La strada impervia del giudizio incidentale. Nota all’ordinanza di rimessione nel “processo Cappato”
Alla fine la parola alla Corte, quella Costituzionale, chiamata a decidere sulla legittimità dell’art. 580 c.p. nella parte in cui qualifica, sotto la medesima cornice edittale, le condotte di aiuto al suicidio indipendentemente dalla loro effettiva contribuzione nella determinazione, o nel rafforzamento, dell’altrui volontà. La vicenda trae origine dall’iniziativa di Marco Cappato, auto-denunciatosi dopo averne accolto la richiesta e accompagnato Fabio Antoniani, un giovane che a seguito di un grave incidente era rimasto tetraplegico, costretto ad alimentarsi e a respirare artificialmente ma non per questo immune a costanti ed insopportabili dolori, presso la clinica svizzera Dignitas, perché potesse porre fine alla sua vita. Già i pubblici ministeri milanesi, al termine delle indagini preliminari, dopo aver chiesto l’archiviazione per Cappato in virtù di un’interpretazione restrittiva della fattispecie di “agevolazione” al suicidio, a sua volta qualificata come “concorso tipizzato” in un fatto che non costituisce reato, in subordine, avevano ritenuto sussistenti le condizioni per sollevare la questione di legittimità al giudice delle leggi. Va infatti ricordato che l’atto finale – come richiesto dalla normativa elvetica – era stato compiuto dallo stesso Antoniani, che aveva attivato lo stantuffo della siringa contenente il farmaco preposto allo scopo premendo con i denti un apposito dispositivo.
Al contrario, il Giudice delle indagini preliminari, facendo proprio l’approccio ermeneutico estensivo della Corte di Cassazione (Sez. I, n. 3147/1988), che vuole riconducibile all’art. 580 c.p. ogni condotta che materialmente si ponga come funzionale ad aiutare (anche) chi si sia autodeterminato nella decisione di togliersi la vita, prescindendo da una preventiva, ancorché inequivocabile, manifestazione di volontà, aveva ordinato l’imputazione coatta. La Corte di Assise, a sua volta, considerando che una simile lettura non fosse più collocabile all’interno dei parametri costituzionali e convenzionali, che fanno del concetto di autodeterminazione la chiave di volta nella definizione delle questioni attinenti la vita del singolo, quantunque concernenti la fase finale della stessa, ha così rimesso la questione di legittimità costituzione alla Corte. Secondo i giudici, nella cornice valoriale della Costituzione, che in virtù del principio personalistico iscrive l’autonomia individuale al centro delle scelte di vita e di fine-vita, non troverebbe più cittadinanza una normativa di epoca statutaria – rectius, fascista – la cui ratio risponde agli antitetici valori di un paternalismo statuale figlio di una visione illiberale in cui il bene vita era funzionale ad interessi eteronomi della collettività. Lo stesso piano sovranazionale, caratterizzato da una progressiva giurisprudenza della Corte europea dei dritti dell’uomo che nel corso del tempo, a partire dalla sentenza Pretty v. Regno Unito, ha allargato le maglie dei limiti all’indisponibilità della vita umana in presenza di condizioni di insostenibile sofferenza del malato, sosterebbe un approccio tendenzialmente più permissivo.
Tuttavia, ciò che merita di essere qui affrontato, non riguarda tanto la necessità di un intervento legislativo che, alla presenza di determinate (disperate) condizioni di salute del malato, temperi la rigida imposizione della norma penale consentendo la libera autodeterminazione di chi sia nell’impossibilità di dare forma concreta alla propria volontà, quanto la riflessione circa l’opportunità che un di un simile compito sia investita la Corte costituzionale, chiamata a farsi portatrice di una emergente e sempre più palpabile “coscienza collettiva” che fatica a celarsi dietro un’impassibile indifferenza a fronte di determinate vicende.
Anche dinanzi all’anacronismo dell’art. 580 c.p. rimane complessa la formulazione della questione di costituzionalità da sottoporre alla Corte e la corretta individuazione dei parametri costituzionali da invocare nel giudizio di legittimità poiché nel caso di specie non si tratta di un mero rifiuto alle cure, di per sé tutelato dal secondo comma dell’art. 32 Cost. La questione attuale si pone su un piano diverso, in cui l’effettiva garanzia dell’autodeterminazione, pur concepita alla stregua di un diritto fondamentale, passa necessariamente per un eteroattuazione positiva da parte di un soggetto terzo. Ancorché una simile limitazione rischi di generare una “discriminazione alla rovescia” (R. Dworkin, I diritti presi sul serio, Il Mulino, Bologna, 2010, pp. 323 e ss.), lasciando privi di tutela proprio coloro i quali ne necessitano con maggior grado di insistenza, diversamente dal Parlamento, la Corte, nel definire il proprio giudizio, è necessariamente vincolata dalla corrispondenza agli invocati parametri costituzionali. Nondimeno permane l’obiettiva difficoltà di rintracciare all’interno della Carta costituzionale, sempre che ciò sia effettivamente possibile, la fonte di legittimazione inequivocabile di un tale raffronto che giustifichi la legittimità dell’aiuto al suicidio e la conseguente caducazione dell’art. 580 c.p.
Gli stessi richiami dei giudici milanesi alle sentenze della Corte EDU rischiano di non essere sufficienti allo scopo. La rassegna della giurisprudenza sovranazionale è caratterizzata da una serie di pronunce (Haas v. Svizzera del 2011, Koch v. Germania del 2012 e Gross v. Svizzera del 2013) che, per lo più, si limitano ad un accertamento potenziale del diritto a morire, lasciando impregiudicate le concrete istanze di tutela, per la mancanza di uniformità all’interno dei Paesi membri del Consiglio d’Europa, a causa dell’insussistenza di una impostazione convenzionalmente obbligatoria sul trattamento del fine vita.
Anche immergendoci nell’ambito delle tecniche (e dei limiti) del giudizio della Corte costituzionale, la formulazione dell’ordinanza della Corte di Assise desta dubbi circa l’effettiva capacità di raggiungere lo scopo prefissato. Una cosa è far discendere dalle disposizioni costituzionali la legittimità di un intervento legislativo che escluda la punibilità di chi agevoli il suicidio in presenza di circostanze fattuali che impediscano, a chi ritiene le proprie condizioni di vita non più dignitose, di porre fine alla propria vita. Altro, invece, è derivare dalle fonti superprimarie un imperativo di ordine costituzionale che imponga la dichiarazione di illegittimità dell’art. 580 c.p., ove sanziona tale condotta, seppur mossa da evidenti ragioni umanitarie. La via astrattamente più corretta, seppur non priva di insidie, sarebbe consistita nella proposizione di una “chirurgica” richiesta additiva alla Corte che avrebbe potuto dichiarare l’illegittimità dell’art. 580 c.p. nella parte in cui non prevede la non punibilità di chi agevola il suicidio alla presenza di una precisa situazione di fatto data dal sommarsi di elementi quali l’assoluta sofferenza del malato, la sua impossibilità di procedere ex se nonostante percepisca la sua esistenza come non più dignitosa, lo stato di una certificazione medica che attesti l’irreversibilità della sua patologia, etc. Anche in questo caso, purtuttavia, la questione di legittimità avrebbe rischiato di impattare contro la giurisprudenza della Corte sulle cd. “rime obbligate” che presuppone l’impossibilità di superare per via d’interpretazione la norma affetta da incostituzionalità in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata, per l’elevato tasso di manipolatività della soluzione evocata, così per l’ampia discrezionalità concessa al legislatore in un dato ambito (C. Cost., ord. n. 254/2016).
Diversamente da questa opzione, prospettata dai pubblici ministeri come domanda subordinata alla richiesta di archiviazione, la Corte di Assise ha imboccato una via sensibilmente differente, più tranciante, richiedendo l’accertamento dell’incostituzionalità dell’art. 580 c.p. a) nella parte in cui incrimina (alternativamente) le condotte di aiuto ed istigazione al suicidio, indipendentemente dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio, per contrasto con gli artt. 3, 13, comma, 1 e 117 Cost. in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione; così b) nella parte in cui sanziona con la stessa pena le azioni di chi istiga al suicidio e chi, senza intervenire sugli aspetti del condizionamento volitivo, ne agevola l’atto pratico, per contrasto con gli artt. 3, 13, 25, 27, comma 2 e 27, comma, 3 Cost. Riguardo al primo punto, nonostante i molti richiami presenti nelle motivazioni dell’ordinanza, è significativo il mancato sollevamento della questione in relazione all’art. 32, comma 2, Cost. È come se i giudici avessero optato per la formulazione di un petitum genericamente improntato all’esaltazione dell’autodeterminazione indipendentemente dalla sua connessione con la precipua condizione medica di chi abbia individualmente deciso di suicidarsi. Non vi è riferimento all’impossibilità pratica del gesto, né alle motivazioni di natura umanitaria che dovrebbero spingere un soggetto terzo ad agevolare la realizzazione dell’intento suicidiario, ma solo all’ingiustificata parificazione di condotte diverse sul piano della determinazione altrui. La richiesta tout court di ablazione della norma nella parte in cui sanziona l’agevolazione al suicidio, in assenza di limiti e ragioni concrete idonee a giustificarne l’accoglimento sul lato delle condizioni di salute divenute insostenibili per il malato può difficilmente dirsi figlia di un imperativo di ordine costituzionale. Ben può farsi rientrare tra le funzioni dello Stato quella di tutelare chi, posto per diverse motivazioni in una condizione di difficolta anche solo economica, ritenga la propria esistenza non più degna e chieda l’assistenza di un terzo per porvi fine. Difficilmente una siffatta visione potrebbe giustificare l’annullamento parziale dell’art. 580 c.p. che, anzi, in questo caso, agirebbe proprio a salvaguardia del soggetto debole.
Anche la richiesta di rimodulare le pene in funzione del differente apporto del terzo nel percorso deliberativo dell’aspirante suicida contrasta con la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, il cui sindacato, tanto sotto il profilo della ragionevolezza che della proporzionalità – anche rispetto alla funzione rieducativa cui mira la pena – è fortemente circoscritto dall’ampia discrezionalità che in questo ambito deve essere concessa al Parlamento. Il sindacato del giudice delle leggi “può investire le pene scelte dal legislatore solo se si appalesi una evidente violazione del canone della ragionevolezza, in quanto ci si trovi di fronte a fattispecie di reato sostanzialmente identiche, ma sottoposte a diverso trattamento sanzionatorio” (C. Cost., sent. n. 23/2016). Non è fatto divieto al legislatore, invece, includere in una medesima fattispecie condotte differenti, lasciando poi al giudice modulare la pena entro la cornice edittale. La rideterminazione in via pretoria della pena sarebbe concessa solo ove fosse possibile rinvenire nell’ordinamento un parametro che, nuovamente, consentisse l’individuazione di una soluzione costituzionalmente obbligata, ovvero, l’indicazione di un tertium comparationis che facoltizzi l’attività emendativa – non sostitutiva – della Corte “in riferimento a grandezze già rinvenibili nell’ordinamento” (C. Cost., sent. n. 148/2016). L’ordinanza, tuttavia, anche sotto tale profilo è carente non offrendo la prova di una simile ricostruzione da parte del giudice remittente, sempre che sia possibile individuarla nell’attuale assetto normativo.
Non v’è dubbio che la strada del giudizio incidentale si presenti particolarmente tortuosa nella fattispecie, in cui risulta complessa la definizione di una soluzione vincolata sul piano costituzionale, sottratta alla discrezionalità dell’organo legislativo, che consenta la dichiarazione d’illegittimità dell’art. 580 c.p. Sebbene risulti sempre più impellente una sua modifica che, dalla rinnovata centralità del principio personalista e dal canone dell’autodeterminazione, tragga spunto per evitare che situazioni come quella di Fabiano Antoniani possano ripetersi in futuro, il trasferimento della questione alla Corte non sembra in grado di condurre a soluzioni soddisfacenti. Nondimeno, neppure la via giudiziaria, attraverso una lettura restrittiva dei comportamenti suscettibili d’integrare il reato di agevolazione al suicidio, pare concludente poiché rimetterebbe alla discrezionalità del singolo Tribunale la scelta in merito al trattamento sanzionatorio di chi ha prestato la propria opera per fini solidaristici e, così facendo, scoraggerebbe il compimento di tali pratiche pregiudicando, altresì, la stessa certezza del diritto. Non rimane, dunque, che l’opzione legislativa, non la più semplice in termini di consenso attorno ad una proposta che renda lecita, a determinate condizioni, l’assistenza al suicidio, ma sicuramente la più congrua e corrispondente ad una corretta ripartizione delle funzioni tra gli organi di cui si compone l’ordinamento.