La prescrizione e il processo penale che oltrepassa i limiti della finitezza umana
I recenti interventi di riforma del diritto penale, sostanziale e processuale, corrono verso direzioni ben precise: ridurre le defaillance del sistema prodotte dalla lunghezza dei processi penali e assicurare la punizione e la sua severità per il colpevole, nel minor tempo possibile.
Tra i tanti e probabili, il tema cruciale degli ultimi disegni legislativi è stato quello del blocco della prescrizione. Già con la riforma del 2017 (l. n. 103 del 2017) il riformatore aveva apportato significative modifiche alla disciplina delle cause in grado di sospendere il decorso del tempo necessario a prescrivere, mutando il regime predisposto dalla legge n. 251 del 2005 (nota come “ex Cirielli”). Erano state, invero, introdotte nell’art. 159 c.p., due nuove ipotesi di sospensione del corso della prescrizione, dal termine previsto dall’art. 544 c.p.p. per il deposito della motivazione della sentenza di condanna in primo grado, sino alla pronuncia della sentenza del grado successivo; e dal termine previsto, sempre per il deposito della sentenza di condanna ma di secondo grado, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitiva. Il termine di sospensione, ad ogni modo, non avrebbe potuto superare un periodo di un anno e sei mesi.
Con tale riforma, alle cause sospensive veniva assegnata una funzione nuova e per certi versi antitetica al loro tradizionale fondamento, riconducibile alla necessità di fermare il tempo della prescrizione solo durante le situazioni di forzata inattività della giurisdizione.
Con la legge c.d. “spazzacorrotti” (l. n. 3 del 2019), indotto da variegate ragioni, tra le quali il bisogno di restituire severità del sistema penale, minato proprio quanto ad effettività dal decorso del tempo necessario a prescrivere il reato, il legislatore ha introdotto soluzioni più drastiche, sempre modificando l’art. 159, comma 2, c.p. a norma del quale «Il corso della prescrizione rimane sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna». L’emenda, tema cruciale della politica italiana, è stata accompagnata da severissime critiche, aventi ad oggetto proprio la compatibilità di una “abolizione di fatto” della prescrizione con i diritti fondamentali del cittadino e, soprattutto, con il fine -collegato, secondo il legislatore- di ricondurre il sistema al principio della ragionevole durata del processo, anche attraverso ulteriori modificazioni al sistema processuale.
Probabilmente le stesse critiche hanno indotto al disegno successivo, per ora solo Delegato al Governo, con il DDL del 14 febbraio 2020, il quale ha impartito direttive affinché si incida nuovamente su quell’art. 159 c.p., che dovrebbe assumere una formulazione secondo la quale il termine necessario a prescrivere rimarrebbe sospeso dalla pronunzia della sentenza di condanna di primo grado- e non anche dalla pronunzia della sentenza di assoluzione, quindi- fino alla data di esecutività della stessa. Secondo la disciplina in fase di introduzione, la prescrizione riprenderebbe il suo corso, con computo dei periodi di sospensione, innanzi ad una sentenza di proscioglimento dell’imputato in appello o di annullamento di quella di condanna nella parte relativa all’accertamento della responsabilità, così come nei casi di declaratoria di nullità ai sensi dell’articolo 604, commi 1, 4 e 5-bis c.p.p.. Si guarda bene il delegante, quasi ad esserne perseguitato, dal rischio della prescrizione che potrebbe maturare nelle more della presentazione dell’impugnazione contro la sentenza di proscioglimento. Per tali ipotesi vorrebbe dei periodi di sospensione del termine prescrizionale, abbastanza lunghi, quando vi sia il rischio che uno dei reati per cui si procede si prescriva entro l’anno successivo al termine previsto per il deposito della motivazione. Solo una doppia conforme di proscioglimento- in sostanza- potrebbe consentire di computare, ai fini del tempo necessario a prescrivere, i suddetti periodi di sospensione, con una utilità assai discutibile dinnanzi ad una decisione di assoluzione nel merito.
L’intento di evitare la prescrizione non sembra attenuato neppure dalle ulteriori direttive delegate che, nel soppesare le garanzie che assistono il rito penale nel paragone con l’accelerazione dei tempi, prediligono unicamente quest’ultimo aspetto, mettendo in secondo piano i presidi dell’oralità e dell’immediatezza, prediligendo i riti acceleratori -patteggiamento, giudizio abbreviato e rito monitorio per le fattispecie meno gravi-, tentando di limitare al minimo il diritto di far valere le patologie processuali (nullità ed inutilizzabilità delle prove) attraverso l’introduzione di nuovi congegni che dovrebbero sopperire a certe dinamiche le quali, proprio in virtù delle patologie suddette, rallentano di molto i tempi del processo.
Il quadro velocemente tracciato ha il suo punto di “forza” e di “debolezza” nella presa di coscienza delle fortissime carenze sistemiche che, ad un tempo, producono una durata irragionevole dei processi e l’insoddisfazione dei suoi protagonisti: imputato ma anche vittime.
Occorre chiedersi se sospendere ad libitum il termine di prescrizione possa sopperire all’inefficienza o se, come sostenuto da molti, possa invece provocare l’effetto esattamente opposto; ed in quale misura un siffatto sistema di politica criminale, che va ad incidere sulle procedure per fattispecie di modesta gravità, possa conciliarsi con i valori posti a tutela dei diritti fondamentali dell’individuo in generale e dell’individuo-imputato in particolare.
Quanto al primo problema, se si riflette sulla ratio, pure autoritaria, che da sempre giustifica l’istituto della prescrizione nelle tradizioni giuridiche di molti ordinamenti continentali, si può prender atto, semplicisticamente, che lo scorrere del tempo fa venir meno l’interesse dello Stato a perseguire il reato: la punizione -e la sua finalità rieducativa, pure ove accertata la responsabilità- perderebbe il suo senso ove applicata dopo molti anni dalla commissione del fatto. Sotteso all’istituto, v’è anche un ruolo di stabilità sociale: che l’azione, pur se esercitata, non debba essere eterna deriva dalla necessità di non lasciare perennemente il cittadino esposto alla persecuzione giudiziaria e, altresì, dall’esigenza di limitare stati di incertezza delle situazioni giuridicamente rilevanti.
Da altra e collegata prospettiva, nel concreto, le declaratorie di prescrizione del reato fanno prendere atto di un’obiettiva debolezza del sistema ma non necessariamente significano impunità di colpevoli. Se, per un verso, è l’apparato giustizia che non vuole, non può o non riesce a definire il processo entro un tempo dato, per l’altro l’inefficienza non può addossarsi al titolare della prerogativa di avere una risposta giurisdizionale entro un termine certo. Cosicché, quel recupero di un’efficienza travisata, intesa alla stregua di garanzia di punizione per “soddisfare” le vittime, di esecuzione della pena in carcere il prima possibile, di persecuzione delle ragioni dell’Autorità senza spazio alcuno per quelle della libertà, tradisce anche solo la ricerca di un punto di equilibrio, valorizzato invece da molteplici principi costituzionali ed emblematico del “grado di civiltà” e democraticità dello Stato di diritto (Beccaria).
È ovvio constatare che il valore sostanziale della prescrizione non possa essere annullato nemmeno dalle dinamiche del processo, perché in fondo è traducibile non proprio nella sua durata ragionevole, ma quanto meno nella certezza della sua durata. Il tempo necessario a prescrivere garantisce al cittadino non solo il diritto ad essere sottoposto ad un processo entro un certo termine, ma l’ulteriore diritto di conoscere il limite di durata della sottoposizione della sua esistenza alla pretesa punitiva dello Stato.
Il ragionevole tempo del processo, valore consacrato anche nella Convenzione dei diritti umani, d’altronde, non è fine a sé stesso; sottintende valori più ampi, che coinvolgono altre prerogative: quella di difesa, il contraddittorio nella formazione della prova, la chance di essere considerati presunti non colpevoli fino alla sentenza definitiva, anche avvalendosi del controllo di un giudice superiore sulla decisione di prima istanza. Si tratta di garanzie che divengono effimere, perdono il loro senso per colui che è destinato a rimanere imputato per tempi indefiniti.
Processo perenne equivale ad assenza di limiti al potere punitivo, a rinuncia alle garanzie che contribuiscono a giustificare, in uno con il vincolo imposto dall’art. 27, comma 3, Cost., proprio l’istituto della prescrizione. Nella distanza illimitata tra fatto reato ed accertamento, l’esercizio del diritto di difesa, ad esempio, che si concreta nel diritto alla prova esercitabile nel contraddittorio tra le parti (artt. 24 e 111 Cost.) si affievolisce sensibilmente, diminuendo la possibilità di una proficua ricostruzione del fatto. In via correlata, perde il suo significato anche la presunzione di non colpevolezza ed il principio personalistico sotteso all’art. 27 Cost.: lasciare l’individuo in balia di un illimitato ius puniendi equivale ad incidere sulla sua possibilità di preventivare il proprio futuro. Fermo restando che un’eventuale condanna, eseguita in momenti indefinitamente lontani da quello del commesso reato, si mostra incompatibile con le esigenze che evocano la tendenza rieducativa della pena, frustrata proprio da quel decorso del tempo in grado di dissolvere il legame persona- fatto e di generare mutamenti nel contesto di vita del reo.
Un sistema siffatto concreta un’idea di fondo che assume, per un verso, il diritto penale alla stregua di dispositivo di lotta e, per l’altro, la prescrizione come congegno da abbattere nell’esercizio indiscriminato della pretesa punitiva promosso dalla “Repubblica penale”, ove sembra sgretolarsi il “presidio giustizia”, che esige presupposti stringenti di razionalità ed eticità, giusti precetti e giusti equilibri nella risoluzione di quel conflitto, sempre vivo, tra autorità e libertà.