La previsione di automatico diniego di rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro al vaglio della Corte costituzionale

Con la sentenza n. 88 dello scorso 8 maggio, la Corte Costituzionale è intervenuta sulla questione della legittimità costituzionale dell’art. 4, terzo comma, d.lgs. n. 286 del 1998 (c.d. Testo unico immigrazione) – in relazione agli artt. 3 e 117 Cost, quest’ultimo a sua volta in relazione all’art. 8 CEDU, nella parte in cui prevede che il reato di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui all’art. 73, comma quinto comma, del d.P.R. n. 309 del 1990, nonché il reato di commercio di prodotti con marchi falsi di cui all’art. 474 c.p. siano automaticamente ostativi al rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
Più precisamente, oggetto della censura è l’irragionevolezza della disciplina, che – per gli stranieri privi di legami familiari – fa discendere dalle condanne previste dall’art. 4, terzo comma, d.lgs. n. 286 del 1998 la conseguenza automatica del diniego di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
Nel pronunciarsi, la Consulta rileva aspetti di manifesta irragionevolezza della disciplina generale sul rinnovo dei titoli di soggiorno per difetto di proporzionalità, superando un precedente e consolidato orientamento, inaugurato con la sua precedente sentenza n. 148/2008 e sposando l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale e convenzionale in tema di proporzionalità, sviluppatasi in riferimento all’art. 8 CEDU.

I fatti
La questione trae origine da due procedimenti, in relazione ai quali la terza sezione del Consiglio di Stato era stata chiamata a decidere della legittimità di due provvedimenti di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro che erano stati adottati, dall’amministrazione competente, in conseguenza di una sentenza di condanna a carico dei rispettivi richiedenti.
Nell’ambito del primo giudizio, il TAR Lombardia aveva rigettato il ricorso di uno straniero, la cui istanza di rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro era stata respinta dal Questore di Brescia per la esistenza di una sentenza di condanna per il reato di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope, di cui al quinto comma dell’art. 73, comma quinto comma, del d.P.R. n. 309 del 1990.
Mentre, il secondo giudizio aveva ad oggetto un appello promosso contro una sentenza del TAR Liguria che aveva respinto il ricorso di uno straniero al quale l’amministrazione aveva negato il rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro in considerazione delle «numerose denunce», a carico del richiedente, per ricettazione e per commercio di prodotti con marchi falsi, nonché della condanna irrevocabile per vendita di merci con marchio contraffatto.
Al fine di comprendere le motivazioni che hanno portato alla pronuncia di illegittimità costituzionale, occorre osservare come l’art. 4, terzo comma, d.lgs. n. 286 del 1998 preveda che non sia ammesso in Italia – e quindi siano impediti il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno – lo straniero che risulti condannato per diversi reati, fra cui quelli inerenti agli stupefacenti, nonché per il reato di cui all’art. 474 c.p..
Tale disposizione prevede un meccanismo automatico, che vincola la Pubblica Amministrazione a rigettare, negare o revocare il permesso di soggiorno, qualora lo straniero sia stato condannato per i suddetti reati.
Una valutazione del caso concreto è invece ammessa dall’art. 5, quinto comma, del medesimo decreto legislativo. Tale norma, infatti mitiga l’automatismo ostativo, imponendo all’amministrazione, allorché il procedimento riguardi uno straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare, ovvero il familiare ricongiunto, o uno straniero che abbia legami familiari nel territorio dello Stato, di tenere conto “della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato e dell’esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese d’origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio nazionale”.
Nell’impostazione del giudice a quo, il meccanismo dell’art. 4, terzo comma, d.lgs. n. 286 del 1998 sarebbe non solo eccessivamente pregiudizievole della sfera del privato –  il quale non può addurre alcun elemento relativo al caso concreto ovvero al proprio percorso di rieducazione, che possa essere preso in considerazione dall’amministrazione, vincolata nella decisione di rigetto – ma anche potenzialmente discriminatorio, perché non basato su esigenze di necessità, bensì su un’impropria equiparazione, quanto all’effetto ostativo, di fattispecie di minore entità (pur penalmente rilevanti) con reati gravi.
Tali considerazioni portano il Consiglio di Stato a sollevare la suddetta questione di legittimità costituzionale, stante l’impossibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata e l’impossibilità di percorrere la strada della sua disapplicazione per contrasto con l’ordinamento dell’Unione europea.

I rilievi della Consulta
Come noto, non è la prima volta in cui i giudici costituzionali sono chiamati a valutare la ragionevolezza e proporzionalità di previsioni legislative che prevedano automatismi nell’ambito del diritto dell’immigrazione. La Consulta si è pronunciata in più occasioni, censurandole, su disposizioni legislative in materia di immigrazione, che introducevano automatismi tali da incidere in modo sproporzionato e irragionevole sui diritti fondamentali degli stranieri, valutando che esser non prevedessero un ragionevole bilanciamento tra tutti gli interessi e i diritti di rilievo costituzionale coinvolti (Corte cost. n. 245 del 2011 e n. 249 e 299 del 2010).
In tutte le decisioni la Consulta ha sottolineato come, in questo ambito, siano interessate, da un lato, esigenze legislative di regolamento dell’ingresso e del soggiorno dello straniero sul territorio nazionale nel rispetto dell’ordine pubblico e della sicurezza – potenzialmente esposta a pericolo in caso di commissione di reati da parte dello straniero –  e, dall’altro lato, il fondamentale diritto dello straniero, basato sull’art. 8 CEDU, a esercitare il proprio diritto alla vita privata e familiare e a non essere sradicato dal luogo in cui abbia intessuto rapporti sociali, familiari, affettivi e lavorativi.
L’esigenza di bilanciamento di questa pluralità di interessi contrapposti impone dunque un vincolo all’ampia discrezionalità riconosciuta al legislatore in questo settore dell’ordinamento.
D’altronde, si tratta di una questione ampiamente affrontata anche dalla Corte di Strasburgo, la quale ha  individuato i criteri che consentono di valutare se la misura dell’allontanamento di uno straniero possa considerarsi necessaria, in una società democratica, e proporzionata allo scopo legittimo perseguito, riferendosi espressamente alla natura e serietà del reato commesso dallo straniero; alla durata del suo soggiorno sul territorio nazionale; al tempo trascorso dalla commissione del reato; alla nazionalità delle persone coinvolte; nonché alla situazione familiare dello straniero che dovrebbe essere allontanato (Corte Edu, Üner contro Olanda e Corte Edu, Otite contro Regno Unito).
Va poi sottolineato che uno dei profili di maggiore interesse della pronuncia in commento sta nel rilievo – da parte della Corte – di vari aspetti di manifesta irragionevolezza della disciplina generale sul rinnovo dei titoli di soggiorno.
A prova di ciò, i giudici costituzionali prendono in considerazione due norme.
Innanzitutto, l’art. 9, quarto comma, del d.lgs. n. 286 che, nel disciplinare la procedura di rilascio del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, prevede espressamente un giudizio in concreto di pericolosità del richiedente, anche in presenza di condanne per reati per cui è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza.
In secondo luogo, i giudici citano la disciplina dell’emersione dei lavoratori irregolari, come disciplinata a seguito della propria sentenza 172 del 2012.  Ebbene, in quell’ambito, la condanna per il reato di cui all’art. 73, comma quinto comma, del d.P.R. n. 309 del 1990 non è automaticamente preclusiva dell’emersione del lavoratore irregolare. Dunque, sottolinea la Corte, poiché tale automatica preclusione non opera nella disciplina ‘speciale’ dell’emersione del lavoratore irregolare, essa non dovrebbe a fortiori operare nell’ambito della disciplina ‘generale’ di cui all’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, con riguardo al rinnovo di tale permesso.
Inoltre, aderendo all’impostazione dei giudici di Palazzo Spada, la Consulta sottolinea ulteriori profili di criticità a del sistema oggetto di censura.
In particolare, ci si concentra sugli effetti derivanti dall’impossibilità dell’Amministrazione di valutare le circostanze del caso concreto. Ben potrebbe verificarsi – sottolinea la Corte – “che uno straniero commetta il reato di cui all’art. 73, comma quinto comma, del d.P.R. n. 309 del 1990, il quale, per la sua lieve entità, per le circostanze del fatto, per il tempo ormai trascorso dalla sua commissione, per il percorso rieducativo eventualmente seguito alla condanna, non sia tale da comportare un giudizio di pericolosità attuale riferito alla persona del reo”.
Ebbene, escludere, in dette ipotesi, la possibilità che l’Amministrazione valuti la situazione concreta, in relazione al percorso di inserimento nella società “risulta contrario al principio di proporzionalità, letto anche alla luce dell’art. 8 CEDU.  Tanto più ove si consideri che si fa qui riferimento, come chiarito, alla sola ipotesi di rinnovo, e non di rilascio, del permesso di soggiorno: ciò che lascia intravvedere particolarmente in considerazione della circostanza che si tratta di permesso per lavoro un possibile processo di integrazione dello straniero, processo che sarebbe irreversibilmente compromesso ove non si consentisse la prosecuzione del percorso lavorativo intrapreso”.
Dunque, come auspicato dal giudice remittente, che aveva sottolineato l’impropria equiparazione, quanto all’effetto ostativo, di fattispecie di lieve entità con reati gravi, quali l’omicidio e la violenza sessuale, la Corte ritiene, di dover superare le conclusioni cui era pervenuta con la ormai risalente sentenza n. 148 del 2008, mostrando, come anticipato, di aderire all’evoluzione della giurisprudenza costituzionale e convenzionale in tema di proporzionalità sviluppatasi in riferimento all’art. 8 CEDU.
Le medesime considerazioni valgono anche in riferimento alla previsione, come ostativa, della fattispecie di cui all’art. 474, secondo comma, c.p. concernente il commercio di prodotti con segni falsi, a maggior ragione ove si consideri che la forbice edittale non è, rispetto a quella già presa in esame, nemmeno tale da comportare la misura dell’arresto facoltativo in flagranza, di cui all’art. 381, primo comma, c.p.p..
Tali considerazioni portano dunque la corte a dichiarare l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 4, terzo comma, e 5, quinto comma, del d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui ricomprende, tra le ipotesi di condanna automaticamente ostative al rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro, anche quelle, pur non definitive, per il reato di cui all’art. 73, comma quinto comma, del d.P.R. n. 309 del 1990 e quelle definitive per il reato di cui all’art. 474, secondo comma, c.p., senza prevedere che l’autorità competente verifichi in concreto la pericolosità sociale del richiedente.

Conclusioni
Come anticipato la pronuncia è assai rilevante per l’espressa adesione a un rinnovato atteggiarsi del giudizio di ragionevolezza e proporzionalità, che conferma l’attenzione della Corte a una lettura unitaria del sistema nazionale e sovranazionale di tutela dei diritti fondamentali.
In questo contesto, il principio della ragionevolezza si esprime nel canone della proporzionalità come parametro di giudizio delle scelte del legislatore, in presenza di interessi da bilanciare.
I giudici costituzionali sottolineano quindi come il sacrificio dell’interesse dello straniero al radicamento nel territorio nazionale debba essere giustificato da una concreta necessità di tutela di un interesse costituzionalmente tutelato e, in ogni caso, debba essere proporzionato, ossia congruo rispetto allo scopo di interesse pubblico perseguito.
Proprio tali considerazioni portano ipotizzare una portata più generale della pronuncia che, pur essendo la pronuncia limitata al caso del rinnovo di permesso di soggiorno per motivi di lavoro nella parte della formulazione dell’art. 4, terzo comma, terzo e quarto periodo, d.lgs. n. 286 del 1998 che coinvolge nell’automatismo i reati di cui all’art. 73, comma quinto comma, del d.P.R. n. 309 del 1990 e di cui all’art. 474 c.p., esprime un principio di diritto su cui si potrebbe fondare un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’intera fattispecie prevista dall’art. 4, terzo comma, del testo unico immigrazione.