La sent. 227 della Corte costituzionale sul mandato d’arresto europeo
La sentenza n. 227 del 2010 della Corte costituzionale dovremo leggerla e rileggerla tutti più di una volta. E c’è da scommettere che, nel nostro Blog, vari post seguiranno a questo. Si ritorna sul problema del fondamento costituzionale della prevalenza del diritto dell’Unione, tra art. 11 e art. 117, co. 1, Cost.; si afferma la necessità dell’intervento della Corte costituzionale quando l’applicazione delle norme europee contrastanti con quelle interne da parte del giudice a quo sia di fatto impraticabile (perché la norma europea non è autoapplicativa o perché si versa in materia penale).
Qui, però, interessa il merito: la sentenza, infatti, appare condivisibilissima e apertissima. Il requisito formale della cittadinanza nazionale fa un significativo passo indietro rispetto al requisito sostanziale della residenza, del “legame effettivo” con un individuo in un Paese membro. Ne deriva l’incostituzionalità della norma che consentiva il rifiuto di estradizione – in esecuzione di un mandato d’arresto europeo – al solo caso di cittadini italiani, e l’estensione del potere di rifiuto di estradizione anche a favore di cittadini comunitari residenti in Italia.
Inutile dire come questa operazione si inscriva perfettamente nel canone della cittadinanza europea, intesa quale valvola di diffusione del divieto di discrimanzione tra cittadini comunitari, e nella giurisprudenza della Corte del Lussemburgo (ampiamente citata nella sentenza) sulla prevalenza della finalità rieducativa della pena nelle determinazioni inerenti il rifiuto di estradizione in esecuzione di un mandato d’arresto europeo. Il dialogo con la giurisprudenza europea e con la ratio della decisione-quadro, che sorregge l’argomentazione della Corte costituzionale, viene – dunque – spontaneo.
Ma non si può nascondere una sensazione di stupore nel leggere la frase conclusiva del “diritto”, che riportiamo: “La pronuncia di illegittimità costituzionale con riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., determina l’assorbimento delle questioni poste con riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.”.
Che la Corte costituzionale inizi a dialogare assiduamente con le Corti europee, in uno spirito aperto, è essenziale, anche per contrastare l’attivismo esasperato di alcuni giudici comuni recentemente contestato in questo blog da Schillaci, Bronzini ed altri. Eppure non ci si può nascondere che, argomentando a partire dagli artt. 3 e 27, co. 3, Cost., si sarebbe potuti pervenire direttamente allo stesso esito.
Ritengo che la coincidenza degli esiti sostanziali tra giurisprudenza europea e parametri costituzionali avrebbe dovuto essere esaltata. Il ruolo delle Corti costituzionali nel dialogo con le Corti europee non deve essere quello di adeguarsi ad un giurisprudenza più o meno gradita, ma quello di evidenziarne l’appartenenza alle tradizioni costituzionali degli Stati membri, al fine di rinforzarla ed arricchirla (ed, in caso, di problematizzarla).
Altrimenti il dialogo tra le Corti rischia di risolversi in uno sterile monologo…
A me qualche perplessità la desta il fatto che la Corte non sia riuscita a mettere a sistema l’interpretazione conforme, pur potendolo fare ( Pupino ), di disposizioni magari più generiche ( art.18 TUE ), ma egualmente efficaci.
Perché si ritorna sempre al sindacato interno, quando in teoria l’obiettivo sarebbe l’integrazione tra istanze supreme? Stavolta non c’erano i presupposti perché si parla “in tema penale”? Non lo so.