La “porta stretta”: qualche riflessione sull’apertura della Corte costituzionale alla “società civile”
La modifica delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale – annunciata con un comunicato stampa dell’11 gennaio e pubblicata sulla Gazzetta ufficiale del 22 gennaio 2020 – è stata accolta con favore da una parte della dottrina, che vi ha riconosciuto un segno di trasparenza, apertura e dialogo con la società civile (Lecis, Groppi, Finocchiaro).
Altra dottrina – pur non disconoscendo il carattere innovativo delle modifiche introdotte – le ha inquadrate criticamente nell’ambito della trasformazione dei complessi equilibri che caratterizzano il rapporto della Corte con lo spazio pubblico (Ridola). Simile inquadramento consente, per un verso, di sdrammatizzare la polarizzazione tra antagonismo e apertura e, per altro verso, di riflettere su intensità e modi di articolazione di quel rapporto, alla luce del dato storico-comparativo, dell’immersione dei processi interpretativi in contesti culturali dai contorni mutevoli e sfumati e, soprattutto, del loro ancoraggio (anche) nella responsabilità dell’interprete stesso, la quale inevitabilmente viene esercitata in condizioni assai lontane dai canoni di un asettico isolamento.
L’esigenza di regolare l’apertura pare collegarsi, altresì, alla progressiva concretizzazione del sindacato di legittimità costituzionale, vale a dire alla tendenza a considerare con intensità crescente le concrete circostanze del caso dedotto nel giudizio principale, nel prisma del quale il giudizio sulle norme oggetto della questione di legittimità costituzionale viene incanalato: per limitarsi ad alcuni sommari esempi, si considerino gli specifici caratteri del giudizio di ragionevolezza, ma anche il peculiare rilievo dei fatti nel sindacato sui cd. automatismi legislativi. Di recente, poi, decisioni come l’ordinanza n. 207/2018 e la (conseguente) sentenza n. 242/2019 hanno mostrato in modo suggestivo le virtualità dispiegate in giudizio dal peso specifico delle storie e delle esperienze di vita da cui origina la domanda di giustizia costituzionale.
Allo stesso tempo – e impregiudicata ogni più approfondita riflessione sui caratteri delle operazioni interpretative affidate alla Corte – il giudizio di legittimità costituzionale si è andato via via allontanando dal rassicurante rigore di una articolazione sillogistica del rapporto tra oggetto e parametro, il quale appare piuttosto arricchito dal rilievo delle relazioni di oggetto e parametro con i contesti in cui sono immersi e chiamati a operare.
Un processo, quello così sommariamente descritto, che – per un verso – qualifica la collocazione della Corte nello “spazio pubblico” e, per altro verso, pare in larga misura condizionato non solo dalla crescente complessità delle domande di giustizia rivolte alla Corte stessa, ma anche dal rapporto, teso e non di rado conflittuale, tra essa e il legislatore.
In questo quadro, pare possibile scorgere un legame profondo tra “apertura” (o addirittura “partecipazione”, seppur con le specificità che le sono proprie) della Corte alle dinamiche dello spazio pubblico e l’esigenza – che alla Corte è affidata – di mantenere in tensione critica il rapporto tra diritto e vita attraverso le maglie (più o meno strette) del giudizio di legittimità costituzionale.
La modifica delle norme integrative interviene in tre direzioni. Anzitutto, viene codificata la giurisprudenza (alquanto severa) sull’intervento nei giudizi sollevati in via incidentale (cfr. il nuovo art. 4, comma 7, a mente del quale “nei giudizi in via incidentale possono intervenire i titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio”): alla luce di tale innovazione, si limita l’accesso degli intervenienti agli atti processuali (art. 4-bis, comma 1), salva la possibilità di chiedere e ottenere un sindacato anticipato sull’ammissibilità dell’intervento (cfr. art. 4-bis, commi 2 e ss.). Come notato nei primi commenti, simile meccanismo riprende, nella ratio, le istruzioni presidenziali del 21 novembre 2018, provvedendo tuttavia a limarne i profili più spigolosi.
Quasi a bilanciare le modifiche relative agli interventi in giudizio, il nuovo articolo 4-ter, comma 1, consente a “formazioni sociali senza scopo di lucro” e “soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità” di presentare una “opinione scritta”. Il successivo comma 5 circoscrive il rilievo processuale della posizione degli amici curiae: essi, infatti, non assumono la qualifica di parte, non hanno accesso agli atti e, soprattutto, non hanno facoltà di partecipare all’udienza. In aggiunta, la memoria deve essere presentata entro un termine piuttosto breve (ma che ricalca quello previsto dall’art. 4, comma 4 per il deposito dell’intervento), deve mantenersi entro dimensioni contenute (25.000 battute) e, soprattutto, la sua ammissione è soggetta alla valutazione del Presidente (cfr. art. 4-ter, commi 2 e 3).
Da un lato, dunque, si persegue un’apertura; dall’altro – e in attesa di valutare la prassi applicativa dell’istituto – la concreta disciplina dell’amicus curiae desta talune perplessità, specie in relazione alla garanzia dell’effettiva incidenza in giudizio degli argomenti introdotti: ciò, non tanto con riferimento alla previsione di filtri o ai limiti dimensionali, né al mancato accesso agli atti (coerente con l’assenza della qualità di parte) quanto piuttosto all’esclusione degli amici curiae dalla partecipazione all’udienza.
Pare dunque legittimo domandarsi – non senza un cenno di provocazione – se le concrete modalità di partecipazione al giudizio di soggetti esterni al giudizio principale (eppure titolari di interessi che, seppur non immediatamente inerenti a esso, ne risultano astrattamente incisi) contribuiscano effettivamente a scalfire, nonostante gli obiettivi dichiarati, la premessa di una radicale separazione (e finanche di un malcelato antagonismo) tra la Corte e gli attori dello spazio pubblico. Agli argomenti da essi recati viene infatti dato ingresso in Corte, ma al di fuori della dinamica del contraddittorio (esclusione solo minimamente temperata dalla previsione di cui al comma 4 dell’art. 4-ter, che prevede la trasmissione del decreto di ammissione dell’opinione dell’amicus curiae alle parti costituite, almeno trenta giorni prima dell’udienza).
Viceversa, una procedimentalizzazione della partecipazione maggiormente coerente con gli istituti del diritto processuale “comune” – ad esempio attraverso l’allargamento delle maglie della giurisprudenza della Corte in materia di intervento – avrebbe forse consentito di soddisfare l’esigenza di regolare l’apertura in modalità tali da garantire una adeguata articolazione del rapporto tra Corte e attori dello spazio pubblico: un rapporto potenzialmente conflittuale, ma non per questo necessariamente antagonistico o fondato sulla premessa di una rigida separazione. In altri termini, un più deciso inquadramento della partecipazione secondo canoni processualistici avrebbe forse consentito di declinare la relazione tra giudizio e spazio pubblico nel senso di una più efficace cooperazione. Se è vero infatti che la Corte non è un’agorà (così ancora Ridola) o, ancora peggio, una tribuna, è altrettanto vero che, proprio per questo, l’apertura del processo costituzionale agli apporti della società civile non è soltanto l’occasione per amplificare rivendicazioni o posizioni di principio largamente presenti nella società, bensì piuttosto uno dei possibili canali per mantenere in relazione cooperativa la responsabilità dell’interprete e le molteplici sollecitazioni provenienti dallo spazio pubblico.
Anche la possibilità di audire esperti – terza innovazione apportata in sede di modifica delle norme integrative – suscita perplessità analoghe, che non si rivolgono cioè tanto all’opportunità di tale scelta quanto piuttosto alle concrete modalità con le quali essa è stata disciplinata.
In attesa delle prime esperienze applicative, non è possibile evitare di notare che la scelta degli esperti da audire ricade interamente sul collegio. Si pone, in altri termini, un problema specifico inerente al contraddittorio o, al limite, alla necessaria garanzia del pluralismo nella scelta degli esperti “di chiara fama”; è vero, infatti, che alle parti è riconosciuta la possibilità di formulare domande agli esperti (sebbene, si badi, dietro autorizzazione del Presidente) ma, al contempo, alle parti non è data facoltà di interloquire con la Corte in merito alla scelta dei medesimi o, al limite, di proporre esse stesse la convocazione di esperti, fermo restando l’apprezzamento del collegio. Anche in questo caso, peraltro, una maggiore coerenza con il diritto processuale “comune” – il pensiero va, come ovvio, all’istituto della consulenza tecnica – avrebbe forse assicurato un maggiore equilibrio. Esistono materie nelle quali, infatti, l’estrema complessità tecnica si accompagna a una altrettanto estrema sensibilità sul piano etico, la quale può rinviare, non di rado, a contrapposte opzioni di principio suscettibili di incidere sull’approccio alle questioni oggetto di audizione. In mancanza, è inevitabile che l’apprezzamento della “chiara fama” degli esperti resti affidato alla responsabilità del collegio laddove invece una qualche forma di contraddittorio avrebbe forse potuto fornire elementi di maggiore garanzia.
In conclusione, la porta – stretta – aperta dalla Corte costituzionale le consentirà di affacciarsi su un territorio inesplorato, che solo in parte rinvia a una ordinata cooperazione con gli attori dello spazio pubblico: le modalità prescelte per regolare questa apertura non permettono, secondo il parere di chi scrive e in attesa di verificare la prassi applicativa, di affermare con certezza se vi saranno virtualità positive e quale sarà la loro portata.