La nuova tornata di nomine dei giudici supremi d’Israele: when law meets politics
E’ noto come Carl Schmitt, nella sua critica visione della giustizia costituzionale, temesse per mezzo di questa tanto la giurisdizionalizzazione della politica quanto la politicizzazione della giurisdizione.
In tal senso, come del resto spesso capita di leggere decenni dopo, il giurista tedesco coglieva nel segno, quantomeno per quanto riguarda alcuni effetti.
E per averne più compiuta riprova, è sufficiente constatare come a certe latitudini non solo la stessa nomina dei giudici costituzionali è questione ampiamente contestata, che anima i dibattiti e divide il pubblico; ma la polarizzazione che ne deriva tende a rispecchiare il dibattito politico generale del paese d’appartenenza, tanto da poterne fungere da utile cartina di tornasole.
In quest’ottica, è interessante volgere allora l’attenzione all’ultima tornata di nomine dei nuovi giudici supremi d’Israele: paese che, per parafrasare Giovanni Sartori (che così ne descriveva gli assetti partitici), incarna “tutte le possibilità complessità” di sistema.
E in effetti, una breve analisi delle recenti vicende di judicial politics del paese è capace di restituirci l’idea della congerie di difficoltà che la giovane democrazia mediorientale costantemente affronta.
In essa, del resto, come noto, è ancora disputata l’esistenza stessa di una costituzione, a fronte di un reticolo di leggi formalmente denominate “fondamentali”, ma approvate senza procedimenti rinforzati o speciali, e talvolta disciplinanti questioni tecniche o comunque prettamente ‘ordinamentali’, e pertanto dal dubbio valore interpretativo.
In merito a queste, si assiste ancora oggi al paradossale, acceso dibattito tra alcuni accademici ed un (ex) Presidente della Corte suprema, Aharon Barak, grande teorizzatore della “rivoluzione costituzionale” del paese (scatenata a suo avviso dall’adozione, nel 1992, delle prime leggi fondamentali sui diritti umani) ed ex Presidenti della Knesset, ex Ministri di giustizia e ex Presidenti dell’Israeli Bar Association che negano al tempo stesso l’esistenza di una normazione di rango sovraordinato.
Non solo: proprio su proposta ministeriale, la Knesset ha recentemente discusso una serie di disegni di riforma del sistema di judicial review della Corte, trascinante motore della costituzionalizzazione del paese, e approvato delle modifiche proprio al sistema di nomina dei giudici supremi, considerato troppo sbilanciato e poco ‘controllabile’ a livello politico.
Lo scontro istituzionale tra le maggioritarie componenti politiche del paese e l’attivista organo giudiziario apicale ebbe origine negli anni ’90 durante la carismatica presidenza Barak; dopo il ritiro di questi per sopraggiunti limiti d’età nel 2006 (e un periodo di fisiologico assestamento) le schermaglie si sono protratte durante la presidenza di Dorit Beinisch, allieva ed erede ideale del precedente chief justice, che ha confermato i tratti fondamentali del judicial review della Corte, proseguendo nell’opera di censura in via giudiziaria della legittimità delle leggi (potere che la Corte ha per se stessa preteso), e con una forte apertura alla istanze sociali attraverso la più ampia interpretazione dei canoni di standing e justiciability.
Oggi però l’operato della Corte suprema conosce (almeno potenzialmente) un nuovo punto di svolta. La presidente Beinisch, che ha garantito per un altro lustro l’adesione agli ideali innovativi e ‘costituzionalistici’ della precedente presidenza, ha a sua volta raggiunto l’età del ritiro; e, in vista di un massiccio ricambio nella composizione della Corte, si è posto prepotentemente il problema relativo ai nuovi indirizzi del potere giudiziario apicale negli anni a venire.
Difatti, nella nuova fase, il giudice Asher Grunis si trovava ad essere il componente più anziano della Corte, e pertanto il nuovo presidente convenzionalmente designando: un giudice dipinto dalla pubblicistica come genericamente “conservatore”, ma caratterizzatosi come possibile soluzione di continuità con i precedenti corsi non tanto per i suoi orientamenti religiosi, quanto per la costante attitudine al self-restraint e l’opposizione al modello di giustizia costituzionale intrusivo (perché spesso svincolato da ogni interesse ad agire e requisito di legittimazione nell’accesso alla Corte) propalato da Barak.
Recentemente, questo orientamento si era potentemente esplicitato in una solitaria dissenting opinion dello stesso Grunis nel controverso (e sempreverde) caso della costituzionalità della Tal Law, la legge che disciplina l’esenzione dal servizio militare degli studenti delle scuole talmudiche superiori: discostandosi dalla storica asserzione di illegittimità – in uno degli ultimi casi decisi dalla Corte Beinisch – il giudice Grunis coglieva nuovamente l’occasione per raccomandare un uso più accorto dei poteri giudiziari in caso di simili, sensibili frizioni istituzionali, giacché «it would have been best if the court didn’t have to deal with the issue; if it had been left in the public sphere beyond the court’s jurisdiction».
In ogni caso, nel particolare frangente, la stessa nomina alla presidenza del giudice anziano Grunis era posta in dubbio dall’approssimarsi anche per questi della soglia d’età di ritiro obbligatorio, i settant’ anni. Ma un apposito intervento normativo appoggiato dalla maggioranza conservatrice (e ormai denominato Grunis Bill) interveniva ad hoc, a poche settimane dalla transizione, per accorciare i termini minimi di servizio di ogni Presidente della Corte, così da consentire (attraverso una norma presto contestata dall’opposizione, e additata come ad personam) la nomina del giudice (che compirà settant’anni nel 2015), e anche chiaramente esplicitando quale fosse la scelta più gradita, per la designazione, dalla compagine governativa.
In questo contesto, a stretto giro, il competente Judges Selection Committee (composto da nove membri, tra cui tre giudici, due rappresentanti dell’avvocatura, due membri del governo e due parlamentari) dapprima nominava lo stesso Grunis alla presidenza; al contempo, affrontava la questione relativa alla nomina di altri quattro nuovi giudici supremi, e qui la sua azione veniva nuovamente paralizzata, per intere settimane, da questioni politiche striscianti relative ai possibili candidati.
Ancora, si profilava una contrapposizione tra la Presidente uscente Beinisch (che siedeva di diritto nel comitato) e il Ministro di giustizia Yaakov Ne’eman, in particolare intorno al nome del giudice della Corte distrettuale di Gerusalemme Noam Sohlberg, candidato ortodosso, conservatore, ma inserito nella rosa dei candidati anche per le sue origini Mizrahi (ossia risalenti a comunità ebraiche di paesi arabi o nordafricani).
Anche per il concomitante fattore etnico, che spesso gioca un ruolo nella selezione, il giudice Sohlberg veniva alfine prescelto, in una serie di negoziati attraverso cui la Presidenza della Corte otteneva dalla maggioranza governativa l’archiviazione di un’ulteriore proposta di riforma del sistema di nomina del giudici (in particolare, il governo pretendeva di obliterare la presenza di rappresentanti dell’avvocatura nel comitato di nomina, in quanto le posizioni di questi tendono spesso a convergere con quelle giudiziarie e raramente con quelle dei rappresentanti politici).
Ma anche qui, le polemiche non erano destinate ad esaurirsi. In particolare, lo stesso luogo di residenza del giudice Sohlberg, Alon Shvut, rientrava tra i motivi di tensione: trattasi di un insediamento israeliano non lontano da Gerusalemme, nella West Bank cisgiordana, ma in quanto tale territorio conteso, la cui stessa esistenza è considerata in violazione delle convenzioni internazionali. Soprattutto le minoritarie formazioni politiche arabe d’Israele non mancavano di contestare potentemente la nomina: il deputato Ahemd Tibi della United Arab List-Ta’al espressamente criticava la designazione di Sohlberg, parlando di «black day for justice an equality» e di «moral defeat for the Israeli legal system».
Infine, un nuovo episodio di portata non solo aneddotica si inseriva nelle vicende relative alla tornata di nomine.
Proprio in conclusione della cerimonia di giuramento ed insediamento del nuovo presidente Grunis, l’unico giudice arabo della Corte, Salim Jubran, rifiutava di intonare insieme agli altri colleghi l’inno nazionale israeliano, l’Hatikvah, che, in alcune strofe, fa riferimento all’“esilio” del popolo ebraico dalla propria terra e alla “speranza” di un nuovo afflusso, in adesione con gli ideali sionisti che sono alla base della nascita del paese. La scelta, in un clima già esasperato, provocava una nuova ridda di polemiche, alcune ancora strumentalmente indirizzate verso un maggiore controllo politico nella selezione dei giudici supremi.
Insomma: frizioni istituzionali e controversie politiche interne, fattori etnici e religiosi in gioco nella selezione, ampia sensibilità delle minoranze palestinesi anche per le endemiche contestazioni sui confini del paese e sulle ideologie fondamentali. Il concatenarsi di queste macroscopiche problematiche dello stato di Israele – che ne ha accompagnato l’intero sviluppo nell’arco dei decenni che ci separano dalla sua fondazione – é stato efficacemente rappresentato dalle basilari, particolari, volendo minute vicende di judicial politics delle ultime settimane.
Quel che più colpisce l’osservatore è però il fatto che simili dinamiche tendano a coinvolgere sempre di più la Corte suprema, che è l’organo che, nell’ambito della profondamente divisa società israeliana, pur talvolta con modalità discutibili, maggiormente si è posto l’obiettivo della protezione del pluralismo religioso, dei diritti civili e delle minoranze, del corretto dispiegarsi della dialettica politica pur nello stato di continua emergenza del paese.
Il contestato ma prezioso ruolo ‘contromaggioritario’ della Corte di Gerusalemme sarà posto in dubbio dalla sempre maggiore politicizzazione del dibattito che l’accompagna? L’attenzione, per forza di cose, ora passa alle concrete modalità di judicial review della nuova Corte Grunis, e alle effettive possibilità di cambiamento che una presidenza conservatrice potrà apportare. Insomma: in tal senso il tempo potrà dirci di più, come spesso accade.