoporne la dignità ad uno “stress test” non indifferente che, seppure la restrizione sia legittima e coerente, impone un perdurante controllo sul percorso di risocializzazione e riabilitazione. Affermare che un determinato regime detentivo sia in contrasto con le tutele approntate della Convenzione, sia chiaro, non significa che il detenuto debba essere liberato, o che non dovesse essere ristretto ma, più correttamente, che l’ordinamento giuridico nazionale deve farsi carico, nell’amministrazione della pena, del principio di dignità che, come tale, costituisce limite e barriera critica rispetto all’esercizio del potere.
In effetti, «le cose potranno sensibilmente cambiare soltanto quando (…) si comprenderà che – senza retorica – togliere la dignità e la speranza ad un proprio simile significa toglierle a se stessi» (Glauco Giostra, “Il rimedio compensativo della riduzione di pena: problematiche tecniche e demagogici allarmismi”, in “Il senso della pena. Ad un anno dalla sentenza Torreggiani della Corte EDU”, a cura di Marco Ruotolo, Editoriale Scientifica, Napoli 2014, pag. 126).