La investor citizenship mette alla prova la cittadinanza europea? Qualche considerazione sull’evoluzione del caso maltese

Lo ius civitatis costituisce, ancora oggi, la parte più intima del potere statale. Ogni Stato, come è noto, stabilisce le modalità di acquisto e perdita della cittadinanza secondo una sua legittima potestà (si ricordi la cd. clausola Micheletti nella causa C-369/90 e l’art. 3.1 della Convenzione europea sulla nazionalità). Tuttavia, al trattarsi di uno Stato Membro dell’Unione europea, tale ordinamento è tenuto a rispettare e non limitare l’effetto utile delle norme europee, che agiscono anche a «tutela dei principi internazionali» (Ballarino, 2007). Tale specifica è necessaria poiché la cittadinanza europea si configura come un istituto accessorio ma foriero di specifici diritti, capace di trasformare l’individuo in soggetto transnazionale e «membro di due comunità politiche», il cui regime identitario «viene posto sul piano della effettiva localizzazione della persona nell’Unione» (Parisi, 2013).
È proprio all’interno di questo contesto dicotomico che alcuni Stati membri (per ultimo, quello maltese) hanno deciso di favorire l’ingresso di alcuni soggetti stranieri, intenzionati a realizzare un cospicuo investimento all’interno del proprio territorio. Sulla scorta di un previo impegno economico, quindi, detti soggetti hanno la possibilità di accedere a permessi di residenza di lunga durata o, in taluni e specifici casi, alla cittadinanza pleno jure. Questo approccio, sebbene non sia consueto, ha radici giuridiche ben più profonde. Va detto, infatti, che la cittadinanza si compone di due dimensioni: la prima è prettamente politica e si esplica in tutta la sua essenza attraverso la partecipazione; l’altra, invece, è più squisitamente normativa e si realizza attraverso le differenti leggi nazionali sulla cittadinanza.
Proprio in quest’ultimo ambito, esiste una prerogativa, interna agli Stati, che consente il riconoscimento dello status civitatis ad una persona che si è distinta «per grandi atti di servizio alla comunità» (Spiro, 2007). Trattasi di potere ben delimitato di naturalizzazione, che oggi ha assunto caratteristiche sempre più flessibili, rafforzando anche la sfera limitrofa della discrezionalità amministrativa. Nell’ordinamento italiano, ad esempio, l’art. 9 della Legge 91/1992 stabilisce le modalità con cui il Presidente della Repubblica ha il potere di concedere (e non riconoscere) la cittadinanza a coloro che, stante i requisiti minimi richiesti, possiedono una posizione giuridica per cui sia possibile abbreviare il naturale percorso di integrazione. I cittadini europei, ad esempio, dovranno dimostrare di aver soggiornato ininterrottamente per quattro anni, non essendo esenti dal chiarire la loro regolare posizione rispetto agli altri dettami di legge (art. 9 bis). Esiste, quindi, la legittima potestà in capo allo Stato di includere determinati soggetti all’interno della propria comunità.
A dispetto di qualsiasi procedimento nazionale, i metodi di attribuzione dell’istituto di stampo comunitario non hanno mai subito modifiche concrete, nonostante il lungo processo di riforma dei Trattati istitutivi. In tal senso, è ancora opportuno parlare di una «cittadinanza senza nazionalità» (Rossi, 2006), poiché «non implica l’esistenza di un popolo europeo» (causa C-135/08, p. 23) bensì di un corpo sociale e politico che «si modella sulla base delle diverse sensibilità dei singoli Stati membri» (Diez Picazo, 2003). Per ciò che concerne l’attribuzione dello status civitatis europeo, infatti, la stessa Corte di Giustizia ha specificato che i soggetti devono semplicemente risiedere o mantenere un proprio domicilio all’interno dell’ambito di applicazione dei Trattati europei (Causa C-300/04, p. 27). A tal proposito, è bene ricordare che «spetta alla Corte pronunciarsi sulle questioni […] che riguardano i presupposti in presenza dei quali un cittadino dell’Unione può vedersi privato di tale qualità» (Causa C-135/08, p. 46). Considerati questi limiti, quale natura può assumere questo «nesso di diritto pubblico» (Conclusioni C-135/08, p. 17) che unisce un individuo ad un determinato Stato? Il caso maltese, che analizzeremo da un punto di vista squisitamente giuridico, ci avverte che qualcosa evidentemente sta cambiando circa il modo di intendere questo status personale che, perlomeno nella giurisprudenza internazionale, viene descritto come un rapporto giuridico «avente alla base un fatto sociale di collegamento, una solidarietà effettiva di esistenza, di interessi e di sentimenti unita a una reciprocità di diritti e doveri» (causa Nottebohm – Liechtenstein v. Guatemala, p. 23).
Negli ultimi mesi del 2013, il governo di Malta ha annunciato la creazione di un Programma per gli investimenti al fine di attrarre qualunque soggetto fosse interessato a realizzare un impegno economico, più o meno duraturo, nel sistema finanziario del Paese. Tale scelta, evidentemente dettata dalle condizioni di crisi economico-finanziaria, ha influenzato anche l’ambito della cittadinanza, incrementandone alcuni aspetti che, nelle diverse riforme che hanno interessato l’assetto normativo, rimanevano residuali o connotate da un carattere di eccezionalità.
Con l’approvazione dell’Act XV del 2013, accompagnato dalla Legal Notice n. 450 e dal regolamento attuativo di un Individual Investor Programme of the Republic of Malta (da ora, IIP), si è scelto di emendare la regolamentazione vigente. L’impianto legislativo fa perno proprio su quel potere di naturalizzazione a cui si è fatto già riferimento e che era stato ampliato attraverso una precedente riforma nel 2007. Per incardinare questa prerogativa, destinata a coloro che contribuiscono allo sviluppo economico dell’isola di Malta (art. 3 dell’IIP), è stata incoraggiata la previsione di una fast-track naturalization per tutti i titolari di un investimento, con la possibilità di includere tra i beneficiari della suddetta misura anche i familiari diretti e/o i minori a carico.
Al di là delle soglie di spesa annunciate nel primo disegno di riforma, questa misura comporta un’ampia discrezionalità da parte del Ministero degli interni nel concedere il titolo di soggiorno e una evidente scarsità di pre-condizioni per i potenziali richiedenti. A ciò si aggiunga che le autorità maltesi hanno successivamente deciso di esternalizzare la gestione amministrativa del procedimento ad una agenzia governativa (Identity Malta Agency), riservandosi la mera soprintendenza nel procedimento. Questa agenzia è stata istituita attraverso la Legal Notice n. 269 del 2013,sotto la competenza del Ministero degli Interni. Tuttavia, l’organismo viene agevolato in questo compito di raccolta delle candidature da un’ulteriore entità esterna, che ha una personalità giuridica separata. Si tratta, nello specifico, della Società Henley & Partners: una Law Firm internazionale specializzata in programmi di cittadinanza, che assume un ruolo di esclusività nel IIP Process ed è responsabile della promozione e dell’elaborazione delle richieste da parte dei soggetti stranieri.
Il Parlamento europeo ha manifestato preoccupazione per questi eventi, avvertendo con più risoluzioni la Commissione circa il pericolo che «queste forme di ottenimento della cittadinanza maltese […] possano compromettere il concetto stesso di cittadinanza europea» (Risoluzione 2013/2995, p. 1) fornendo, così, una base su cui iniziare i negoziati tra l’organo centrale europeo e il governo de La Valletta. Da qui, la seconda proposta modifica contenuta nella L.N. 47/2014 che, per la prima volta, è stata frutto di una vera e propria negoziazione con gli organi di Bruxelles: il secondo pacchetto di emendamenti, infatti, introduce una prova di residenza previa di almeno 12 mesi nel territorio dello Stato per poter essere considerati meritevoli di questa particolare forma di naturalizzazione. Tale requisito non era richiesto per l’accesso alla cittadinanza dello Stato nel disegno originale. A ciò si aggiunga che le istanze, essendo legate ad una prerogativa dell’esecutivo, non sono appellabili, né suscettibili di modifica in seguito ad un diniego, poiché spetta solo al Ministero competente o all’autorità preposta la responsabilità del procedimento. (DE BONO, 2013).
Ciò nonostante, i soggetti che beneficiano di questa misura – va specificato – assumono in sé una posizione giuridica assai più vantaggiosa rispetto ad altre e similari categorie di stranieri ammessi nel territorio dello Stato (si pensi, tra gli altri, ai titolari di permesso UE per soggiornanti di lungo periodo). Ad essi vengono riconosciuti – sic et simpliciter –  i diritti elettorali, insieme alla lunga cerchia dei diritti accessori derivanti dalla cittadinanza dell’Unione europea. Rispetto a quest’ultimo punto, l’esempio maltese accende i riflettori su una lacuna che – sic stantibus rebus – sembra incolmabile per le autorità di Bruxelles: la decisione, da parte degli Stati Membri, di considerare la cittadinanza UE come accessoria e non foriera di uno status autonomo non combacia con un altrettanto meccanismo di armonizzazione delle leggi nazionali. Questa tendenza, più volte auspicata ma evidentemente difficile da realizzare, lascia aperti evidenti spazi di discrezionale riconoscimento, all’interno di una difficile dialettica tra beneficiario di diritti e titolare di precisi doveri. La legge maltese approfitta di questa mancanza di uniformità tra gli ordinamenti e dell’evidente impossibilità da parte dell’Unione – se si esclude i consueti margini del negoziato – di poter incidere all’interno di questo che appare come uno degli ultimi esempi di sovranità statale.
Questa misura, a tratti controversa, non è unica nel suo genere all’interno del Vecchio Continente: similari provvedimenti sono rinvenibili nelle legislazioni di Cipro, Bulgaria, Spagna, Portogallo e, seppur con qualche distinguo, anche in Austria. Ciò nonostante, questa citizenship-by-investment costituisce per l’ordinamento de La Valletta un’evoluzione di quel concetto implementato dopo le riforme del 2001 ma che modifica i contorni e la natura stessa di quanto previsto dal legislatore nel testo del l965, successivo all’indipendenza. È indubbio che si tratta di una visione assai estensiva del potere di naturalizzazione, con ricadute rilevanti per ciò che concerne la tutela del principio democratico e del pari trattamento dello straniero. Allo stesso tempo, dobbiamo constatare l’esigua presenza di strumenti normativi che consentano, al netto delle competenze espresse, un intervento da parte delle istituzioni europee in tal senso. Soltanto una pronuncia specifica da parte della Corte di Giustizia dell’Unione europea, semmai si preavvisino i presupposti e qualora i giudici ne intravedano la necessità, potrebbe cercare di delimitare o più semplicemente individuare i contorni di questo fenomeno. Ad oggi, gli Stati membri – descritti spesso come «padroni dei Trattati» – rimangono ben saldi nel preservare gli ultimi indizi di una sovranità che si aggancia all’evolversi delle necessità interne (siano esse politiche o economiche) ma non all’avanzare dei tempi. La cittadinanza, così come altri istituti di notoria pertinenza interna, sta subendo un evidente e inesorabile processo di trasformazione. In questo divenire, probabilmente, dovremmo cominciare a ragionare su come rinforzare la cittadinanza dell’UE, accessoria nei diritti ma fondamentale nelle situazioni giuridiche che può e sa creare.
Dal canto suo, la dottrina giuridica è stata sempre concorde nell’affermare che «la mutevolezza della categoria della cittadinanza […] è data dal fatto che è tramite quest’espressione che si tende a richiamare il rapporto giuridico fondamentale che lega l’individuo […] sia all’ordine politico, sia all’ordine sociale» (AZZARITI, 2011). Tuttavia, la concretezza del vincolo non deve mai oltrepassare l’eccessiva discrezionalità e la poca trasparenza, poiché porterebbe al rischio che una «marketable commodity» (BAUBÖCK, 2014) possa alterare la natura di un così determinato e concreto status giuridico.