L’autodichia di fronte alla Corte costituzionale: tra conferme (della sua esclusione) in materia di appalti e possibili passi in avanti
1. Con la pronuncia n. 65/2024 la Corte costituzionale torna sui confini dell’autodichia degli organi costituzionali, negando, una volta per tutte, la giustizia domestica sulle controversie di affidamento a terzi di contratti di forniture e servizi.
Che fosse urgente un intervento chiarificatore sul punto lo dimostrano i fatti che hanno condotto alla pronuncia, connotati dallo strenuo «arroccamento a difesa di una interpretazione estensiva della propria autodichia» (Castelli) da parte della Camera dei deputati. Un ‘arroccamento’ mantenuto anche (soprattutto) dopo che C. cost., n. 262/2017 aveva affermato la giurisdizione amministrativa sui contratti pubblici, sottratti dall’ambito dell’autodichia quale caso esemplare di coinvolgimento di terzi.
In quella sede, la Consulta aveva infatti statuito che «non spetta [agli organi costituzionali], in via di principio, ricorrere alla propria potestà normativa, né per disciplinare rapporti giuridici con soggetti terzi, né per riservare agli organi di autodichia la decisione di eventuali controversie che ne coinvolgano le situazioni soggettive (si pensi, ad esempio, alle controversie relative ad appalti e forniture di servizi prestati a favore delle amministrazioni degli organi costituzionali)».
Del tutto coerentemente con questi approdi, in una gara di appalto di servizi di monitoraggio di contratti Information and Communication Technology alla Camera, il raggruppamento di imprese classificatosi primo, escluso per anomalie nell’offerta, si era rivolto al Tar Lazio per l’annullamento dell’atto di esclusione e di quello conclusivo della procedura. Sennonché l’amministrazione costituzionale, ferma su un’interpretazione estensiva della propria autodichia, aveva eccepito l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione, con eccezione rigettata sia dal Tar (che aveva respinto il ricorso nel merito), sia da Cons. St., Sez. V, n. 4150/2021 (che aveva accolto in appello il ricorso delle società escluse). A fronte del ricorso in Cassazione per motivi di giurisdizione proposto dalla Camera avverso quest’ultima decisione, la Suprema Corte, Sez. un. civ., con sent. n. 15236/2022, aveva infine ribadito la giurisdizione amministrativa, ritenendo che il Consiglio di Stato avesse correttamente escluso l’autodichia in materia.
Da qui il ricorso per conflitto di attribuzione da cui è scaturita la pronuncia in commento, promosso dalla Camera in riferimento a Cass., Sez. un. civ., n. 15236/2022 e Cons. St., Sez. V, n. 4150/2021, sull’assunto che «non spetta[sse] al Consiglio di Stato e alla Corte di cassazione, in quanto organi della giurisdizione comune, giudicare della controversia». In sostanza, la Camera sollecitava una rimeditazione della preclusione dell’autodichia sugli appalti, affermata dalla Consulta nella sent. n. 262.
2. La Corte costituzionale, nel respingere il ricorso, confuta ciascuno dei quattro argomenti addotti dalla Camera, muovendo da quello, piuttosto debole, per cui le statuizioni sugli appalti della sent. n. 262 avrebbero rappresentato dei meri obiter dicta. Al contrario – afferma la Corte – le statuizioni in parola erano servite a spiegare il significato della negazione dell’autodichia sui terzi, essendo perciò «intimamente connesse» all’obiettivo della pronuncia di individuare lo spazio applicativo dell’autodichia.
Del pari, è rapidamente superato il secondo argomento della Camera, per cui, nell’escludere l’autodichia in materia di appalti, la sent. n. 262 avrebbe riguardato le sole controversie di esecuzione dei contratti e non la fase pubblicistica (da riservare, negli intendimenti della Camera, ai fori domestici). Questa ricostruzione, osserva il giudice costituzionale, non regge, nella misura in cui «[i]l riferimento testuale della sentenza [n. 262] alla posizione di “terzi” […] si attaglia alla fase di selezione dei contraenti, piuttosto che a quella di eventuali controversie tra la stazione appaltante e l’appaltatore», atteso che «l’appaltatore non è più – a rigore – un qualsiasi “terzo” rispetto all’amministrazione, bensì la sua controparte contrattuale». In questa prospettiva, conclude la Corte, la sent. n. 262, parlando di “terzi”, aveva sottratto alla riserva domestica proprio la fase pubblicistica dell’affidamento, attribuendola, secondo le regole generali, alla giurisdizione amministrativa.
È però sul terzo argomento che si giocano gli equilibri della decisione, poiché la Camera fa leva sulla giustificazione tradizionale dell’autodichia, lamentando il pericolo di significative ingerenze del giudiziario nelle scelte dell’organo costituzionale sulla gestione dei servizi.
Al riguardo, la Consulta sottolinea che le esigenze costituzionali di tutela degli interessi legittimi implicano sempre limitazioni dei poteri pubblici che con essi entrino in rapporto. Si avverte, in queste parole, la costruzione dell’interesse legittimo come situazione soggettiva avente un nome specifico (rispetto al diritto) per il fatto di interagire con il potere, la cui esistenza non può comunque inficiare la tutela giurisdizionale. Invero – osserva la Corte – «né la Camera né il Senato sostengono di dover restare immuni, sul piano sostanziale, da tali possibili limitazioni, assumendo però che esse debbano poter essere operate soltanto da organi di giurisdizione domestica, come tali “interni” allo stesso organo costituzionale». Non sfugge al giudice delle leggi la contraddittorietà dell’assunto, definito «scivoloso: giacché l’imperativo costituzionale di effettiva tutela degli interessi legittimi (e dei diritti soggettivi) contro condotte non conformi alla legge e agli stessi regolamenti interni da parte dell’amministrazione delle Camere esige a sua volta un elevato grado di indipendenza» dei fori domestici, anche sul piano dell’«apparenza di indipendenza e imparzialità rispetto all’organo costituzionale».
Qui emerge il nodo problematico dell’autodichia: la nascita dei fori domestici per determinazione dell’organo costituzionale parte nella controversia e il loro inquadramento strutturale nell’organo. Da un lato, le affermazioni della Corte sembrano impedire ogni tentativo di ricostruzione in chiave giurisdizionale (come giudice speciale) dell’autodichia, giacché il carattere interno del foro desta un sospetto di parzialità inaccettabile se si muove dai principi di terzietà, imparzialità e indipendenza che connotano lo statuto costituzionale di giudice. Dall’altro, c’è forse, tra le righe, un invito a una revisione critica dell’idea – in sé – di giustizia “domestica”.
Ancora, un ripensamento dell’autodichia sembra prospettabile in considerazione del passaggio ove la Corte definisce «fisiologiche, in uno Stato di diritto, le “ingerenze” del potere giudiziario sull’attività di qualsiasi amministrazione». È allora da chiedersi se, valorizzando il carattere fisiologico di tali interferenze, non si possa costruire, de iure condendo, l’autodichia come rimedio amministrativo interno che non impedisca il sindacato del giudiziario, ma si aggiunga a esso (su questo aspetto sia consentito rinviare a Campigli).
Del resto, la Consulta – nel contestare il quarto e ultimo argomento della Camera, ossia l’asserita analogia tra dipendenti e imprese aspiranti all’aggiudicazione di appalti – sottolinea «con particolare enfasi» il carattere «eccezionale» dell’autodichia per le controversie con i dipendenti, rispetto alla “grande regola” dello Stato di diritto. Sicché, conclude la Corte, estendere tale deroga alle «imprese che concorrano per aggiudicarsi un appalto» comporterebbe «un sacrificio sproporzionato al diritto a una tutela giurisdizionale effettiva […] a carico di soggetti del tutto estranei alla struttura organizzativa degli organi costituzionali».
3. Alla luce di quest’ultima affermazione, il criterio parrebbe nuovamente essere (come in C. cost., n. 120/2014) la verifica della strumentalità dell’autodichia rispetto alle esigenze (di autonomia) della struttura organizzativa dell’organo. Proprio in quest’ottica, però, una statuizione finale della pronuncia in commento sembra in grado di scardinare l’intero sistema.
Ci si riferisce al pt. 4.4 Cons. dir., in cui la «corrispondenza tra autonomia e autodichia» è ritenuta un «mero criterio di massima», «potendo gli organi costituzionali esercitare poteri di autonormazione, attraverso appositi regolamenti, anche in ambiti – come l’affidamento di appalti pubblici – rispetto ai quali non spetti loro alcun potere di autodichia». Ciò, in particolare, con riguardo a «esigenze di rilievo organizzativo» che giustifichino regole «più adeguate alle peculiarità delle funzioni e del modus operandi del singolo organo costituzionale. Regole la cui interpretazione e applicazione resterà così affidata alla stessa giurisdizione amministrativa».
Salta la corrispondenza tra autonormazione e autodichia, riconoscendosi a un tempo che l’autonomia dell’organo è assicurata mediante il potere di dettare norme di organizzazione e che l’esistenza di spazi di autonomia regolamentare non implica affatto un limite al diritto ex art. 24 Cost. di ricorrere alla funzione giurisdizionale comune. Delle norme poste in autonomia dall’organo, infine, può conoscere anche il giudice comune.
La Corte costituzionale, in questo, supera il suo precedente del 2017, con uno slancio le cui ricadute andranno misurate in base alle future pronunce sul tema. Se, infatti, rispetto alla sent. n. 262, è (opportunamente) confermata l’esclusione dell’autodichia nei confronti dei terzi, o meglio dei soggetti «estranei alla struttura organizzativa degli organi costituzionali», la «particolare enfasi» con cui è rimarcato il carattere eccezionale dell’autodichia sollecita un’ulteriore domanda, a proposito dei prossimi svolgimenti della giustizia domestica.
Una volta rilevato che per l’autonomia della struttura organizzativa degli organi costituzionali basta la capacità dell’organo di autonormarsi, senza necessità di sistemi di autodichia, la qualifica dei dipendenti come soggetti “non estranei” a quella stessa struttura organizzativa potrà ancora essere un argomento sufficiente per precluderne ogni tutela davanti al giudice comune?