L’equilibrio instabile fra carcere duro e Dignità umana. Il caso Provenzano: alcune riflessioni sulla sentenza della Corte di Strasburgo
Alla fine dello scorso ottobre la Corte Europea dei Diritti Umani è tornata ad occuparsi del regime carcerario “duro” previsto in Italia (ex art. 41bis Ordinamento Penitenziario). Il ricorso era stato promosso prima della morte di Bernardo Provenzano, un condannato per gravi crimini di mafia, e dopo tale evento era stato comunque portato avanti dal figlio, la cui legittimazione a procedere era stata confermata, nonostante le contestazioni dello Stato italiano, in ragione dell’evidente interesse alla tutela della dignità e dei diritti del padre defunto.
Proprio su tale punto, nello specifico, la Corte ha rappresentato come sia oramai principio granitico della propria giurisprudenza (si pensi alle decisioni Ergezen c. Turchia, n. 73359/10; Fairfield c. Regno Unito, n. 24790/04; Biç ed altri c. Turchia, no. 55955/00) l’orientamento secondo cui “the issue of whether a person may be considered an indirect victim is only relevant where the direct victim dies before bringing his or her complaint before the Court” (par. 95). Di più, “human rights cases before the Court generally also have a moral dimension, and persons near to an applicant may thus have a legitimate interest in ensuring that justice is done, even after the applicant’s death” (par. 96).
La modalità di detenzione speciale prevista dall’ordinamento penitenziario italiano e disciplinata dall’art. 41bis, approntata dal legislatore proprio con il principale scopo di contrastare il fenomeno criminale mafioso, era peraltro già stata nel recente passato più volte oggetto del sindacato della Corte europea in un vasto numero di casi concernenti contestazioni simili a quelle promosse da Provenzano (a mero titolo esemplificativo appare utile ricordare i casi Argenti c. Italia, n. 56317/00, Enea c. Italia, n. 74912/01; Campisi c. Italia, n. 24358/02; Paolello c. Italia, n. 37648/02).
Nell’affrontare il caso de quo, i giudici di Strasburgo hanno in prima istanza dettagliatamente ripercorso la storia criminale del Provenzano, sottolineando la certa ed assoluta gravità dei reati compiuti, ricordando inoltre i quarant’anni di latitanza di cui è stato protagonista, e riconoscendo in via generale in tutte queste ragioni una corretta ed idonea motivazione per la sottoposizione del detenuto al più arduo regime proposto dall’ordinamento penitenziario italiano.
Orbene, la Corte si è soffermata sulle ragioni del ricorrente, che ha lamentato l’incongruenza del regime carcerario con le proprie condizioni di salute. In particolare, la Corte ha dato particolare valore e risalto a due perizie d’ufficio disposte dall’autorità giudiziaria italiana nell’ambito di alcuni procedimenti pendenti a carico del Provenzano a Palermo che nel 2012, e poi ancora nel 2013, avevano dato prova dell’ormai intervenuta incapacità di intendere e di volere del detenuto.
Di più, la Corte ha evidenziato come nel 2016 alcuni organi dello stesso Stato italiano (in particolare la Commissione per la protezione e la promozione dei diritti umani del Senato della Repubblica) avevano raccomandato nel proprio “Rapporto sul Regime Detentivo Speciale” del 41bis di prestare “more accurate evidence gathering (istruttoria) by the offices involved in the renewal of the application of the special prison regime, in order to avoid the imposition of the regime with respect to persons who are mentally incapacitated (incapaci di intendere e di volere)” (così citato nel par. 92).
Il ricorso avanzato dal detenuto italiano e dai suoi familiari è stato sostanzialmente ricondotto dalla Corte a due ragioni: la prima riguardante la compatibilità del detenuto con la detenzione in ragione delle proprie condizioni di salute; la seconda, invece, concernente la protratta imposizione del regime carcerario duro ex art. 41bis O.P. nonostante l’aggravarsi delle proprie condizioni fisiche e psichiche.
Come sempre, la Corte ha ribadito che l’art. 3 della Cedu “enshrines one of the most fundamental values of democratic society” (par. 126) e il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti deve essere considerate assoluta e in nessun caso derogabile, sia anche per ragioni di sicurezza nazionale o sopravvivenza dello Stato, richiamando a tal fine proprio una sentenza di condanna contro l’Italia (Labita c. Italia, n. 26772/95). Ancora, esiste certamente un limite minimo sotto il quale un trattamento che astrattamente configuri una condotta inumana allo stesso tempo non si traduca immediatamente in una violazione del dettato dell’art. 3 CEDU (a tal fine risultano assai utili le riflessioni già operate nei casi Kudła c. Polonia, n. 30210/96; Peers c. Grecia, n. 28524/95; Enea c. Italia, n. 74912/01; ma anche Bouyid c. Belgio, n. 23380/09), tuttavia, si è ribadito, “the assessment of this minimum is relative: it depends on all the circumstances of the case, such as the duration of the treatment, its physical and mental effects and, in some cases, the sex, age and state of health of the victim” (par. 126).
Ebbene, “the State must ensure that a person is detained in conditions which are compatible with respect for human dignity, that the manner and method of the execution of the measure of deprivation of liberty do not subject him to distress or hardship of an intensity exceeding the unavoidable level of suffering inherent in detention” (par. 127). Tutto ciò, naturalmente, senza poter distinguere l’intensità del diritto al rispetto della persona dei diversi detenuti in base ad una mera valutazione relativa al crimine commesso, alla sua intensità ovvero alla gravità delle condotte perpetrate.
A tale punto della propria ricostruzione, la Corte ha iniziato ad approfondire la specifica vicenda in analisi, dovendo osservare come già dopo pochi anni di detenzione, il Provenzano aveva iniziato a soffrire di un vasto numero di malattie croniche, che ne hanno gravemente condizionato la salute, finendo per essere progressivamente sempre più compromesse tutte le sue funzioni cognitive (cfr. par. 131).
In definitiva, comunque, la Corte non ha inteso individuare nella detenzione in sé una violazione dell’art. 3 CEDU, e ciò proprio in ragione di specifiche peculiarità del soggetto detenuto, dei reati commessi, della condotta carceraria, delle cure e dell’assistenza che il Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria italiano aveva costantemente fornito al ristretto. Al contrario però, la Corte non ha potuto in alcun modo accogliere la difesa del Governo italiano secondo la quale l’imposizione reiterata del regime di detenzione più gravoso presente nel proprio sistema penitenziario fosse giustificato dalla “continua pericolosità sociale” del Provenzano e dalla “gravità dei crimini commessi” (cfr. par. 146).
Orbene, la Corte ha ricordato di essersi già occupata in un vasto numero di occasioni dei pericoli insiti in un regime tanto duro quale quello previsto dall’art. 41bis dell’ordinamento penitenziario italiano. Alla luce di questa lunga esperienza di confronto con tale previsione normativa, essa ha concluso con certezza che nella maggior parte dei casi “the imposition of the regime does not give rise to an issue under Article 3, even when it has been imposed for lengthy periods of time” (par. 147). Nonostante ciò, tuttavia, la severità delle previsioni – soprattutto nei casi di imposizione prolungata – impone una particolare forma di controllo delle motivazioni attuali in ragione delle quali si prosegue tale ulteriore imposizione restrittiva a danno dei detenuti, in assenza della quale – ovvero qualora essa non sia operata in maniera corretta ed idonea – si può facilmente cadere in una violazione più o meno grave dell’Art. 3 CEDU.
Riguardo il caso Provenzano, nonostante la Corte abbia preso piena coscienza di quanto “the applicant had been an extremely dangerous individual and a prominent leader of one of the largest existing criminal organisations” (par. 150) allo stesso tempo tuttavia, le giustificazioni avanzate dallo Stato italiano sulla base delle quali l’autorità giudiziaria competente avrebbe deciso di prolungare il regime di 41bis nonostante le condizioni di salute del detenuto non sono apparse affatto convincenti. Al contrario, anzi, “the picture which emerges from the medical documentation available to the Court (…) is one which may at least cast some legitimate doubts on the applicant’s persistent dangerousness and his ability to maintain meaningful, constructive contact with his criminal association” (par. 151).
La Corte ha quindi ribadito che l’essenza ed il fulcro della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo risiede nel rispetto della Dignità umana, e che pertanto tale oggetto finale della protezione approntata deve trovare nelle disposizioni convenzionali e nella loro applicazione una tutela concreta, pratica ed efficace (come peraltro già ampiamente argomentato nel caso Svinarenko c. Russia, n. 32541/08 e Slyadnev c. Russia, n. 43441/08).
È di tutta evidenza, quindi, come “subjecting an individual to a set of additional restrictions, which are imposed by the prison authorities at their discretion, without providing sufficient and relevant reasons based on an individualised assessment of necessity, would undermine his human dignity and entail an infringement of the right set out in Article 3” (par. 152).
Ancora una volta, in sostanza, la Corte si è trovata a dover ribadire che rispondere al crimine, anche il più feroce, con le stesse armi di sopraffazione e disumanità contro le quali ci si sta rivolgendo, degradare per vendicarsi, dimenticare il valore della dignità dell’essere umano, anche di quello che si è macchiato di crimini tremendi, rappresenta l’estrinsecazione di una modalità di approccio all’illegalità che non può trovare posto nel nostro sistema di diritti. Nella tutela della persona, al netto dei crimini commessi, risiede infatti il punto più alto dell’effettività della giustizia, e la Corte europea di Strasburgo ha dovuto nuovamente ricordarlo all’Italia.