Le due vie per il ristoro economico dell’offeso dal reato che escludono l’equa riparazione per irragionevole durata delle indagini preliminari (Corte cost. n. 249 del 2020)
Si sviluppano come un groviglio le problematiche del decorso del tempo nel rito penale: l’inefficienza cronica coinvolge il presidio giustizia e con esso i soggetti privati che a vario titolo si trovano coinvolti nelle vicende penalistiche. Non si scorgono soluzioni negli assetti attuali e nel mentre si moltiplicano i vuoti di tutela: è impellente il bisogno di celerità ed efficacia del sistema processuale, che dovrebbe essere al tempo stesso obiettivo di ciascun protagonista in esso coinvolto, pur nella fisiologica e naturale diversità di ruoli e funzioni.
La prescrizione intervenuta nella fase investigativa e le vane pretese dell’offeso, dinnanzi ad una originaria inerzia del p.m., di ottenere quanto meno il ristoro per l’irragionevole durata del procedimento penale sono state alla base dell’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità dell’art. art. 2, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo), nella parte in cui prevede che il processo penale si considera iniziato, per l’offeso, con l’assunzione della qualità di parte civile ai fini del computo della durata ragionevole, per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU.
La rilevanza della questione, per il giudice rimettente, ha trovato giustificazione proprio nella durata non ragionevole dell’attività investigativa, protratta ingiustificatamente e improduttivamente oltre i termini di durata massima, esitando nella richiesta di archiviazione del procedimento per intervenuta prescrizione del reato. La norma sospettata di illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 6 CEDU stabilisce che «[i]l processo penale si considera iniziato con l’assunzione della qualità (…) di parte civile» per l’offeso. E tanto avrebbe dovuto indurre a respingere la domanda di equa riparazione, non senza insinuare nel giudice a quo la convinzione di un attrito tra la norma suddetta e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui nel diritto italiano la posizione della parte lesa che, in attesa di potersi costituire parte civile, abbia esercitato almeno uno dei diritti e facoltà ad essa riconosciuti dalla legislazione interna, non differisce, per quanto riguarda l’applicabilità dell’art. 6 CEDU, da quella della parte civile (Corte EDU, 7 dicembre 2017, Arnoldi c. Italia. Per un commento si rinvia qui). Per la Corte europea dei diritti dell’uomo non rileva lo status formale della persona offesa nell’ambito del procedimento penale italiano, occorrendo, invece, verificare: a) se l’interessata intendesse ottenere la tutela del suo diritto civile o «far valere il suo diritto a una riparazione» nell’ambito del procedimento penale; b) se l’esito della fase delle indagini preliminari fosse determinante per il «diritto di carattere civile in causa».
Alla luce del parametro interposto, individuato nell’art. 6 CEDU e negli orientamenti della Corte di Strasburgo, la Consulta ha scrutinato l’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001 analizzando gli interessi di cui è portatrice la persona offesa dal reato già prima del momento in cui l’ordinamento nazionale attribuisce ad essa la qualità di «parte civile» e, dunque, nella fase procedimentale.
La declaratoria di infondatezza della questione ha sondato nel profondo gli ideali del codice di rito penale del 1988, mostrandosi sensibile all’interesse di cui è portatore l’offeso dal reato. Si tratta di interesse duplice: quello al risarcimento del danno e quello all’affermazione della responsabilità dell’autore del reato, esercitabile attraverso attività di supporto e controllo dell’operato dell’accusa.
Ciò non cancella, tuttavia, pur nel rispetto di quelle finalità di economia dei giudizi che giustificano la costituzione di parte civile, la prevalenza di esigenze diverse in seno al rito penale, che non assurge a luogo di “vendetta privata”, né a sede di ristoro puramente economico del danno derivante dall’illecito.
Non può sfuggire, invero, malgrado l’aspetto patologico della vicenda sottesa al provvedimento di rimessione, che il ristoro economico per l’offeso può conseguirsi attraverso una “doppia via”: oltre che tramite l’esercizio dell’azione civile nel processo penale, gli interessi risarcitori possono essere proficuamente perseguiti nella naturale sede del giudizio civile, con un iter del tutto indipendente dal giudizio penale e senza che sussistano condizionamenti che, viceversa, la legge impone nel caso in cui si preferisca percorrere la prima delle due opzioni.
Si tratta di un disegno che, oltre a spiegare bene l’attribuzione all’offeso della qualifica di “parte eventuale”, ne giustifica altresì la diversità di poteri, più ristretti e circoscritti rispetto a quelli delle altre parti “necessarie”: alla prima «è comunque assicurato un diretto e incondizionato ristoro dei propri diritti attraverso l’azione sempre esercitabile in sede propria» (Corte cost., sentt. n. 217 del 2009 e n. 168 del 2006).
È pur vero che con la sentenza n. 184 del 2015, la stessa Corte costituzionale ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, sollevata, con riguardo alla peculiare posizione dell’imputato, sempre in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU, nella parte in cui la medesima norma prevedeva che il processo penale si considerasse iniziato con l’assunzione della qualità di imputato, ovvero quando l’indagato avesse avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari, anziché quando l’indagato, in seguito a un atto dell’autorità giudiziaria, avesse comunque avuto conoscenza del procedimento penale a suo carico. Operare assimilazioni tra la posizione dell’indagato e quella dell’offeso nella fase procedimentale risulta, tuttavia, operazione inconferente già a considerare il decalogo di prerogative individuali riservate da quell’art. 6 CEDU al solo soggetto accusato. È il concetto stesso di “accusa”, secondo orientamenti ormai consolidati, a doversi considerare indipendente dalle distinzioni e classificazioni giuridiche elaborate in seno agli ordinamenti nazionali dei singoli Stati aderenti alla Convenzione (v. già Corte EDU 26 marzo 1982, Adolf c. Austria, § 30): sulla scorta del patrimonio giurisprudenziale europeo l’accusa coincide con il primissimo momento a partire dal quale l’accusato sia posto, da parte delle Autorità nazionali, nelle condizioni di subire delle conseguenze sostanziali. Il che consente di far retroagire il momento del patimento dell’indagato, in certe situazioni, agli antipodi della vicenda penale, a prescindere dalle autonome ripartizioni per fasi contemplate nei singoli ordinamenti. Cosicché la violazione del diritto a una celere definizione del processo penale, ex art. 6 CEDU e 111 Cost., giustifica la pretesa di un indennizzo idoneo a ristorare il patimento cagionato dall’eccessiva pendenza dell’accusa, quando la stessa sia stata espressa per mezzo di un qualsiasi atto dell’autorità giudiziaria e abbia in tal modo acquisito una consistenza tale da ripercuotersi significativamente sulla vita dell’indagato.
A partire da tali premesse generali, il discorso assume poi connotazioni più specifiche che portano a condividere la decisione del Giudice delle leggi, allorquando si occupa della possibilità di intravedere una necessaria, e non occasionale, identità tra il diritto di carattere civile spettante alla persona offesa già durante la fase investigativa e la posizione soggettiva di carattere privato da essa azionabile a seguito della costituzione di parte civile nel processo penale. Solo se fosse possibile riscontrare tale identità, come ben sottolinea la Consulta, potrebbe individuarsi, sotto il profilo dell’effettività del pregiudizio subìto, la necessaria unitarietà dell’interesse a che il complessivo giudizio penale si concluda in termini ragionevoli.
In realtà il dato dirimente sta proprio nell’erronea omogeneizzazione tra la fase procedimentale e il segmento processuale successivo alla costituzione di parte civile dell’offeso: i poteri attribuiti all’offeso durante le indagini non sono funzionali alla tutela anticipata del diritto solo potenzialmente riconosciuto alla parte civile, alla quale la legge processuale attribuisce poteri finalizzati a soddisfare la domanda solo a seguito delle determinazioni del pubblico ministero di esercitare l’azione penale, a partire dalle quali alla stessa è consentito costituirsi in giudizio.
Quella stretta interdipendenza tra esercizio dell’azione e prerogative finalizzate a vantare il credito risarcitorio nel rito penale è in grado di esplicitare altresì il nesso tra diritto di carattere civile e azione penale, che non ha ragion d’essere prima che il pubblico ministero abbia assunto le proprie determinazioni. Lo si evince altresì dall’impossibilità per l’offeso di impugnare nel merito l’ordinanza di archiviazione emessa a seguito dell’opposizione.
È rimessa d’altronde all’offeso l’opzione di perseguire le sue pretese risarcitorie nel rito penale pur dinnanzi alla possibilità di ottenere ristoro nella sua naturale sede innanzi al giudice civile. Ed è in virtù di siffatto sistema di doppia tutela, predisposto dall’ordinamento, che non può ipotizzarsi irragionevolezza alcuna nella diversità dei modi di intendere la fase investigativa per l’accusato e per l’offeso a norma del medesimo art. 2, comma 2-bis, della legge “Pinto”.
Rimangono sullo sfondo della vicenda, è chiaro, le patologiche stasi investigative che, in una molteplicità di ipotesi, portano a alla prescrizione del reato in fase di indagine, malgrado le scansioni temporali ben definite idonee a prevenire esiti siffatti. Ma questa è un’altra storia…