La Primavera araba ed i modelli di diritto di famiglia nella tradizione europea ed islamica
Le profonde trasformazioni socio-politiche che hanno attraversato di recente una vasta zona del Mediterraneo forniscono un’occasione preziosa per ritornare a riflettere su alcune questioni al vaglio dei comparatisti da lungo tempo.
Le brevi considerazioni che seguiranno hanno come obiettivo di porre a raffronto i modelli europeo ed islamico di regolamentazione dei rapporti fra i coniugi in una duplice direzione: sia con riguardo all’area in cui gli avvenimenti della Primavera araba hanno avuto luogo, che con riferimento alle interazioni, verificatesi in passato e che si potrebbero produrre in un futuro prossimo, fra Europa e paesi dell’area del Maghreb.
La presenza in Europa di una folta comunità musulmana pone il problema dell’individuazione di punti di equilibrio fra due tradizioni –l’islamica e l’europea- le cui differenze sono in linea di principio particolarmente evidenti sul terreno del diritto di famiglia.
Mentre, infatti, la codificazione del diritto privato nei paesi nord-africani ha sovente subito l’influenza dei modelli europei, il diritto di famiglia, saldamente ancorato al diritto islamico, ha resistito ai tentativi di modernizzazione e di riforma (Aluffi Beck-Peccoz).
Il principio della gender equality sulla cui base viene regolato il rapporto fra marito e moglie, e che comporta un’eguaglianza dei diritti e dei doveri dei coniugi, è uno dei pilastri del modello di diritto di famiglia europeo caratterizzato altresì: 1) dal superamento della visione del matrimonio come accordo fra due gruppi familiari, e dal parallelo riconoscimento dell’autonomia di scelta dei nubendi; 2) dall’obsolescenza dell’idea di famiglia come cellula economica della società; 3) dal tramonto del principio dell’autorità maritale; 4) dal disconoscimento dell’idea del matrimonio come vincolo indissolubile (Patti); 5) dal riconoscimento dello schema della comunione legale come modello generale che regola i rapporti fra i coniugi (in assenza di una loro scelta di tipo diverso).
Nella tradizione islamica (se ne parlerà per comodità di esposizione come di un fenomeno unitario, sottacendo le pur innegabili diversità, nell’interpretazione delle fonti, intercorrenti fra le diverse scuole dottrinali), la relazione fra uomo e donna è asimmetrica e sperequata a tutto vantaggio del primo. E ciò è vero non solo in ambito familiare, ma più in generale per l’intero fascio delle relazioni sociali.
Nell’Islam la donna riveste nella famiglia una posizione subordinata al marito, a cui deve obbedienza. Nonostante le fonti del diritto islamico riconoscano la libertà e la dignità della donna, è pur vero che i suoi diritti possono essere limitati in vista del perseguimento di interessi ‘superiori’, quali ad esempio la conservazione del nucleo familiare.
Una seppur sommaria disamina della condizione femminile fa emergere non poche differenze dal punto di vista dei diritti e dei doveri dei coniugi scaturenti dal vincolo matrimoniale.
Da una parte, la Shariah riconosce alla donna il diritto di mantenere il cognome da nubile, nonché la titolarità dei beni dei quali era proprietaria prima del matrimonio; dall’altra, essa ha diritti di successione limitati (agli uomini compete una quota doppia di quella spettante alle donne), non può vantare alcun diritto sui beni della famiglia, vigendo il regime di separazione dei beni, ma non ha alcun obbligo di contribuire ai bisogni della stessa.
Inoltre, la donna può lavorare solo quando il marito presti al riguardo il proprio consenso.
Queste brevi notazioni fanno ben comprendere l’attualità del problema dell’individuazione delle condizioni alle quali l’’identità islamica’ possa coesistere con quella europea, e impongono di chiedersi se questa coesistenza determini un conflitto difficilmente superabile, oppure sia possibile un’assimilazione delle comunità islamiche nel rispetto della loro identità.
Altre differenze significative fra modello europeo ed islamico sono rappresentate dal fatto che quest’ultimo ammette il matrimonio poliginico (laddove nel modello europeo, e più in generale occidentale, la monogamia ha valore di principio cardine), ed inoltre consente al marito il quasi esclusivo monopolio della scelta di determinare lo scioglimento del vincolo matrimoniale.
Il matrimonio poliginico pone in concreto problemi all’ordinamento europeo del paese ospitante qualora venga richiesta tutela per i figli dello stesso uomo avuti da mogli diverse o venga presentata istanza di ricongiungimento familiare.
Accade inoltre di frequente che le corti nazionali europee siano richieste di riconoscere l’esistenza di obbligazioni il cui adempimento è ricollegato dal diritto islamico alla dissoluzione del vincolo matrimoniale. Fra queste, ha rilievo primario la Mahr, consistente in una somma di denaro data o promessa dall’uomo alla donna in occasione della consumazione del matrimonio. Essa può essere corrisposta (in tutto o in parte) prima del matrimonio, o dopo il matrimonio in seguito alla sua consumazione.
Il significato che nel passato era riconnesso alla dazione della somma di denaro era quello di “prezzo” corrisposto per l’acquisto della sposa, degradata pertanto a merce di proprietà del marito.
V’è però chi ritiene oggi che l’istituto sarebbe uno strumento di ‘gender justice’, non rilevante tanto sul piano della ‘gender equality’, quanto piuttosto su quello diverso di ’‘equal worth’ dei coniugi (K.Jansen Fredriksen).
Il riconoscimento di questo istituto da parte delle corti europee produrrebbe allora effetti positivi perché, da un lato assicurerebbe una qualche forma di tutela alle donne, e dall’altro, aumenterebbe le possibilità che le decisioni delle corti europee siano riconosciute dagli Stati di origine dei coniugi in cui è applicato il diritto musulmano, favorendo l’avvicinamento di sistemi giuridici diversi.
Il riconoscimento della Mahr dipende però in concreto dalla possibilità per le corti europee di ricondurre l’istituto a categorie giuridiche ad esse familiari.
In alcune pronunce, la Mahr viene considerata quale somma che il marito deve alla moglie a titolo di alimenti. Questa qualificazione rende problematico il riconoscimento di tale diritto nel caso in cui la donna sia economicamente indipendente, ed anche in quello in cui il marito versi in cattive acque.
Secondo un altro orientamento, la Mahr, non essendo contraria ai valori fondamentali su cui si regge il diritto europeo, godrebbe dello status di droit acquis. La domanda volta a richiederne la dazione dovrebbe essere considerata pertanto indipendente da altre domande giudiziali miranti al riconoscimento di diritti al mantenimento o sui beni familiari, e dunque da accogliere in ogni caso (S. Rutten).
L’analisi dei principi tradizionali del diritto di famiglia islamico deve essere effettuata tenendo presenti due ordini di fattori che possono incidere sulla loro applicazione. Da una parte, occorre osservare che (anche in passato) i nubendi potevano regolare in modo diverso da quello prescritto dalla tradizione islamica molteplici profili del rapporto coniugale non governati da principi inderogabili; dall’altra, ci si deve interrogare sul senso delle innovazioni introdotte in questo settore in alcuni ordinamenti che alla tradizione islamica si richiamano, chiedendosi se esse si pongano o meno in linea di continuità rispetto a quest’ultima. Al riguardo verranno presi in esame due esempi.
La riforma adottata in Marocco nel 2004 introduce certamente alcune novità nel segno di una maggiore protezione della donna, fra le quali si segnalano: a) l’istituzione di sezioni all’interno di ogni tribunale di primo grado chiamate “sezioni della giustizia della famiglia”; b) la compressione della sfera di discrezionalità del qadi (giudice) al quale competerebbero, secondo taluni, solo funzioni ‘notarili’ (M.Loukili); c) l’attribuzione alla moglie di un diritto allo scioglimento unilaterale del matrimonio equivalente al tradizionale diritto al ripudio maritale.
Le evidenti novità non recidono tuttavia i legami con la tradizione, che emergono con evidenza nelle previsioni che confermano l’istituto tradizionale della tutela e che legittimano il giudice competente in materia di famiglia ad auto
rizzare il matrimonio della minorenne a prescindere dal consenso di quest’ultima.
Nonostante il nuovo codice non parli del marito come unico capo della famiglia, e riconosca la condivisione della responsabilità dei coniugi nella gestione degli affari familiari, persiste a favore del solo marito il riconoscimento del potere di rappresentanza legale dei figli, nonché a suo carico l’obbligo di mantenere la famiglia. Inoltre, viene ancora riconosciuto al marito il diritto al ripudio, sebbene il suo esercizio sia sottoposto a controllo, ed a questi viene riconosciuta una quota maggiore di quella spettante alla moglie in caso di successione.
Sulla base di questi elementi sembra di poter condividere la posizione di chi osserva che questa riforma affonda le proprie radici nella tradizione del diritto islamico, ed è coerente alla previgente Muddawwana e ai dettami della scuola malikita.
In Algeria, la riforma del diritto di famiglia approvata nel 2005 ha riconosciuto espressamente il diritto musulmano come fonte principale.
L’uguaglianza dei coniugi non ha statuto di principio generale. Essa è circoscritta ad alcuni profili (quali il diritto all’abitazione e alla custodia sui figli). Non sono stati abrogati la tutela matrimoniale, la poligamia (anche se sono state introdotte al riguardo alcune restrizioni), il ripudio.
Novità si segnalano in materia di capacità d’agire, fissata (come la capacità matrimoniale) al compimento del diciannovesimo anno, di libertà di consenso a contrarre matrimonio, nel senso che il vincolo può essere costituito solo in presenza della volontà liberamente espressa dai nubendi, e sul terreno delle cause di scioglimento del vincolo coniugale.
In merito a queste ultime, oltre a quella tradizionale del ripudio maritale, è previsto lo scioglimento consensuale, nonché quello prodotto per volontà della moglie che può esercitare tale diritto in tre casi: (a) previo pagamento di un corrispettivo, hul (ipotesi, questa, contemplata dalla tradizione) ; b) per disaccordo persistente fra i due coniugi; c) per violazione delle clausole del contratto di matrimonio.
La ratio delle riforme sopra ricordate deve verosimilmente essere individuata nell’esigenza di rafforzare la coerenza complessiva del sistema. Attraverso le nuove normative il legislatore ha presumibilmente inteso colmare il gap intercorrente fra la logica propria del diritto di famiglia, profondamente radicato nella tradizione, e la logica complessiva dell’ordinamento, ispirato a modelli extra-sciaraitici.
Le riforme non hanno però reciso i legami con la tradizione. Piuttosto, hanno attenuato la posizione di forza del marito.
Sembra di potere constatare che a tutt’oggi l’impianto dei diritti di famiglia nord africani è distante dal modello europeo, nel quale hanno rilievo centrale l’individuo ed i suoi diritti fondamentali.
Verosimilmente, il mutamento di regime politico prodotto dalla primavera araba non comporterà di per sé una maggiore facilità di penetrazione di modelli occidentali.
Le riforme del diritto di famiglia introdotte prima della ‘ventata primaverile’ non si possono spiegare come una sorta di ‘anticipazione’ degli avvenimenti che si sarebbero verificati dopo poco tempo.
Sembra persuasiva la spiegazione secondo cui le riforme sono state introdotte da minoranze illuminate, mentre la maggior parte della popolazione era ancorata a quanto prescritto dalla tradizione in ordine al ruolo di uomini e donne ed alla funzione da essi assolta in seno alla famiglia. Il che spiegherebbe la resistenza di larghi strati di queste società alle riforme che negano valori sui quali è fondata la loro identità o che comunque introducono regole difficilmente compatibili con essi (M.H.Benkheira).
In Europa, un esempio significativo di divario fra società e ordinamento può rinvenirsi in Turchia, laddove convivono tradizione (religiosa) ed innovazione (legislativa). Questa coesistenza è frutto di un imposizione ‘dall’alto’ (Orucu).
Il sistema turco risulta composto da uno strato di diritto ‘importato’ negli anni’20 del secolo scorso dai sistemi europei più prestigiosi, sovrappostosi allo strato del diritto tradizionale. E’ emblematica al riguardo l’emersione del principio di laicità, che ha acquisito una rilevanza sempre maggiore nell’ordinamento. Ciò ha determinato uno scollamento fra diritto e società (composta al 98% da musulmani), e la frequente disapplicazione del diritto ufficiale nei rapporti familiari da parte della comunità. Lo iato è stato pazientemente ricomposto dalle corti mediante il riconoscimento delle istanze di tutela di certe relazioni rilevanti solo per la tradizione islamica, ma giuridicamente irrilevanti per l’ordinamento ufficiale.
La situazione turca dimostra come nella faticosa individuazione di un punto d’incontro fra regole di condotta che sono espressione di contesti valoriali profondamente diversi l’apporto delle corti sia determinante. Ciò è vero anche se si guarda all’applicazione delle riforme da parte delle corti degli Stati nord africani, il cui backbone è rappresentato dalla tradizione islamica.
La posizione aperta o tradizionalista dei giudici può fare molto. Basti pensare a certe pronunce di corti tunisine rese a margine di questioni successorie o di esercizio del diritto di custodia sui figli nell’ambito di matrimoni misti, che facendo leva su norme costituzionali che riconoscono l’Islam come religione di Stato (nonostante la sa’aria non sia più riconosciuta come fonte del diritto), finiscono per sostenere posizioni di retroguardia.
La verità è che l’Islam è un fenomeno di elevata complessità, che racchiude al suo interno realtà profondamente eterogenee.
Gli avvenimenti verificatisi negli ultimi anni in Egitto, Marocco, Libia parimenti integrano un fenomeno complesso, la cui puntuale disamina richiederebbe molto spazio, e lasciano intuire ulteriori evoluzioni delle quali però non è possibile al momento preconizzare il percorso.
Quel che si può escludere è che la primavera araba sia il frutto di un ‘vento dell’occidente’, di una cultura cioé estranea al contesto in cui gli avvenimenti si sono realizzati. Si deve ritenere piuttosto che la primavera araba affondi le proprie radici nell’Islam e ne rappresenti un prodotto.
L’Islam non è solo una religione, ma una cultura. E’ pragmatico, un abito che può essere costruito sulle misure di chi lo indossa; e che dunque ben si confà sia alle istanze dei ‘tradizionalisti’ che a quelli dei ‘progressisti’.
Proprio per questo non si può con certezza dire cosa sarà delle riforme che hanno prodotto delle novità nel campo del diritto di famiglia, se ci saranno cambiamenti nel segno di un rafforzamento dei diritti individuali, o bruschi revirements. Bisognerebbe avere la palla di vetro. Quel che sembra plausibile è che sia l’una che l’altra direzione saranno prese nel segno dell’Islam.
Molte affermazioni contenute in questo articolo sono palesemente non vere sig. Andò.
Sono un cittadino Algerino e per lo meno per quanto riguarda il diritto della famiglia Algerino, sono abbastanza informato e con delle buone conoscenze. Non riesco a capire se quello che qui le contesto sia dovuto a un deficit nel reperimento di documentazione certa e verificata come ad esempio libri scritti da professori universitari mussulmani noti o studiosi mussulmani di fama riconosciuta oppure se sia dovuta alla lettura sicuramente parziale delle legislazioni dei paesi mussulmani o del diritto mussulmano in generale.
Il diritto Algerino proviene certamente dal diritto mussulmano e per la precisione dal diritto mussulmano della scuola Malekita, ma in realtà oggi, si discosta da esso su moltissime questioni per via delle varie modifiche introdotte in questi pochi decine di anni di esistenza della repubblica Algerina. Mi permetto sig. Andò di segnalarle l’articolo del prof. Nahas M. Mahieddin, che è uno dei più importanti professori di diritto dell’Università di Orano. L’articolo è scritto in francese, e riassume un po le modifiche introdotte nel 2005 al codice della famiglia Algerino. Ecco il link che potrà trovare in rete:
http://anneemaghreb.revues.org/94
Come si vede sig. Andò, le cose non sono come lei li descrive in questo articolo.
In realtà da sempre il diritto mussulmano ha favorito la donna all’interno dell’istituto famigliare. Proverò velocemente a riassumere un po di fatti:
– Per sposarsi un marito mussulmano deve versare alla sua futura sposa una dote. La dote viene fissata dalla futura sposa. La dote in generale in Algeria è composta di Oggetti in Oro, vestiti, scarpe, profumi e denaro liquido. Anche se la donna fosse d’accordo, non è possibile scendere sotto un valore minimo chiamato dote di equivalenza. Su un articolo di giornale, è stato scritto che nel 2009 è stato calcolato che il valore medio della dote superava i 4000€ che corrispondono a circa 40 volte la paga base del lavoratore Algerino.
– Il marito deve mantenere la sua sposa dal primo giorno di matrimonio. Non importa assolutamente quanto questa sposa possa essere ricca. Il mantenimento riguarda la casa, cibo, vestiario, cure mediche e tutto quello che è necessario ad una vita dignitosa. La donna anche se lavora o ricca non è tenuta per legge a mantenere ne suo marito, ne i suoi figli. Il compito di mantenere l’intera famiglia pesa esclusivamente sulle spalle del marito. Nessuno dei due coniugi può interferire nella gestione dei beni dell’altro. La donna gestisce autonomamente i suoi beni. Il diritto alla proprietà, è stato introdotto per la donna mussulmana 14 secoli fa, era ed è una grande conquista. Nella società Algerina di oggi molti maschi in età di matrimonio, rinunciano al matrimonio per mancanza di mezzi finanziari. La donna sposata dispone liberamente dei suoi beni ereditati o da lavoro, e può accumulare una vera e propria fortuna lungo tutta la sua vita matrimoniale. E’ per questi motivi che la donna mussulmana eredità la metà di suo fratello. Si può rivolgere a questo sistema tutte le critiche che si vuole, ma non certo che non abbia una sua logica. Invece nel 100% dei casi in cui un occidentale tocca questo ultimo argomento dell’eredita delle donne mussulmane, si accontenta di citare il fatto senza mai fornire la benché minima spiegazione. Si estrapola un dato e lo si da in pasto al lettore senza nessunissima spiegazione. E’ scorretto e persino disonesto.
– Il padre per legge deve mantenere il figlio maschio fino alla maggiore età (21 anni), mentre la femmina la deve mantenere fino al suo matrimonio. Solo per illustrarle cosa possa significare questa piccola differenza, le faccio sapere che le statistiche ufficiali Algerine (ONS) del 2009 indicavano che in Algeria vi fossero 18 milioni di donne di cui 11 milioni di celibi e fra queste ultime 5 milioni avevano superato i 35 anni di età. Questi dati sono facilmente verificabili.
Per quanto riguarda il consenso al matrimonio la invito gentilmente a leggere l’articolo che le ho segnalato in precedenza. Stessa cosa dicasi del tutore matrimoniale, ect…
– In caso di divorzio, l’affidamento dei figli va per legge alla madre con il mantenimento al padre che deve anche mettere a disposizione dell’affidataria un abitazione in cui possa esercitare la custodia dei figli.
– Il divorzio è diventato giudiziale in Algeria nel 1959. La donna che per sua volontà unilaterale chiede ed ottiene il divorzio invocando uno qualunque dei 10 commi previsti dall’articolo 53 del codice della famiglia Algerino, ha diritto a delle compensazioni economiche come stabilito dall’articolo 53bis. La donna che per sua volontà unilaterale chiede ed ottiene il divorzio invocando l’articolo 54 (Khul), sara tenuta solamente a restituire al marito una somma non superiore alla dote di equivalenza o dote minima. La donna ricorre all’articolo 54 per divorziare solamente se non riesce ad utilizzare il precedente articolo 53, ossia quando non può provare nessun dolo da parte del marito o suo comportamento sbagliato.
Se è invece il marito che per sua volontà unilaterale, a richiedere e ad ottenere il divorzio, se non riesce a provare nessun comportamento sbagliato o dolo da parte della moglie, viene condannato a versare alla ex moglie un risarcimento e il suo divorzio viene dichiarato arbitrario.
Quello identico (art. 54)da parte della donna invece no.
Mentre se l’uomo riesce a dimostrare il dolo o un comportamento contrario alla legge da parte di sua moglie non ha comunque diritto a nessun risarcimento per il divorzio da lui ottenuto.
– La tutela sui figli minori dopo il divorzio e assegnata alla madre affidataria. Il padre è tagliato fuori da qualunque decisioni importante riguardanti i propri figli.
– La donna divorziata Algerina ha diritto a una compensazione economica (idda’) per il fatto che non può risposarsi nei primi 40 giorni dopo il divorzio se non è incinta oppure 10 mesi se è incinta. Anche in Italia la divorziata non può risposarsi nei 300 giorni successivi, ma non è previsto nessun risarcimento invece.
-Rimane fuori da questo bilancio francamente pesantemente discriminatorio nei confronti del maschio, marito, padre, solamente l’argomento della poligamia. La invito a leggere prima l’esposizione del professore Nahas Mahieddin sull’argomento. Io invece le dico che anche qui il diritto islamico classico e il diritto Algerino di oggi, continuano a tollerare la poligamia, perché in realtà intendono preservare anche qui i diritti della donna anche all’interno del matrimonio poligamo. Mi spiego: se la poligamia non fosse ancora tollerata, il marito desideroso di sposare un altra donna, sara semplicemente obbligato a divorziare dalla prima moglie. Quest’ultima a parte un risarcimento una tantum per il divorzio, si ritroverà senza il suo pacchetto di diritti nascenti dal matrimonio e che le ho elencato prima, in particolare, l’abitazione e il mantenimento in generale.
– Personalmente spero che anche la poligamia venga un giorno eliminata in Algeria come è stato fatto in Tunisia e Turchia, anche sono convinto che a rimetterci davvero sarà una categoria ben precisa di donne, ossia le donne di una certa età, ammalate, o sterili o che magari si sono sacrificate per la propria famiglia e per allevare i propri figli rinunciando a carriera e lavoro.