La Francia del post-“fait majoritaire”: le nuove dinamiche di formazione del governo e lo scenario inedito del governo minoritario “di coesistenza”
1. Ci sono voluti 52 giorni dalle elezioni per conoscere il nome del nuovo Primo ministro francese, altre due settimane per apprendere la composizione del governo e ancora una decina di giorni per venire a conoscenza delle linee programmatiche (concordate, e neanche troppo, in sede di accordo post-elettorale). In totale, quasi tre mesi per delle formalità che normalmente venivano espletate in pochi giorni.
Sebbene si tratti di uno scenario che non avrebbe granché di sorprendente in Italia (si ricorderanno gli 89 giorni trascorsi tra le elezioni e la formazione del governo Conte I), è invece un copione completamente nuovo per la Francia, abituata a conoscere vincitori e vinti a pochi minuti dalla chiusura delle urne, complici un sistema elettorale, un’architettura istituzionale e un sistema dei partiti che avevano finora permesso, senza eccezioni, di veder emergere immediatamente dalle elezioni una maggioranza chiara e coerente.
Quanto successo da giugno impone pertanto già ad oggi un aggiornamento profondo dei manuali di diritto costituzionale e non c’è da dubitare che ulteriori novità seguiranno. Dopo lo scioglimento pronunciato la sera del 9 giugno in reazione ai risultati delle elezioni europee – il primo da quando esiste il quinquennato, nonché il primo contro la volontà della propria maggioranza – e dopo le elezioni del 30 giugno e del 7 luglio, la Francia si ritrova immersa in uno scenario del tutto inedito, né di maggioranza presidenziale, né di coabitazione, dove il “fatto maggioritario” che ne aveva caratterizzato il funzionamento dal 1962 senza soluzione di continuità è solo un ricordo, e dove la tenuta e la capacità di azione del governo sono appese ad un filo.
Le crisi, come noto, portano con sé al contempo ostacoli e occasioni, e di fatti questa situazione non soltanto permette di mettere in luce i limiti della Quinta Repubblica e di interrogarsi sulla capacità delle istituzioni di adattarsi al mutamento di contesto, ma ha altresì riacceso l’interesse del mondo politico e della dottrina sul tema delle riforme istituzionali (dall’introduzione del proporzionale, al passaggio alla Sesta Repubblica, all’idea di costituzionalizzare il sistema elettorale). Questo breve commento si limiterà invece a evidenziare le criticità legate al ruolo del Capo di Stato nella formazione del governo in uno scenario inedito nel quale le dinamiche proprie al parlamentarismo hanno vocazione ad applicarsi, e si interrogherà quindi sull’impatto della nuova configurazione politica sull’assetto istituzionale e sulle relazioni tra Presidente, governo e maggioranza parlamentare.
2. In un paese del tutto avulso dalle logiche della forma di governo parlamentare (il Presidente Macron ha lasciato trascorrere una decina di giorni prima di accettare le dimissioni del suo governo, e ancora un mese e mezzo prima di procedere a delle consultazioni), la formazione del governo è stata particolarmente laboriosa, rivelando tutti i limiti della Quinta Repubblica, calcata sulla presidenzializzazione del sistema politico e sull’esistenza di maggioranze monocolore.
La Costituzione del 1958 fa della nomina del Primo ministro un “pouvoir propre”, formalmente e sostanzialmente presidenziale, il cui esercizio non solo sfugge all’obbligo di controfirma, ma non è nemmeno subordinato ad alcuna procedura consultativa. Il solo limite all’esercizio di tale potere deriva dalla logica parlamentare, la quale ovviamente richiede che il Capo dello Stato nomini un governo che possa appoggiarsi su una maggioranza parlamentare. Tuttavia, la prassi della Quinta Repubblica e l’affermazione del “fatto maggioritario” (l’apparizione di una maggioranza netta, omogenea e disciplinata all’Assemblea nazionale) senza eccezioni dal 1962 hanno profondamente mutato la logica parlamentare, conducendo ad un’interpretazione delle norme sulla fiducia tale da escludere l’obbligatorietà del voto della fiducia iniziale, a dispetto del presente indicativo impiegato all’art. 49 comma 1.
Il governo è quindi pienamente legittimato dalla nomina presidenziale, e la fiducia parlamentare si presume, salvo approvazione di una mozione di sfiducia alla maggioranza assoluta dei membri della camera bassa. Di fatto, quando il fatto maggioritario ha coinciso con la maggioranza presidenziale, il Presidente ha potuto esercitare il potere di nomina con la massima discrezionalità, peraltro estendendo di fatto tale discrezionalità anche alla nomina dei ministri, sebbene la Costituzione faccia di quest’ultima un atto misto, subordinato alla proposta da parte del Primo ministro e controfirmato da quest’ultimo. Il governo era allora un governo presidenziale, incaricato di attuare il programma del Presidente. Nelle tre eccezioni in cui dalle urne è uscita vincente una maggioranza di colore opposto al Presidente, questi ha esercitato il proprio potere entro i limiti imposti dalla circostanza politica, nominando quindi il leader designato dalla maggioranza parlamentare.
Nella situazione inedita emersa dalle urne il 7 luglio, con un’assemblea suddivisa in tre grandi blocchi (la coalizione di sinistra del Nuovo fronte popolare, il blocco macronista e l’estrema destra del Rassemblement national e dei suoi alleati) cui si aggiunge qualche gruppo “cerniera”, e con una coalizione arrivata in testa forte di una maggioranza relativa significativamente più ridotta di quelle conosciute fino ad oggi, il Presidente si è trovato in una situazione differente: il suo potere di nomina non poteva considerarsi come pienamente discrezionale, in quanto la sua maggioranza era uscita sconfitta da un voto-sanzione a seguito dello scioglimento; tuttavia, non si è nemmeno sentito vincolato dal suffragio, ritenendo che il risultato del voto esprimesse più un rifiuto del Rassemblement national che un mandato di governo conferito ad una maggioranza chiaramente designata.
In questa circostanza, il Presidente ha dunque ritenuto, non senza qualche esitazione iniziale, di dover agire come un arbitro e mediatore tra le forze politiche, alla stregua dei Capi di Stato di altri sistemi parlamentari. La maniera di dirigere le dinamiche di formazione del governo, tuttavia, ha mostrato in tutta evidenza la difficoltà di adattare ad una concezione arbitrale la funzione presidenziale ormai caratterizzata dalla direzione dell’esecutivo e dalla determinazione dell’indirizzo politico.
In un primo momento, infatti, il Presidente ha rifiutato le dimissioni del proprio governo, non riconoscendo la vittoria di una formazione avversaria, ma piuttosto del fronte repubblicano di cui la sua stessa ex-maggioranza politica aveva fatto parte. Relativizzando così la sconfitta della propria formazione politica, ha quindi rivendicato il diritto di porre quest’ultima al centro di una possibile grande coalizione alla tedesca, rispondente ad un implicito mandato degli elettori che avevano voluto scongiurare il rischio di un governo degli estremi (ma escludendo così dalla sua proposta La France Insoumise che pure aveva partecipato al “fronte repubblicano” nell’alleanza di desistenze al secondo turno).
Fallito il tentativo di formare una grande coalizione che riunisse intorno ai macronisti la destra gollista, i socialisti, i comunisti e gli ecologisti, il Presidente si è rassegnato, ad oltre un mese e mezzo dalle elezioni (e dopo aver proceduto, in un inspiegabile silenzio, alla nomina del commissario europeo senza concertazione con le forze politiche maggioritarie all’assemblea) a iniziare le consultazioni. Durate pochi giorni, queste si sono risolte in un comunicato col quale il Presidente, a fronte del rifiuto della coalizione di sinistra di aprirsi ad un’alleanza di governo, ha dichiarato di non poter procedere alla nomina della persona designata da tale coalizione, in quanto un governo espressione della sola coalizione di sinistra “sarebbe immediatamente sfiduciato dagli altri gruppi che compongono l’assemblea” poiché “disporrebbe immediatamente di una maggioranza contraria di oltre 350 deputati” (così il comunicato ufficiale diffuso a seguito delle consultazioni).
Come noto, la situazione si è sbloccata qualche giorno dopo, con la nomina dell’ex-ministro gollista ed ex-commissario europeo Michel Barnier, incaricato di proporre un governo espressione di una coalizione formata dal centro-destra macronista e dalla destra gollista dei repubblicani. Le prove generali di questa coalizione si erano peraltro già tenute nell’elezione degli organi dell’assemblea, un mese e mezzo prima: in quell’occasione, infatti, l’ex-maggioranza macronista era riuscita ad eleggere, grazie ai voti dei repubblicani, dei propri rappresentanti in tutti i ruoli tradizionalmente attribuiti alla maggioranza – a cominciare dalla presidenza dell’Assemblea, la maggior parte delle presidenze di commissione e dei posti in giunta –, lasciando ai deputati della coalizione di sinistra i posti riservati all’opposizione (paradossalmente, in un momento in cui questa era la forza maggioritaria all’assemblea, il che porta a interrogarsi sulla pertinenza dello statuto dell’opposizione come concepito in Francia) e escludendo l’estrema destra dai posti-chiave.
Ora, pur ammettendo che, conformemente alla logica parlamentare e in assenza di maggioranze sufficientemente salde, è compito del presidente, attraverso meccanismi consultivi, di mediazione o di influenza come le consultazioni e i mandati esplorativi, cercare di promuovere la formazione di una più ampia maggioranza suscettibile di sostenere saldamente un governo, la posizione di Macron è criticabile sotto un duplice profilo. Da un lato, si noterà che il governo presieduto da Michel Barnier può contare su una maggioranza relativa anch’essa piuttosto ridotta, e che anch’esso è dunque esposto al rischio di sfiducia in quanto si trova immediatamente confrontato ad “una maggioranza contraria di oltre 350 deputati”. Dall’altra, è innegabile la difficoltà di concepire l’intermediazione del Presidente nella formazione del governo come quella di un presidente-arbitro tipico dei regimi parlamentari, dal momento che questi si è ritrovato ad essere nella posizione quantomeno problematica di arbitro e parte in causa, nominando un governo sostenuto dalla propria ex-maggioranza e prevalentemente composto da ministri di quest’ultima, al quale ha impresso un indirizzo politico. In definitiva, anche in questa circostanza inedita, è la logica della presidenzializzazione che ha prevalso nella formazione del governo, con il Presidente che ne è stato il principale artefice, pur non potendo più contare su una propria maggioranza. Non si tratta tuttavia di un governo presidenziale, incaricato di attuare il programma del Presidente, e le relazioni tra presidenza, governo e parlamento sono ancora tutte da definire.
3. Sebbene i ministri macronisti siano maggioritari nel governo, così come i deputati macronisti all’interno della maggioranza parlamentare, il governo presieduto da Michel Barnier è un governo fortemente marcato dalla presenza della destra gollista, che riunisce personalità ideologicamente anche molto distanti, al punto da essere stato definito da Macron un governo di “coesistenza” responsabile.
Se l’impronta presidenziale non sembra destinata ad arretrare come in una situazione di coabitazione e il programma di governo appare per ora rispondere a delle linee guida concordate col Presidente, è al Primo ministro Barnier, forte delle sue riconosciute qualità di negoziatore, che spetta trovare la misura del compromesso, sia all’interno del governo e della sua labile maggioranza relativa che, soprattutto, all’esterno.
Potendo contare su una maggioranza relativa di soli 213 deputati su 577 (che peraltro inizia già a spaccarsi sul sostegno alla legge di bilancio, con una trentina di deputati macronisti che hanno dichiarato di volersi opporre agli aumenti dell’imposizione fiscale annunciati), nemmeno il sofisticato arsenale di dispositivi del parlamentarismo razionalizzato concepito da Michel Debré nel 1958 basterà al governo. Nel primo momento della storia della Quinta Repubblica in cui tali disposizioni costituzionali si troveranno messe alla prova della situazione per la quale erano state concepite, esse rischiano di dimostrare, come l’aveva intuito lo stesso Mirkine-Guetzevitch all’inizio del secolo scorso, che non c’è razionalizzazione del parlamentarismo che possa assicurare l’attuazione del programma di governo davanti all’instabilità politica determinata dai partiti.
Il governo Barnier sarà dunque fisiologicamente dipendente dal sostegno esterno della sinistra o dell’estrema destra. La composizione del governo, le prime dichiarazioni e le vaghe linee programmatiche annunciate il 1° ottobre fanno tuttavia pensare che il sostegno per la legge di bilancio potrà trovarsi più facilmente tra le fila del Rassemblement national, al prezzo di qualche compromesso trovato grazie alle misure annunciate in materia di immigrazione e sicurezza. Sebbene infatti il governo rifiuti qualunque sostegno esplicito del Rassemblement national, ci sono stati diversi segnali di apertura in questi giorni: dal discorso di insediamento del Primo ministro che ha ripetutamente affermato e rimarcato di cercare il dialogo con qualunque forza politica, alle dichiarazioni del ministro dell’Interno che ha insistito sulla necessità di rafforzare le politiche su immigrazione e sicurezza a discapito dei vincoli derivanti dall’ordinamento internazionale e dai principi dello Stato di diritto, alla dichiarazione programmatica del 1° ottobre nella quale, tra le poche misure concrete annunciate, figuravano il prolungamento dei termini della detenzione amministrativa dei migranti in situazione irregolare e la costruzione di nuove prigioni. Il Rassemblement national sarà dunque con tutta probabilità l’ago della bilancia dell’azione del governo e altresì della sua eventuale caduta, in quanto i suoi deputati non intendono votare nell’immediato la sfiducia presentata dalla sinistra, ma si riservano di farlo in seguito… Intanto le discussioni sono accese: introdurre il proporzionale o rafforzare il maggioritario? Rafforzare la razionalizzazione o adattarsi al parlamentarismo? Cercare di restaurare la Quinta Repubblica o passare alla Sesta?
Nell’attesa delle presidenziali del 2027, la situazione francese ci offrirà ancora, c’è da scommetterci, del materiale sul piano politico e istituzionale. Ed è un peccato che ci sia voluta una crisi politica di quest’ampiezza per far prendere la misura della gravità della crisi istituzionale, ignorata fintanto che i presidenti avevano i numeri per governare.