Le due Carte che (non) fecero l’Italia. Statuto Albertino 1848 e Costituzione della Repubblica Romana 1849 (a cura e con un commento di Giuseppe Allegri)
Collana Le Grandi Carte–MiniFefè, Fefè editore, Roma, novembre 2013
Nelle sbrigative celebrazioni dei 150 anni del Risorgimento, fra le altre cose, è sfuggita una seria riflessione sull’esperienza costituzionale di quella lunga stagione. Ben venga quindi la ripubblicazione di due fra le Costituzioni più interessanti: lo Statuto albertino (1848) e la Costituzione della Repubblica Romana (1849).
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Per ricostruire storicamente il quadro, come è noto, si deve risalire all’elezione di Pio IX nel 1846 e ricordare le speranze suscitate dai suoi primi atti come pontefice, fra tutti l’amnistia dei detenuti politici, che inaugurarono il biennio riformista. Un moto popolare che componendosi con la grave crisi economica superò le intenzioni dello stesso Pio IX e rapidamente si diffuse in tutti gli Stati italiani, intercettando l’effervescenza rivoluzionaria che dilagava in Europa inaugurando i moti che culminarono nel 1848. Ancora una volta era la Francia il centro propulsore ma, a differenza delle crisi precedenti, il ’48 conobbe anche in Italia forme di originalità sia nella pratica politica, sia nell’architettura costituzionale.
Come spiega Allegri nella sua nota (non a caso titolata Costituzioni e rivoluzioni), le due Carte, nell’irriducibile differenza che le unisce, mettono bene a fuoco il carattere paradigmatico del 1848 nella simultaneità di un processo costituente dall’alto e un movimento costituente dal basso; spinta nazionale e questione sociale, vale a dire la duplice radice della grande tradizione rivoluzionaria dell’89.
Carta ottroiata lo Statuto, concessa paternalisticamente ai “regnicoli” da Carlo Alberto (di lì a poco sconfitto e costretto all’esilio) e sopravvissuta fino all’introduzione della Costituzione repubblicana: prevedeva una Camera dei Deputati (eletta per censo) e un Senato di nomina regia, con una stretta dipendenza del governo dal sovrano, emulando la Carta francese del 1830. In discontinuità con la tradizione giurisdizionalista, lo Statuto contemplava una rigida riserva per le prerogative della Chiesa, non solo riconoscendo all’articolo I il cattolicesimo romano sola religione di Stato, ma attribuendo al vescovo il controllo ultimo sulla stampa dei libri religiosi o alla sua sfera riconducibili. Vietando, altresì, le pubbliche adunanze vale a dire la riunioni pubbliche dei sudditi.
Ben diversa la Costituzione romana: entrata in vigore poco prima della definitiva sconfitta. Malgrado questo si è sempre guardato ad essa come modello esemplare di una alternativa alla deriva moderata che ha dominato la stagione risorgimentale. Sovranità popolare, democrazia sociale, virtù del municipalismo questi i tre capisaldi giustamente sottolineati da Allegri e che denotano la modernità di quel processo costituente. Naturalmente centrale appare la liberazione da ogni sovradimensionamento religioso, ma colpisce l’assenza di qualsiasi risentimento verso la coscienza religiosa dei cittadini romani ai quali, anzi, si riconosceva la piena libertà nella manifestazione del proprio pensiero senza nessuna censura. Tipiche della tradizione rivoluzionaria radicale e mazziniana il diritto di petizione e la libertà associativa, allo stesso modo il suffragio universale, anche se come per lo Statuto il riconoscimento del diritto di voto era precluso alle donne, come registra il curatore. Malgrado questo limite, connaturato allo spirito del tempo, fu forte l’impronta lasciata da questa Carta arrivando fino ai costituenti repubblicani, persino nella struttura lessicale.
È dunque in questo esercizio di rivalutazione del passato e nella considerazione della Costituzione non come un feticcio formale ma come un documento di un momento, come ammoniva Robespierre che passa anche la sfida verso quelle nuove istituzioni capace di sorreggere il futuro che viene.