Le ordinanze n. 216 e 217 del 2021 della Corte Costituzionale: il rinvio pregiudiziale come calumet della pace nell’ordinamento (penale) multilivello
Con le due pronunce in commento, la Corte Costituzionale pare voler porgere un calumet della pace alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. La memoria delle tensioni che hanno percorso i confini dei territori del diritto penale (e che sono culminate nel duello ingaggiato nella saga Taricco) è ancora vivida, ma la Consulta pare – con queste due ordinanze – intenzionata a ripristinare un’interazione collaborativa con la Corte di Lussemburgo. Va peraltro riconosciuto che alcuni gesti di riconciliazione erano già stati compiuti dalla Corte Costituzionale negli ultimi anni, in particolare con le ordinanze n. 117 del 2019 e n. 182 del 2020, con le quali essa aveva effettuato due rinvii pregiudiziali alla Corte di Giustizia.
A ben vedere, tali sviluppi vanno inquadrati nel più complesso assetto di relazioni tra gli organi giurisdizionali dell’ordinamento multilivello per come configurato a seguito della sentenza n. 269 del 2017. In tale pronuncia, la Consulta, correggendo (o, forse, alterando) la dottrina Granital (sentenza n. 170 del 1984), ha sancito che, laddove una legge sia oggetto di dubbi di compatibilità tanto in riferimento alla Costituzione quanto in relazione alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (d’ora innanzi, la Carta), allora «debba essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale». Con questa statuizione la Corte Costituzionale ha impresso una decisa spinta centripeta al sindacato di conformità della legge rispetto ai diritti fondamentali (Manacorda, ‘Doppia pregiudizialità’ e Carta dei diritti fondamentali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 572 ss.). In alcune pronunce successive, comunque, la Consulta ha stemperato il principio della priorità della questione di costituzionalità, trasformando quello che pareva un dovere in una mera “opportunità” (Amalfitano).
È proprio in questo contesto che si collocano le ordinanze gemelle in commento, entrambe concernenti la compatibilità della disciplina del mandato di arresto europeo (d’ora innanzi, MAE) rispetto a taluni diritti fondamentali protetti tanto dalla Costituzione quanto dalla Carta. In entrambe le pronunce, la Corte Costituzionale ha deciso di effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo.
La prima ordinanza (n. 216) riguarda in particolare la legittimità degli artt. 18 e 18-bis della l. 69/2005, di cui la Corte di appello di Milano prospetta un possibile profilo di contrasto rispetto alla tutela del diritto alla salute laddove essi non prevedono quale motivo di rifiuto della consegna «ragioni di salute croniche e di durata indeterminabile che comportino il rischio di conseguenze di eccezionale gravità per la persona richiesta».
La seconda ordinanza (n. 217) attiene ancora alla legittimità dell’art. 18 bis della l. 69/2005, censurato dalla Corte di appello di Bologna «nella parte in cui non prevede il rifiuto facoltativo della consegna del cittadino» di un Paese terzo «che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano» quando la pena o la misura di sicurezza irrogata nei suoi confronti potrà comunque essere eseguita in Italia. Ad opinione del giudice territoriale, tale previsione pregiudica la funzione risocializzativa della pena nonché il diritto del condannato al rispetto della propria vita familiare.
Le ordinanze – originate dalla penna del medesimo giudice redattore – seguono un iter argomentativo simile. Dopo aver fugato una serie di questioni preliminari, infatti, la Corte Costituzionale ammette la rilevanza non solo nazionale ma anche europea delle censure di illegittimità della normativa scrutinata. In particolare, citando le celebri sentenze Fransson e Melloni, la Consulta riconosce che spetta innanzitutto alla Corte di Giustizia il compito di pronunciarsi sullo standard di tutela dei diritti dei condannati al cui rispetto è subordinata la legittimità della disciplina del MAE (n. 216): e ciò in quanto «la materia del» MAE «è interamente armonizzata» dalla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, essendo dunque il parametro di legittimità di tale disciplina quello «risultante dalla Carta […] e dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea» (n. 217). Si tratta, per esplicita ammissione della Corte Costituzionale, di una logica imposta dalla necessità di preservare il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione, la quale preclude agli Stati Membri di «condizionare l’attuazione del diritto dell’Unione […] al rispetto di standard puramente nazionali di tutela dei diritti fondamentali». Lo scarto rispetto alla prima ordinanza della pièce Taricco (n. 24 del 2017) è evidente.
In entrambe le ordinanze, comunque, la Corte Costituzionale non si astiene dal fornire ai giudici di Lussemburgo degli argomenti orientati al riconoscimento di alcuni profili di incompatibilità della disciplina del MAE rispetto ai diritti fondamentali dei condannati. È importante sottolineare che la Consulta, nel far ciò, si ispira al principio di «costruttiva e leale cooperazione tra i sistemi di garanzia» e, perciò, formula delle osservazioni fondate (non sulla propria interpretazione della Costituzione, bensì) sull’interpretazione che la Corte di Giustizia ha fornito del diritto europeo, rimettendo ad essa l’identificazione della soluzione più idonea a bilanciare i diversi interessi coinvolti. Tuttavia, e anche tale aspetto va rimarcato, la Consulta indirizza chiaramente le sue considerazioni nel senso di riconoscere il vulnus che l’attuale disciplina del MAE determina nei confronti dei diritti fondamentali dei condannati. Le ordinanze non sono, dunque, neutrali: anzi, esse depongono chiaramente nel senso di consentire il rifiuto (ad oggi non ammesso) della consegna dell’individuo in presenza di determinate condizioni concernenti la sua salute o il suo radicamento territoriale. Non si tratta di un “frutto avvelenato”: secondo la Consulta, infatti, è «lo stesso diritto dell’Unione» a non poter «tollerare che l’esecuzione del» MAE «determini una violazione dei diritti fondamentali dell’interessato» (n. 216).
Più nel dettaglio, nell’ordinanza n. 216, la Corte Costituzionale suggerisce ai giudici di Lussemburgo di estendere all’ipotesi da essa esaminata i meccanismi interlocutori delineati nella sentenza Aranyosi e in altre sentenze successive (Celmer). In tali pronunce si è stabilito che, nei casi in cui si manifestano «pericoli di violazione dei diritti fondamentali […] connessi a carenze sistemiche» dello Stato di emissione, le autorità giudiziarie dello Stato di esecuzione devono rifiutare la consegna laddove, in concreto e sulla base di «motivi seri e comprovati», tale rischio possa riguardare anche il soggetto interessato: a tal fine, «l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve chiedere all’autorità giudiziaria emittente […] ogni informazione» necessaria per verificare l’esistenza di questo rischio. Ebbene, secondo la Corte Costituzionale, tale procedura dialogica dovrebbe essere applicata anche alla «diversa ipotesi in cui le condizioni patologiche, di carattere cronico e di durata indeterminabile, della singola persona richiesta siano suscettibili» di peggiorare «nel caso di consegna». La Consulta ritiene però che tale meccanismo non possa essere esteso in via interpretativa dal giudice comune alla «ipotesi» sub iudice, in quanto essa si differenzia da quella sinora trattata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia poiché è connotata non da carenze “sistemiche e generalizzate” dello Stato di emissione, bensì da una situazione individuale in cui, per le specifiche condizioni della «singola persona richiesta», l’esecuzione del MAE determinerebbe un vulnus ai suoi diritti fondamentali. In quest’ottica, dunque, la Corte Costituzionale, pur prospettando tale soluzione ermeneutica, esclude che essa possa essere adottata dai giudici nazionali e richiede, anzi, che sia la Corte di Giustizia a farla propria, eventualmente adattandola alle esigenze della situazione considerata: si tratta di una soluzione che, evidentemente, favorisce l’uniformità e l’effettività del diritto europeo. Ad ogni modo, a favore dell’estensione del meccanismo di interlocuzione delineato dalla Corte di Lussemburgo depongono, secondo la Corte Costituzionale, tanto il diritto alla salute per come enucleato dagli artt. 3 e 35 della Carta quanto il diritto, richiamato dall’art. 4 della Carta, a non subire trattamenti inumani e degradanti. D’altra parte, la Consulta riconosce che tali diritti vadano comunque bilanciati con l’interesse a perseguire, condannare e punire gli autori di reato: tuttavia, tale interesse non appartiene solo allo Stato di emissione del MAE, ma a tutti gli Stati Membri e ciò, implicitamente, comporta che nel caso in esame esso possa essere soddisfatto anche se la consegna viene rifiutata e la pena eseguita in Italia.
L’ordinanza 217 riguarda invece il MAE emesso nei confronti di un cittadino di un Paese terzo che, però, sia legittimamente radicato nel territorio di uno Stato membro. A tal proposito, va innanzitutto rammentato che, con la sentenza n. 227 del 2010, la Corte Costituzionale aveva acclarato l’incostituzionalità della allora vigente disciplina interna di attuazione della decisione quadro 2002/584/GAI «nella parte in cui non prevedeva il rifiuto di consegna – oltre che del cittadino italiano – anche del cittadino di un altro Stato membro […] che legittimamente ed effettivamente avesse residenza o dimora nel territorio italiano»: tale pronuncia era stata argomentata sulla base del divieto di discriminazione previsto dall’art. 18 TFUE e del contrasto tra la normativa europea e quella nazionale di recepimento. L’ipotesi in esame è, però, evidentemente diversa poiché, come ricorda la Corte, il cittadino del Paese terzo non può invocare «il principio di non discriminazione in base alla nazionalità». Ciò chiarito, dunque, la Consulta – dopo aver ripercorso la giurisprudenza della Corte di Lussemburgo concernente questioni affini (ma distinte) – si sofferma prevalentemente sulle opportunità di reinserimento sociale del condannato. In particolare, essa rammenta che la stessa Corte di Giustizia, a partire dalla sentenza Kozlowski, ha costantemente sottolineato che «il motivo di non esecuzione facoltativa stabilito all’art. 4, punto 6, della decisione quadro mira segnatamente a» favorire l’incremento delle «opportunità di reinserimento sociale della persona ricercata una volta scontata la pena». Al perseguimento di tale scopo, del resto, è preordinata anche la successiva e collegata decisione quadro 2008/909/GAI del Consiglio, la quale si applica anche ai cittadini di Paesi terzi. Anche in questa ordinanza, peraltro, la Consulta precisa che il rifiuto della consegna del condannato non pregiudica l’intento della disciplina del MAE, ossia «lottare contro l’impunità di una persona ricercata», in quanto «lo Stato dell’esecuzione si impegna a riconoscere ed eseguire esso stesso la pena inflitta dallo Stato di emissione, assicurandone così l’effettività e, assieme, la maggiore funzionalità rispetto alla sua finalità di risocializzazione del condannato». Allo scopo di corroborare tali argomenti, la Consulta richiama anche la giurisprudenza della Corte EDU, la quale ha ritenuto che il diritto del condannato al rispetto della propria vita familiare (art. 8 CEDU) fosse funzionale alla capacità risocializzativa della pena. La questione rimessa alla Corte di Giustizia riguarda proprio la compatibilità con il diritto europeo di una disciplina come quella italiana che preclude in maniera assoluta ai giudici di esecuzione di rifiutare la consegna di cittadini di Paesi terzi che dimorino o risiedano sul loro territorio; inoltre, laddove sia riconosciuta l’illegittimità di una normativa siffatta, la Consulta chiede anche di chiarire sulla base di quali criteri i legami dei soggetti interessati possano essere ritenuti tali da giustificare il rifiuto della consegna.
Nelle prime letture delle due ordinanze (Barbieri) è stata sottolineata la tensione tra l’approccio, diffidente e chiuso, dei giudici territoriali e l’attitudine, equilibrata e collaborativa, della Corte Costituzionale. A chi scrive, però, non sembra che si possa ascrivere alle Corti di appello rimettenti un atteggiamento inopinatamente ostile rispetto alla Corte di Giustizia: al contrario, il loro modus operandi si inscrive all’interno del modello delineato dalla sentenza 269 del 2017, secondo cui è “opportuno”, nei casi di “doppia pregiudizialità”, sollevare prioritariamente la questione di costituzionalità. Che, poi, la loro scelta sia anche un precipitato del disincanto, diffuso tra i penalisti soprattutto a seguito della vicenda Taricco, nella capacità della Corte europea di comprendere a pieno le esigenze di garanzia degli imputati e dei condannati è difficilmente contestabile. Va però anche ricordato che, nei casi in esame, le Corti di appello chiedono che gli venga riconosciuta la facoltà di rifiutare la consegna del soggetto interessato e di preservare, dunque, il potere esecutivo dell’ordinamento nazionale su di esso: è naturale, dunque, che esse si rivolgano all’interlocutore (la Corte Costituzionale) che pare più sensibile all’esigenza di non erodere lo spazio di intervento dell’apparato punitivo italiano. Molteplici sono, dunque, le ragioni della scelta dei giudici territoriali di interrogare, innanzitutto, la Corte Costituzionale: la prima istituzionale, la seconda culturale e l’ultima, infine, strategica.
Ad ogni modo, tali profili di analisi, pur interessanti, risultano tutto sommato secondari. Il punto di maggior rilievo è, infatti, l’approccio collaborativo adottato dalla Corte Costituzionale. Il rinvio pregiudiziale, brandito nella saga Taricco per minacciare epiloghi drammatici, viene in questa occasione impiegato come calumet della pace, offerto alla Corte di Giustizia nella volontà di superare le tensioni del passato e di addivenire (non solo a una soluzione dei casi concreti soddisfacente sul piano della tutela dei diritti fondamentali, ma anche) a un assetto di rapporti istituzionali più equilibrato e propizio per le garanzie individuali. In esso, a seguito della sentenza n. 269 del 2017, la Corte Costituzionale si propone come autorevole intermediario tra i giudici comuni e la Corte di Giustizia. Nella prospettiva dei penalisti, pedanti custodi del patrimonio di garanzie individuali accumulato nel tempo, tale equilibrio risulta apprezzabile: il coinvolgimento di più organi giurisdizionali costituisce infatti la più immediata forma di tutela dei diritti fondamentali degli individui. Più complessa e articolata è, invece, la valutazione da operare nella prospettiva dei rapporti tra sistemi di garanzia nell’ordinamento multilivello: basti qui osservare che il giudizio a ciò relativo dipende, in gran parte, dal modo in cui la Corte Costituzionale interpreterà la sua funzione di tramite tra le istanze di tutela manifestate dal caso concreto e la possibilità di soddisfarle mediante i dispositivi di garanzia nazionali ed europei. Essa potrebbe farsi portatrice di dichiarazioni di guerra (come nell’affaire Taricco), oppure potrebbe proporre tregue e, addirittura, stipulare alleanze nel nome della protezione dei diritti fondamentali degli individui (come nelle ordinanze in commento). In ogni caso, rimane un dato ineludibile: nel modello designato dalla sentenza n. 269 del 2017 è la Corte Costituzionale a fungere da arbitro degli equilibri dell’ordinamento multilivello. Fintanto che essa svolgerà tale ruolo con la spiccata sensibilità dimostrata nelle ordinanze in commento, la concordia regnerà sulle terre del diritto penale; altrimenti, si ridesteranno le tensioni appena sopite. L’equilibrio, si intende, è assai fragile.