La residenza protratta come condizione escludente dal diritto all’abitare: commento alla sentenza n. 147 del 2024
Non è facile ricostruire quale possa essere il fondamento costituzionale del diritto all’abitare. La Carta dei Diritti dell’Unione Europea riconosce tale diritto come pretesa «all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse autosufficienti» (art. 34). Alcune Costituzioni degli Stati membri disciplinano questo diritto, come ad esempio quella della Spagna, che parla espressamente di un «diritto di godere di una abitazione degna e adeguata» (art. 47). La Costituzione dell’Italia, al contrario, non fa esplicito riferimento al diritto all’abitare. Le sue radici costituzionali però possono essere individuate, oltre che nell’art. 47 comma 2 Cost., in altre disposizioni della Carta, come gli artt. 2, 3 e 42 Cost. (Medico 2023, Ponzo 2021, Pallante 2018). In assenza di un’espressa previsione costituzionale, in ogni caso, non è semplice definire quale sia il contenuto esatto di questo diritto.
Un contributo particolarmente rilevante nella definizione della consistenza del diritto all’abitare è stato dato dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale. Si è trattato di una casistica particolarmente ricca e variegata, che si è sedimentata nel corso dei decenni. L’abitazione, infatti, è stata definita in un primo momento come «bene primario» (sentenze n. 3 del 1976, n. 33 del 1980 e n. 252 del 1983 della Corte Costituzionale) e, successivamente, come diritto sociale fondamentale (sentenze n. 217 e n. 404 del 1988 della Corte Costituzionale), «fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione» (sentenza n. 217 del 1988). Negli anni più recenti, la Corte Costituzionale è ritornata più volte sul tema del diritto all’abitare, vagliando la legislazione delle Regioni in materia di edilizia residenziale pubblica, così come la normativa sul blocco degli sfratti prodotta nel periodo dell’emergenza pandemica.
Dalla definizione teorica del diritto all’abitare discende la necessità di strutturare un sistema istituzionale complessivo, in grado di concretizzare tale diritto, erogando servizi abitativi alla collettività. In altre parole, le istituzioni della Repubblica, a tutti i livelli, hanno il compito di rendere effettivo il diritto all’abitare e l’accesso alla casa da parte dei settori maggiormente vulnerabili della popolazione: come specificato dalla Corte Costituzionale, infatti, la soddisfazione dell’interesse ad avere un’abitazione può avvenire esclusivamente attraverso «un concorrente impegno del complesso dei poteri pubblici (Stato, regioni o province autonome, enti locali) facenti parte della Repubblica» (sentenza n. 217 del 1988 della Corte Costituzionale). Il sistema di edilizia residenziale pubblica è stato concepito e organizzato su di un assetto multilivello, proprio per far sì che possa essere soddisfatto il diritto all’abitare di quei soggetti che versino in condizione di particolare fragilità economica. Se, da un lato, spetta allo Stato definire quali possano essere i livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritto all’abitare, le Regioni hanno il compito di programmare sul territorio le strutture di edilizia residenziale pubblica, stabilire i criteri di assegnazione degli alloggi e gestire il patrimonio immobiliare (Marchetti 2018, Bilancia 2010). Spetta, poi, ai Comuni la preparazione e la pubblicazione dei bandi per l’erogazione dei servizi.
Di diritto all’abitare, la Corte Costituzionale è tornata a occuparsi anche in tempi recenti. Nel caso specifico della sentenza n. 147 del 2024, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera b della legge n. 3 del 2010 della Regione Piemonte, che fissava i requisiti di accesso all’edilizia residenziale pubblica. Si trattava, in primis, di un requisito di residenza protratta: non era ritenuto sufficiente, pertanto, il semplice possesso della residenza sul territorio regionale; la titolarità della stessa doveva avere una durata prolungata nel tempo per un periodo minimo corrispondente a cinque anni. A questo primo requisito, ne era stato affiancato un secondo di carattere alternativo, riguardante l’occupazione protratta: non era considerata sufficiente la mera sottoscrizione di un contratto lavorativo; era ritenuto necessario che il rapporto lavorativo si fosse prolungato per un determinato lasso di tempo sempre pari ad almeno cinque anni. La disposizione, infatti, stabiliva che, per poter ottenere l’assegnazione di un alloggio, occorreva «avere la residenza anagrafica o l’attività lavorativa esclusiva o principale da almeno cinque anni nel territorio regionale, con almeno tre anni, anche non continuativi[,] all’interno dell’ambito di competenza degli enti gestori delle politiche socio-assistenziali o essere iscritti all’AIRE».
La questione di legittimità era stata sollevata dal Tribunale di Torino, prima sezione civile, nel corso di un giudizio che coinvolgeva, da un lato, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI) e, dall’altro, le istituzioni territoriali, ossia la Regione Piemonte e il Comune di Torino, rispettivamente responsabili della disciplina regionale dei bandi di assegnazione e della loro predisposizione concreta a livello cittadino. Nell’ordinanza di rimessione, era stato messo in luce come l’art. 3, comma 1, lettera b della legge n. 3 del 2010 della Regione Piemonte avrebbe potuto avere dei profili di contrasto con l’art. 3 Cost., adottato come parametro del giudizio, dal momento che la normativa avrebbe determinato delle disparità di trattamento di difficile giustificazione fra i vari soggetti bisognosi di usufruire dei servizi abitativi pubblici.
Per poter decidere la controversia, la Corte Costituzionale ha potuto fare riferimento alla propria giurisprudenza pregressa in materia di residenza protratta come condizione d’accesso all’edilizia residenziale pubblica. In quei casi in cui disposizioni legislative di questo tipo sono state sottoposte al giudizio della Corte, sono state più volte oggetto di dichiarazione d’illegittimità costituzionale: quest’orientamento della giurisprudenza costituzionale ha trovato espressione nelle decisioni n. 67 del 2024, n. 145 e n. 77 del 2023, n. 44 del 2020, n. 107 del 2018, n. 168 del 2014, n. 222 del 2013 della Corte Costituzionale (Corsi 2020).
La previsione legislativa oggetto dell’esame della Corte è stata considerata costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 3 Cost., sotto molteplici punti di vista. Innanzitutto, il requisito della residenza protratta è stato ritenuto viziato per intrinseca irragionevolezza, perché da considerarsi fuori fuoco rispetto alla ratio della disciplina normativa in materia di edilizia residenziale pubblica. L’interpretazione dei giudici costituzionali si è basata sul ragionamento secondo cui la funzione dei servizi abitativi pubblici è quella di soddisfare le esigenze di quei soggetti che versino in condizioni di particolare fragilità economica e sociale. La quantificazione della durata della residenza in un determinato luogo non rappresenta, però, un parametro utile a misurare quale sia la situazione effettiva di bisogno delle persone. Per di più, come evidenziato dalla Corte, «proprio chi versa in stato di bisogno si trasferisce di frequente da un luogo all’altro in cerca di opportunità di lavoro»: la disposizione dichiarata incostituzionale, pertanto, ha penalizzato alcuni di quei soggetti che, più di altri, avrebbero necessitato dell’accesso ai servizi abitativi, come presupposto di inserimento sociale e lavorativo in un determinato contesto territoriale.
A livello complessivo, il requisito della residenza protratta ha creato delle disparità di trattamento fra situazioni di bisogno simili (se non proprio uguali) da un punto di vista concreto e sostanziale, ma differenti esclusivamente per durata della residenza: si trattava di soggetti che, sulla base delle proprie condizioni economiche, avrebbero dovuto beneficiare allo stesso modo dei servizi abitativi pubblici, ma che di fatto sono stati in parte esclusi dai bandi del Comune di Torino per l’assegnazione degli alloggi.
Di conseguenza, stabilire a livello normativo un requisito di questo tipo contrastava con quel compito, facente capo alla Repubblica nella sua interezza, di intervenire in funzione della progressiva riduzione delle disparità economico-sociali ex art. 3 comma 2 Cost.: da un lato, il principio di uguaglianza sostanziale avrebbe comportato la necessità di rimuovere gli ostacoli «che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana» (ex art. 3 comma 2 Cost.); dall’altro, però, proprio la fissazione del requisito della residenza protratta ha finito per costituire un ulteriore impedimento dal punto di vista del superamento delle situazioni di disuguaglianza.
Un ragionamento similare è stato fatto dalla Corte dal punto di vista del requisito alternativo fissato dall’art. 3, comma 1, lettera b della legge n. 3 del 2010 della Regione Piemonte, in materia di occupazione protratta, ugualmente ritenuto illegittimo dal punto di vista del dettato costituzionale. La durata prolungata del rapporto lavorativo in un determinato contesto territoriale, infatti, non è un elemento da considerarsi rilevante nella misurazione della condizione di bisogno effettivo di una persona e del rispettivo nucleo familiare. Al contrario, dal punto di vista della disposizione censurata, si è trattato di un requisito eccessivamente rigido e preclusivo, essendo possibile affermare che proprio quei soggetti che si muovevano da un territorio all’altro, alla ricerca di un lavoro, erano quelli che nella maggior parte dei casi versavano in condizioni di bisogno economico maggiore; nonostante questa loro condizione, erano esclusi dall’accesso all’edilizia residenziale pubblica.
Sempre a detta della Corte Costituzionale, la legge n. 3 del 2010 della Regione Piemonte non aveva attribuito l’importanza dovuta ad altri indicatori rilevanti nell’assegnazione degli alloggi, come ad esempio quello del periodo temporale effettivo di permanenza del soggetto richiedente all’interno delle graduatorie dei bandi di edilizia residenziale pubblica: tale indicatore, ad esempio, avrebbe potuto contribuire in maniera più consistente a misurare la condizione di sofferenza socioeconomica di particolari soggetti, valutando anche il suo eventuale aggravamento, dovuto al protrarsi del mancato accesso al servizio abitativo.
Per concludere, è possibile mettere in luce come la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 147 del 2024, abbia confermato il proprio orientamento giurisprudenziale relativo alla disciplina legislativa dei requisiti di accesso all’edilizia residenziale pubblica. Di fatto, l’interpretazione che si sta consolidando ha portato al superamento di alcuni criteri particolarmente rigidi nell’assegnazione degli alloggi, come quello della residenza protratta, che in concreto penalizzavano importanti settori della popolazione. L’orientamento ermeneutico della Corte ha assunto una connotazione estensiva e ha mirato ad ampliare la platea dei potenziali beneficiari dei servizi abitativi pubblici, considerando quelle che sono state le tendenze evolutive sociali e demografiche più recenti. Allo stesso tempo, sempre la Corte ha valorizzato quei requisiti in grado di fornire una prospettiva reale sulle condizioni socioeconomiche dei richiedenti, in modo tale da intervenire soprattutto nel senso della riduzione progressiva delle disuguaglianze sostanziali.