Le corti europee tra dialogo e negoziato. Riflessioni a partire da due recenti documenti della Corte di giustizia dell’Unione europea su OMT e adesione alla CEDU.
La questione democratica occupa ormai, giustamente, una parte sempre più importante del dibattito sulle istituzioni europee. Sarebbe tuttavia un errore imperdonabile quello di ridurre una questione così complessa ad uno schema ad una sola variabile, come se si potesse raggiungere un ipotetico livello ottimale di democraticità delle istituzioni europee unicamente in funzione della porzione di sovranità mantenuta dagli Stati nazionali (o, di converso, trasferita al livello sovranazionale). Si tratta, invece, di una questione che può essere affrontata solo tenendo presente il suo carattere multidimensionale, che deriva non solo dalla complessità delle cause che la determinano, ma anche dalla varietà della natura stessa di tali cause. Può essere, dunque, utile, soffermarsi su alcuni aspetti specifici che in qualche modo sono rivelatori dell’esistenza di patologie del sistema di rappresentanza istituzionale degli interessi, per tentare di ricostruire una delle tante facce di tale questione democratica. In questo senso, l’analisi del ruolo del potere giudiziario è talvolta in grado di fornire indizi utili per individuare alcuni possibili vizi di funzionamento di un sistema politico in generale.
Nelle scorse settimane, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha prodotto due documenti di grande rilevanza: il primo, datato 18 dicembre, è un’opinione della Corte sulla compatibilità con i Trattati della bozza dell’accordo di adesione dell’Unione Europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo; il secondo è l’opinione dell’avvocato generale Pedro Cruz Villalón dello scorso 14 gennaio sul rinvio pregiudiziale emesso dalla Corte costituzionale tedesca con riguardo al programma di Operazioni monetarie definitive (Outright Monetary Transactions, OMT). Tali documenti, al di là della vistosa differenza di forma e di contenuto, e al di là delle stesse considerazioni relative al merito dei casi in questione, possono essere utilizzati per valutare non solo il “livello” di “attivismo” della Corte di giustizia e delle altre istanze giurisdizionali coinvolte, ma anche la “qualità” di tale “attivismo”. In particolare, colpisce come alcune delle principali istanze giurisdizionali europee, nel rapporto tra loro e con altri attori istituzionali, appaiano adottare un atteggiamento apertamente negoziale, che va ben oltre la protezione di culture giuridiche e standard di giudizio, ma si lega piuttosto alla difesa di specifici interessi politici.
Il primo caso riguarda il controllo preliminare di conformità ai Trattati dell’accordo di adesione dell’UE alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Nel 1996, la Corte di giustizia aveva escluso che l’Unione europea potesse accedere, in quanto tale, alla Convenzione, e che solo un cambiamento dei Trattati avrebbe potuto ribaltare tale giudizio. Tale cambiamento è avvenuto nel 2009, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, che non solo autorizzava, ma addirittura obbligava l’Unione europea a diventare parte contraente della CEDU. Il procedimento di adesione è stato molto complicato, essenzialmente perché il coordinamento tra i principi che regolano il funzionamento della Corte europea dei diritti dell’uomo (CtEDU) e le esistenti competenze della Corte di giustizia si è rivelato altamente complesso dal punto di vista tecnico, e molto sensibile anche dal punto di vista politico (considerando che l’accordo di associazione deve essere negoziato prima, e ratificato poi, da tutti e 47 gli Stati membri del Consiglio d’Europa).
Il compromesso raggiunto nella bozza di accordo firmata nell’aprile del 2013 non ha passato il vaglio della Corte di giustizia, che ha ritenuto che la propria posizione al vertice del sistema di controllo del diritto dell’Unione fosse indebitamente messa in discussione da diverse sezioni dell’accordo di associazione. La Commissione dovrà, perciò, riaprire il negoziato per tentare di risolvere le questioni individuate dalla Corte di giustizia nella sua pronuncia, essendo da un lato obbligata dai Trattati a giungere all’adesione dell’Unione europea alla CEDU, ma essendo dall’altro lato limitata dall’impossibilità di imporre agli Stati membri del Consiglio d’Europa delle soluzioni sulle quali essi non si trovino d’accordo.
Il secondo caso originava da un rinvio pregiudiziale della Corte costituzionale tedesca, che, nel gennaio di un anno fa, aveva richiesto alla Corte di giustizia di pronunciarsi circa l’interpretazione, in conformità ai Trattati, del programma di acquisto straordinario sul mercato secondario di titoli di Stato dell’area euro varato dal Consiglio direttivo della Banca centrale europea (BCE) nel settembre del 2012. La Corte costituzionale tedesca aveva tuttavia utilizzato il meccanismo del rinvio pregiudiziale (per la prima volta nella sua storia) con modalità originali, e tutt’altro che amichevoli rispetto all’istanza sovranazionale. Infatti, nel riconoscere che il programma di OMT era, in principio, da ritenersi come ultra vires, e cioè al di fuori delle competenze della BCE, la Corte costituzionale tedesca si riteneva legittimata ad impedire agli organi costituzionali della Repubblica federale di dare attuazione a tale programma. Tuttavia, la Corte riteneva che spettasse alla Corte di giustizia, se non l’ultima parola sulla conformità del programma ai Trattati (il che è, di per sé, da considerarsi quantomeno controverso), per lo meno l’interpretazione del suo contenuto. La Corte di giustizia si trova, così, chiusa in un angolo: se, da un lato, fornisse un’interpretazione estensiva, la Corte costituzionale tedesca potrebbe dichiarare costituzionalmente illegittima la partecipazione della Germania al programma, decretandone di fatto la fine; se, dall’altro, fornisse un’interpretazione restrittiva, il programma rischierebbe di perdere la sua efficacia.
L’avvocato generale Villalón ha precisato che la BCE non ha possibilità infinite di intervento sull’economia, e che gli eventuali interventi non convenzionali devono essere assistiti da una specifica motivazione in grado di garantire la proporzionalità dell’azione esercitata rispetto all’obiettivo da raggiungere, che deve essere a sua volta compreso tra quelli assegnati alla Banca centrale dai Trattati. D’altra parte, tuttavia, l’avvocato generale ha affermato che il programma è, in linea di principio, in conformità con i Trattati, e anche che la BCE deve poter godere di “ampia discrezionalità” nel mettere in atto la politica monetaria dell’area euro.
Ci si può legittimamente chiedere, a questo punto, che cos’abbiano in comune due documenti così difformi l’uno dall’altro. Si tratta, insomma, di atti giuridici diversi per forma e natura, emessi in procedimenti giurisdizionali di tipo diverso, ed afferenti a tematiche e a settori del diritto diversi e persino lontani tra loro. Anche i detentori degli interessi in questione (tanto in senso stretto quanto, per quel che qui maggiormente interessa, in senso lato, e al di là dei profili formali di diritto processuale) sono senz’altro diversi. Più che i titolari di tali interessi, tuttavia, a suscitare una certa meraviglia sono i difensori. A guardare con attenzione si scorge infatti che, in entrambi i casi, rappresentanti degli interessi reali in gioco non siedono solo di fronte ai giudici, ma vanno cercati anche tra i giudici stessi, che si fronteggiano tra appartenenti a diverse istanze giurisdizionali o che pongono le loro condizioni ai rappresentanti di altri poteri.
Nel primo caso, infatti, l’assetto di interessi in gioco riguarda direttamente (o quasi) la Corte di giustizia, e il suo ruolo nel sistema giuridico dell’Unione. Chiamata a decidere, la Corte è giudice rispetto alla questione giuridica proposta, ma non mostra remore nel giocare il ruolo di difensore di sé stessa rispetto agli interessi sottostanti (non senza ragioni, beninteso). E c’è chi non esclude (Peers) che la CtEDU possa essere chiamata a fare lo stesso con riguardo ad una eventuale prossima bozza di accordo. Nel secondo caso, gli interessi in campo sono più numerosi, ma non è difficile organizzarli in due campi: chi ha beneficiato dell’annuncio del programma di OMT da parte di Mario Draghi, e chi ha ritenuto di esserne penalizzato. Nel secondo campo sta un pezzo consistente e trasversale dell’establishment tedesco: sconfitta la linea del Presidente della Bundesbank sull’opportunità del varo del programma nel Consiglio direttivo della BCE, la Corte costituzionale federale (significativamente adita non solo da un alcuni deputati conservatori, ma anche dal gruppo parlamentare di Die Linke) è diventata lo strumento per trasferire la battaglia sul piano giurisdizionale. La Corte ha così assunto non solo il ruolo di giudice della questione che gli era stata sottoposta, ma anche quello di difensore delle istanze dei ricorrenti, e, più in generale, del modello ideologico promosso dalla Bundesbank quanto al ruolo della BCE. Investita del compito di definire il contenuto del programma di OMT, la Corte di Giustizia è diventata, a sua volta, paladino dell’altro campo, e difensore dello spazio decisionale e dell’autonomia della BCE.
Se tutto ciò è certamente degno di attenzione, non si tratta, di per sé, di dinamiche estranee ad un funzionamento quantomeno prevedibile di un sistema multilivello quale è quello europeo. Ciò che appare, tuttavia, degno di maggiore preoccupazione, sono le modalità con le quali avviene tale confronto tra le corti. Ben lontane dal limitarsi al ruolo di interpreti attivi del diritto vivente, le più alte giurisdizioni europee mostrano di sapersi spingere ormai ben oltre anche il concetto di dialogo, fino ad una dinamica letteralmente negoziale. La Corte di giustizia diventa, così, attraverso l’unico atto che è giuridicamente legittimata a produrre, parte integrante del negoziato internazionale sul suo ruolo nel futuro assetto del controllo giurisdizionale sul rispetto dei diritti fondamentali, mettendo sul tavolo le proprie condizioni. La Corte costituzionale tedesca interviene, in maniera ancora più clamorosa, sul terreno della più cocente sconfitta politica tedesca dallo scoppio della crisi, tentando di negoziare un parziale ribaltamento dell’esito del processo politico facendo leva sul presupposto economico per cui il funzionamento del programma non sarebbe possibile senza la partecipazione della Germania. La Corte di giustizia, da parte sua, si è seduta al tavolo ed ha risposto con una alzata di scudi ad orologeria, una settimana prima dell’annuncio di nuove misure non convenzionali (il recentissimo Quantitative Easing) da parte della BCE.
Lo sfondamento della porta della mediazione negoziale da parte delle istanze giurisdizionali non è altro che una delle ormai innumerevoli invasioni di poteri neutri, o supposti tali, nel campo della politica, talvolta mal difeso o persino abbandonato da chi avrebbe dovuto proteggerlo, ma la maggior parte delle volte assediato ed espugnato in forze da esponenti di interessi tutt’altro che neutri. A voler guardare il quadro completo, la stessa BCE e, per molti versi, la Commissione europea, sono occupanti non politici (o, perlomeno, non propriamente tali) di uno spazio che è politico per sua natura: le decisioni prese in tale ambito non cessano, cioè, di essere politiche per il solo fatto di essere compiute da organi formalmente neutri, tecnici o terzi. Se l’invasione di campo non produce, dunque, nessuna differenza con riguardo alla politicità del processo, l’effetto (deteriore) è, invece, imponente dal punto di vista della legittimazione di tale processo, sia in senso formale che sostanziale. In presenza di decisioni politiche assunte da organi più o meno indipendenti dalle dinamiche elettorali, si affievolisce infatti il nesso tra discrezionalità e responsabilità, e si mettono in pericolo le strutture di connessione tra volontà popolare e rappresentanza istituzionale.
Una possibile via d’uscita può essere tracciata lungo le due direttrici complementari del potenziamento e della politicizzazione dell’ordinamento dell’Unione. Da un certo punto di vista il potenziamento è una condizione per la politicizzazione, considerati i limiti dello Stato nazionale, nel quale le decisioni appaiono sempre più dipendenti da fattori esterni. Da un altro punto di vista, tuttavia, è la politicizzazione che costituisce la condizione dell’esercizio effettivo, da parte dei cittadini e dei propri rappresentanti , di quelle competenze che non appartengono più agli Stati nazionali. Alcune competenze, infatti, hanno finito per essere sottratte al processo democratico nazionale, senza essere parallelamente assegnate a dei corrispondenti organi sovranazionali politicamente responsabili (o senza essere riassegnate tout court: basti pensare, ad esempio, ai parametri contenuti nel Patto di stabilità). Si tratta, insomma, della perdita netta di una quota di sovranità, piuttosto che del trasferimento del suo esercizio. La sfida, pertanto, non riguarda tanto la modulazione del livello di esercizio delle singole competenze, ma la riemersione nello spazio politico dell’Unione di quote di sovranità che alle democrazie nazionali sono state già sottratte.