Le affinità “emissive”. La giurisprudenza comparata destinata a incidere sul contenzioso climatico italiano

Com’è noto, in Italia pendono due contenziosi climatici «propriamente» strategici, ossia fondati sulla tutela dei diritti umani nei riguardi di Stati o imprese, che non provvedono alla mitigazione dei gas serra in funzione dell’eliminazione di danni, presenti e futuri, alla persona (su questa proposta classificatoria, si v. A. Pisanò, L’evoluzione dei contenziosi climatici nei Report UNEP (2017-2023) e Elementi per una definizione dei contenziosi climatici «propriamente» strategici).
Si tratta delle azioni civili, avviate da associazioni e singoli, verso lo Stato italiano e verso l’impresa multinazionale dell’Oil & gas ENI, entrambe pendenti davanti al Tribunale civile di Roma. La prima, identificata con l’intestazione “Giudizio Universale”, è stata già decisa in primo grado, con una sentenza di inammissibilità per difetto assoluto di giurisdizione. La seconda, denominata “La Giusta Causa”, è stata rimessa, su istanza degli attori, alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, per regolamento preventivo di giurisdizione ai sensi dell’art. 41 c.p.c. (si legga il ricorso qui), proprio allo scopo di affidare al supremo giudice italiano la risposta sulla praticabilità o meno del contenzioso climatico in Italia.

Del resto, nel nostro contesto, il punto focale resta quello della giurisdizione: esiste un giudice per la materia climatica?
Stando alla sentenza di “Giudizio Universale”, la risposta sarebbe negativa per quattro ragioni;
– per assenza di «una obbligazione dello Stato (di natura civile coercibile da parte del singolo) di ridurre le emissioni nel senso voluto dagli attori»,
– per constatazione che «l’interesse invocato dagli attori non rientra nel novero degli interessi soggettivi giuridicamente tutelati»
– per il fatto che «le decisioni relative alle modalità e ai tempi di gestione del fenomeno del cambiamento climatico antropogenico – che comportano valutazioni discrezionali di ordine socio-economico e in termini di costi-benefici nei più vari settori della vita della collettività umana – rientrano nella sfera di attribuzione degli organi politici e non sono sanzionabili nell’odierno giudizio»,
– per l’esistenza di «atti, provvedimenti e comportamenti manifestamente espressivi della funzione di indirizzo politico, consistente nella determinazione delle linee fondamentali di sviluppo dell’ordinamento e della politica dello Stato nella delicata e complessa questione, indubbiamente emergenziale, del cambiamento climatico antropogenico» (il testo della sentenza è scaricabile qui).

Questo ordito argomentativo è stato oggetto di diffuse critiche (in questo blog, si v. Cecchi, Il Giudizio (o Silenzio?) Universale: una sentenza che non farà la storia).
Tuttavia, proprio a cavallo della sentenza di primo grado del Tribunale romano, sono maturate novità giurisprudenziali – internazionali, europee e nazionali – destinate a segnare per sempre il futuro del contenzioso climatico italiano, in ragione della loro portata generale. Esse, infatti, rispondono ai cinque interrogativi giuridici, costitutivi della lotta al cambiamento climatico: quali caratteristiche presenta il sistema delle fonti del diritto climatico; che cos’è l’obbligazione climatica; in che cosa consiste la mitigazione climatica; che cos’è l’emergenza climatica; quali sono i fatti non contestati dagli Stati in questo campo di azione.

Gli arresti giurisprudenziali di risposta sono in tutto otto, di cui gli ultimi tre provenienti dalla Corte costituzionale italiana. Per tale motivo, se ne offre una sintetica rappresentazione, nella divisione i due blocchi.

I primi cinque sono i seguenti.
a)
La sentenza CEDU sul caso “Agostinho Duarte et al.”.
Con questa decisione, la Corte europea ha affermato che il giudice naturale della responsabilità statale sulla mitigazione climatica è quello nazionale, a meno che il sistema costituzionale e legislativo domestico escluda espressamente la responsabilità extracontrattuale dello Stato, giustificando l’accesso per saltum a Strasburgo. In questo contenzioso, l’Italia è stata parte convenuta, argomentando, congiuntamente con gli altri Stati, l’accessibilità al contenzioso climatico italiano, negato invece in Italia (cfr. §§ 84 ss. della sentenza e, in dottrina, il commento di Bruno, Contenziosi climatici e la doppia verità dell’Avvocatura dello Stato).
b)
La sentenza CEDU sul caso “Verein KlimaSeniorinnen” (su cui, in questo blog, si v. Guarna Assanti, Verein KlimaSeniorinnen and others v. Switzerland: una conferma del ruolo fondamentale dei diritti umani per la tutela del clima).
Essa risponde a tutte e cinque le domande elencate, spiegando, alla luce dell’art. 8 CEDU:
– la differenza tra sistema del diritto ambientale e sistema del diritto climatico nonché tra causalità ambientale e causalità climatica (in merito, si v. Giaccardi, Dalla causalità ambientale a quella climatica);
– i caratteri dell’emergenza climatica come “fatto dannoso” già in corso (dunque ingiusto), idoneo a integrare i contenuti dell’obbligazione climatica;
– i contenuti dell’obbligazione climatica, da individuare non nella mera mitigazione (com’era nel Protocollo di Kyoto), per di più senza vincoli di tempo e scopo (come sostenuto dal Tribunale di Roma), bensì nell’eliminazione del pericolo dentro le soglie (quantitativo-temporali) dell’art. 2 dell’Accordo di Parigi e del conseguente obiettivo di stabilizzazione del sistema climatico, richiesto dall’art. 2 UNFCCC (parametri normativi di fondazione del § 550, che elenca i limiti esterni al margine di apprezzamento degli Stati);
– la conseguente mitigazione come condotta materiale finalizzata a evitare danni irreversibili nel presente e nel futuro (e non semplicemente a ridurre le emissioni, come ritenuto, invece, dal Tribunale di Roma);
– la proiezione necessariamente intergenerazionale della stessa;
– l’esistenza di fatti non contestati da tutti gli Stati in sede di COP (a partire dal c.d. “Global Stocktake” di COP28: cfr. §§ 139-140) e di IPCC, da porre a base degli accertamenti giudiziali.
Anche in questo giudizio ha preso parte lo Stato italiano per intervento volontario, argomentando l’insindacabilità assoluta delle scelte nazionali (rigettata dalla Corte), ma senza contestare le risultanze fattuali dell’IPCC e delle COP (utilizzate dalla Corte: cfr. §§ 370 e 429 ss.).
c)
La sentenza della Corte di Giustizia UE sul “caso ex Ilva” (Causa C-626/22).
In essa, si chiarisce che il parametro giuridico europeo in tema di emissioni (industriali e quindi sia inquinanti che climalteranti) è dato dal combinato disposto degli artt. 35 e 37 CDFUE, da cui deriva che qualsiasi decisione deve avere contenuto di prevenzione degli impatti sia ambientali che sanitari, tenendo conto della “nocività” delle emissioni non solo alla luce delle indicazioni normative, ma anche di quelle scientifiche, ai fini appunto della “elevata protezione” della salute e per evitare danni nel presente e nel futuro (se ne è proposto un breve commento qui).
d)
L’ordinanza delle Sezioni Unite dalla Corte di cassazione civile, n. 5668/2023, in tema sempre di inquinamento, nello specifico atmosferico dunque da combustione fossile.
Questa pronuncia riconosce che il diritto alla salute non tollera mai compressioni neppure da parte dei pubblici poteri, sicché la giurisdizione a sua tutela spetta al giudice ordinario, chiarendo altresì, attraverso il ricorso all’analogia con le “immissioni intollerabili” regolate dall’art. 844 Cod. civ., che l’attività emissiva si qualifica nociva, anche ove conforme a norme o atti, allorquando derivi da un comportamento materiale dei poteri pubblici, negligente nel considerare tutti i fattori incidenti negativamente sulla salute umana e, dunque, omissivo nella precauzione necessaria a evitare danni (in merito, si v. il commento di Vaira, Il danno alla salute da inquinamento atmosferico e l’omessa adozione di provvedimenti da parte della p.a. per la tutela dell’ambiente).
e)
L’opinione consultiva dell’ITLOS n. 31/2024, in tema di obblighi di protezione degli Stati sul mare rispetto ai cambiamenti climatici.
Anche in questo atto si conferma che l’obbligazione climatica è da imputare ai singoli Stati, al fine di proteggere i propri territori dall’interazione tra cambiamento climatico e inquinamento, sempre allo scopo di prevenire ed evitare danni irreversibili, in un quadro di fonti di tutela ambientale (nel caso specifico, riferite al mare) da leggere in combinato disposto con le fonti internazionali climatiche (si v. il commento di Belendi-Schiano di Pepe, Il parere consultivo del Tribunale internazionale per il diritto del mare in materia di cambiamento climatico).

Le cinque decisioni elencate presentano diversi elementi in comune:
– cambiamento climatico e inquinamento sono inquadrati come due facce della stessa medaglia;
– l’obbligazione climatica serve a entrambe per proteggere, ossia per evitare danni, e non solo per mitigare;
– le emissioni – di qualsiasi natura essere siano – identificano un problema di tutela della salute umana e non solo dell’ambiente, a maggior ragione quando la loro “nocività” è suffragata dalla scienza;
– in Italia, i parametri normativi di tutela (e quindi di interesse) esistono e sono costituzionali (art. 32 Cost.), convenzionali (art. 8 CEDU), unionali (artt. 35 e 37 CDFUE da applicare sempre congiuntamente) e persino internazionali (Convenzioni da leggere in combinato disposto, come spiega ITLOS);
– la Due Diligence statale risiede nella prevenzione intertemporale e intergenerazionale sui danni (a maggior ragione se irreversibili: interessanti, in merito, i commenti di Trivi, Cambiamento climatico e inquinamento, alla luce di sei recenti decisioni giudiziali, e Catalogo aperto delle emissioni pericolose e tutela della persona tra diritto interno ed europeo);
– di conseguenza, l’obbligazione climatica si manifesta come una prestazione protettiva (appunto di Due Diligence) a “pluralità di fondamenti” (diritto climatico internazionale, altre fonti internazionali, diritto UE e CEDU, Costituzione), in conformità, per l’ordinamento civilistico italiano, con quanto ammesso dall’art. 1173 Cod. civ. (sull’ammissibilità di “prestazioni a pluralità di fondamenti” ai sensi dell’art. 1173, cfr. Petronio, Fonti delle obbligazioni).

 A queste cinque decisioni si devono aggiungere tre sentenze della Corte costituzionale, ineludibili per la lettura (e contestualizzazione) delle precedenti nell’ordinamento interno.
Si elencano anche queste.
f)
La n. 7/2024, § 13.1 in diritto.
Essa spiega – a conferma dei precedenti – che il giudice comune è vincolato, ex art. 117 c.1 Cost., alla CEDU così come interpretata dalla Corte di Strasburgo, potendosi emancipare da tale vincolo solo per via di questione di legittimità costituzionale, mentre le decisioni non giurisdizionali internazionali – come potrebbero essere il parere ITLOS e quelle dei Comitati ONU in materia climatica – restano interposte ex art. 117 c.1 Cost. ma non vincolanti per il giudice comune, interrogandolo solo sulla loro interpretazione rispetto alle leggi interne.
g)
La n. 15/2024, ai §§ da 7.3 a 8.3.
Questa importantissima decisione risolve contemporaneamente un conflitto di attribuzione fra ente politico (Regione) e potere giurisdizionale, in ordine all’ammissibilità di condanne giudiziali di facere, e una questione di legittimità costituzionale delle fonti sul facere per contrasto con la CDFUE (abilitando la c.d. “inversione della doppia pregiudizialità”) (per un sintetico commento, si v. Scarcello, Un altro passo nel processo di riaccentramento del sindacato di costituzionalità eurounitario), responsabilizzando il giudice comune nella lettura della struttura plurale dei parametri dell’azione a tutela dei diritti.
h)
La n. 105/2024 spec. al § 5.1.2.
In essa, si parla di un nuovo “mandato costitizionale” di protezione ambientale intergenerazionale, contenuto nei riformati artt. 9 e 41 Cost., di fatto equivalente al «beneficio della presente e delle future generazioni» previsto dall’UNFCCC per la mitigazione climatica, dalla Corte EDU applicato nel cit. caso “Verein KlimaSeniorinnen”. Tale “mandato” vincola esplicitamente tutte le pubbliche autorità, affinché attivino decisioni intertemporali volte a non recare danno alla salute e all’ambiente e a garantire nel tempo il neminem laedere (se ne è offerto un breve commento qui).

 A questo punto, ecco tracciato il nuovo panorama giurisprudenziale complessivo. Inedite coordinate lo contraddistinguono, tutte ruotanti sul facere a tutela dei diritti e sul ruolo del giudice nel sindacare le attività emissive antropogeniche, in nome appunto di quei diritti e sulla base di plurimi parametri: dagli artt. 35 e 37 CDFUE (che intrecciano la Costituzione e vincolano il giudice comune), dall’art. 8 CEDU (anch’esso vincolante nelle interpretazioni della Corte di Strasburgo), dalla Costituzione stessa (contenente, ora, un esplicito “mandato” di protezione intergenerazionale per non recare danni alla salute e all’ambiente), da altre fonti (come spiegato dall’ITLOS).

Da queste coordinate, l’obbligazione di mitigazione climatica emerge nitida e incontestabile: si tratta di dovere di eliminazione di danni presenti e futuri, non certo di indefinita mera riduzione delle emissioni, di fronte a fatti dannosi (ingiusti) non contestati dagli Stati, come quelli ricavabili dalle COP e dall’IPCC (in merito, si v. Cardelli, Se gli Stati riconoscono di sbagliare sul clima), soddisfacendo in pieno le condizioni di identificazione italiana delle fonti – come atti e come fatti – delle obbligazioni civili, di cui all’art. 1173 Cod. civ
Di conseguenza, con queste coordinate e con questi fatti non contestati qualsiasi prospettazione giudiziale dovrà fare i conti, d’ora in poi.