La Corte Suprema USA sul DACA fa rifiatare i “dreamers”
La sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti del 18 giugno 2020 sul caso Department of Homeland Security et al. v. Regents of the University of California et al. segna una tappa importante nella politica dell’immigrazione statunitense. Con tale decisione, infatti, i giudici supremi hanno mantenuto intatto il Deferral Action for Childhood Arrivals (DACA), il programma di sostegno lanciato da Obama nel 2012 con il quale si dà la possibilità ai cosiddetti “dreamers”, ovvero a quegli immigrati giunti molto giovani in territorio statunitense, senza precedenti penali ma privi di permesso di soggiorno, di regolarizzarsi temporaneamente sul territorio e di accedere ad una serie di servizi, quali l’ottenimento di un permesso di lavoro e l’accesso ai programmi di Social Security e di Medicare. Osteggiato dall’amministrazione Trump, il DACA è stato revocato tramite decisione del Department of Homeland Security (DHS) nel 2017, ma le procedure di revoca sono state ritenute illegittime dalla Suprema Corte per mancanza di motivazioni adeguate.
Per capire come la Corte sia giunta a tale conclusione, è necessario partire dai fatti. Nel 2012, l’amministrazione Obama, tramite il DHS, adottava un Memorandum nel quale si annunciava l’avvio di un programma di sostegno per alcune categorie di immigrati irregolari, il suddetto DACA. Nel Memorandum si prevedeva la possibilità di rinviare di due anni l’espulsione (two-year forbearance of removal) e di accedere ad una serie di benefit in campo sociale e lavorativo. Il DACA era rivolto ad immigrati irregolari entrati nel Paese a partire dal 15 giugno 2007 che non avevano compiuto 16 anni al momento dell’ingresso sul territorio statunitense e la cui età fosse inferiore a 31 anni nel 2012.
Nel 2014, il DHS avanzava un nuovo programma in materia di immigrazione connesso al DACA, il Deferred Action for Parents of Americans and Lawful Permanent Residents (DAPA). Con il DAPA, i benefici previsti dal DACA sarebbero stati estesi anche ai genitori di cittadini americani o di residenti permanenti, allargando così la platea dei dreamers da 700.000 a circa 4,3 milioni di persone. Contemporaneamente, il Governo aveva previsto di allargare ulteriormente i benefici del DACA, prolungando la validità del permesso di lavoro a tre anni ed eliminando il tetto dell’età.
Tutti e 26 gli Stati a guida repubblicana avevano contestato dinanzi alla Corte del Distretto meridionale del Texas sia l’espansione dei criteri del DACA sia la legittimità del DAPA, sostenendo che tale ultimo programma violasse lo Immigration and Nationality Act (INA) e la procedura del notice and comment definita dallo Administrative Procedure Act (APA), per la quale ogni atto con forza di legge deve essere corredato da criteri di trasparenza e conoscibilità.
La Corte texana, accogliendo il ricorso degli Stati, aveva decretato un’ingiunzione preliminare che impediva l’implementazione del DAPA e l’espansione dei benefici del DACA. La Corte di Appello (Fifth Circuit) aveva confermato l’ingiunzione preliminare, stabilendo che il DAPA era una “substantive rule” e che quindi doveva essere sottoposto alla procedura di notice and comment. Inoltre, il DAPA era “manifestamente contrario” all’INA, il quale dispone espressamente le designazioni che permettono a determinate classi di immigrati di ricevere benefici connessi alla presenza legale sul territorio e di accedere ai permessi di lavoro. Chiamata in causa, la Corte Suprema, con un voto in parità 4-4, aveva di fatto confermato l’ingiunzione preliminare.
Con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, il DHS decideva, nel giugno del 2017, di rescindere il DAPA. Per giustificare la propria decisione, il DHS citava, rispettivamente: l’ingiunzione preliminare; il fatto che il DAPA non era mai stato attivato; le nuove priorità in materia di immigrazione da parte dell’Esecutivo. Tre mesi più tardi, l’Attorney General, Jeff Sessions, inviava una lettera alla Acting Secretary del DHS, Elaine Duke, nella quale si disponeva di procedere anche con la rescissione del DACA. Il Procuratore generale riteneva infatti che il DACA condividesse le medesime “criticità legali” del DAPA e che pertanto doveva essere revocato.
Seguendo pressoché pedissequamente le indicazioni di Sessions, Duke disponeva un Memorandum (Memo Duke) nel quale, prendendo in considerazione la decisione della Corte Suprema e quella del Fifth Circuit sulla ingiunzione preliminare, si poneva fine al DACA. Secondo il Memo Duke, nessun’altra domanda per i benefici del DACA sarebbe stata accolta e solo i beneficiari del DACA le cui concessioni erano in scadenza entro sei mesi potevano procedere con una domanda di rinnovo.
Il Memo Duke veniva contestato da più parti, tra cui in particolare il Reggente dell’Università della California (caso Regents, presso la Corte distrettuale del Distretto settentrionale della California), il sig. Martin Batalla Vidal, un beneficiario del DACA (caso Batalla Vidal, presso il Distretto orientale di New York) e la National Association for the Advancement of Colored People (caso NAACP, presso il DC). I ricorrenti contestavano in particolare che il Memo Duke fosse contrario all’APA, ovvero che l’atto fosse “arbitrary and capricious”, poiché le conclusioni di Duke non motivavano a sufficienza il nuovo orientamento del DHS.
Sia in Regents che in Batalla Vidal i giudici accoglievano l’istanza di non conformità dell’atto all’APA, disponendo così un ordine di ingiunzione preliminare che manteneva lo status quo. Nell’aprile del 2018, il tribunale del Distretto di Columbia ordinava invece al DHS di provvedere, entro 90 giorni, alla predisposizione di un nuovo Memorandum per motivare la rescissione. Due mesi più tardi, il successore di Duke, Kirstjen Nielsen, inviava un nuovo Memorandum (Memo Nielsen) nel quale il nuovo Segretario del DHS dichiarava di non voler interferire con il precedente Memorandum (ovvero di non disporre una nuova rescissione), confermando così che il DACA andava revocato perché era semplicemente “contrario alla legge”.
La Corte del Distretto di Columbia riteneva dunque che il Memo Nielsen non motivasse in maniera esaustiva le ragioni che avevano condotto alla rescissione del DACA, respingendo così l’istanza governativa di rimozione dell’ingiunzione preliminare. Il Governo faceva così ricorso in appello rispettivamente dinanzi al Circuito del Distretto di Columbia, al Secondo e al Nono Circuito. Nel novembre del 2018, il Governo inviava poi tre petitions for certiorari alla Corte Suprema.
Dopo che il Nono Circuito aveva confermato l’ingiunzione preliminare, la Suprema Corte accorpava i casi Regents, Batalla Vidal e NAACP, definendo la questione in tali termini: in primo luogo la Corte doveva stabilire se la rescissione del DACA fosse sottoponibile ad un sindacato di giurisdizione (“reviewability”); in secondo luogo, in caso di risposta affermativa alla prima questione, la Corte doveva valutare la legittimità della rescissione del DACA.
La Corte non si è dunque pronunciata sulla possibilità del DHS di revocare il DACA, posto che nemmeno i ricorrenti hanno messo in dubbio che il Governo abbia il potere di agire in tal senso. La questione affrontata dalla Corte è stata piuttosto quella di verificare se il DHS, nello stabilire la rescissione, abbia seguito una procedura corretta dal punto di vista amministrativo. La questione va a toccare anzitutto il principio di responsabilità del Governo, posto che l’APA dispone che le agenzie federali sono tenute a rispondere del proprio operato e che pertanto i processi decisionali devono essere motivati (“reasoned decisionmaking”). Al contrario, un’azione posta dall’amministrazione senza adeguata motivazione è da intendersi “arbitrary and capricious”.
La Corte ha stabilito che il DACA non può essere considerato semplicemente come un atto di policy e dunque non può essere rimesso alla sola discrezionalità del DHS. Esso pertanto non è esente dal sindacato di giurisdizione. Il DACA stabilisce infatti un processo “chiaro ed efficiente” per il Servizio per la Cittadinanza e l’Immigrazione statunitense (USCIS) per l’individuazione dei beneficiari di determinate assegnazioni. In altre parole, il DACA definisce un processo “standardizzato e istituzionalizzato” mediante il quale si dispongono vere e proprie ordinanze (“adjudications”), tra le quali ad esempio quella con la quale si concede la protezione dall’espulsione. Si tratta dunque di ordinanze che pongono in essere azioni affermative che possono essere rimesse al vaglio del potere giudiziario. Non solo: mediante il processo definito dal DACA, i beneficiari sono titolati a richiedere permessi di lavoro e possono fare richiesta di accesso ai servizi sociali. L’accesso a tali benefici è, per la Suprema Corte, un interesse che le “corti sono spesso chiamate a proteggere”.
Per tali motivi, la Corte ha ritenuto il DACA e il relativo atto di rescissione come reviewable e di conseguenza ha ritenuto di doversi pronunciare anche sulla legittimità della rescissione. L’atto cui fare riferimento per definire la questione è il Memo Duke e non anche il successivo Memo Nielsen, poiché, secondo un “principio fondamentale del diritto amministrativo”, il giudizio sull’azione amministrativa deve limitarsi alle ragioni invocate dall’amministrazione al momento in cui l’azione è stata presa (nelle parole della Corte, “an agency must defend its actions based on the reasons it gave when it acted”).
Proprio su tale posizione, sulla quale peraltro il giudice Kavanaugh ha espresso il suo personale dissenso, si è orientata la maggioranza della Corte. I Justices hanno ritenuto infatti di non prendere in considerazione il Memo Nielsen, sulla base della dottrina della inammissibilità della post hoc rationalization. Il Segretario Nielsen non ha provveduto infatti a disporre una nuova rescissione, ma ha semplicemente dato continuità al Memo Duke, confermando che il DACA è illegittimo ed introducendo poi ulteriori ragioni a quelle addotte da Duke che però si riconnettono a quell’atto di rescissione e non formano il motivato di una nuova rescissione. Le nuove motivazioni di Duke non valgono dunque a sanare la tardività del nuovo Memorandum. Il principio di diritto che si riconnette all’inammissibilità della post hoc rationalization è quello della responsabilità dell’amministrazione (“agency accountability”) per il quale dalle azioni adottate dal potere amministrativo ci si deve poter difendere “pienamente” ed “in modo tempestivo”. Risposte “tardive” (rispetto all’avvio del contenzioso) da parte dell’amministrazione possono infatti inficiare “the orderly functioning of the process of review”.
A questo punto, la Corte si sofferma sul contenuto del Memo Duke. In esso si afferma solamente che il DACA sia illegittimo. L’Attorney General Sessions, da parte sua, aveva concluso che l’illegalità del DACA derivasse dal fatto che tale programma presentasse le medesime criticità legali del DAPA, per il quale si era proceduto parimenti con una rescissione. Per individuare tali criticità legali, la Corte si rifà allora alla sentenza del Fifth Circuit, il quale aveva rilevato che, secondo il DHS, l’illegalità del DAPA si fondasse esclusivamente sull’ammissibilità ai benefit, inclusi i permessi di lavoro e l’accesso alla Social Security e al Medicare. Altra questione è invece quella relativa alla protezione dall’espulsione (forbearance of removal) che è rimasta invece del tutto impregiudicata. Nello stesso Memo Duke ci si limitava ad indicare che il DAPA confliggesse con l’INA nella parte relativa ai benefit ma nulla si diceva sulla protezione dall’espulsione.
Secondo la Suprema Corte, l’Acting Secretary avrebbe potuto definire, nel proprio Memorandum, in piena discrezionalità e al di là delle indicazioni dell’Attorney General, le ragioni per ritenere illegittime anche le procedure di protezione dall’espulsione, ma non ha agito in tal senso, concentrandosi solo sui benefit del DACA. Pertanto, considerando che la rescissione del DACA avrebbe rimosso anche la forbearance of removal senza alcuna giustificazione, per la Corte l’atto di rescissione deve ritenersi come arbitrary and capricious. La Suprema Corte sottolinea peraltro che la forbearance sia parte essenziale se non il vero e proprio “core” del DACA, pertanto nel suo ragionamento rifiuta una scissione dei due elementi portanti del programma (ovvero forbearance e benefit).
La Corte conclude poi che nel Memo Duke manchino indicazioni circa gli “interessi collegati” alla rescissione del DACA. Duke ha anzi ritenuto che il DACA non conferisca “nessun diritto sostanziale”, ma solo benefit a scadenza. Il Governo non ha escluso tuttavia l’esistenza di interessi collegati e gli stessi convenuti hanno evidenziato che i beneficiari del DACA hanno nel tempo avviato carriere, imprese, comprato case, contratto matrimoni e avuto figli, definendo così nuove situazioni giuridiche che si vanno a ripercuotere dunque non solo sui beneficiari del DACA. Secondo la Corte, il DHS avrebbe dovuto indicare l’entità di eventuali interessi collegati e provvedere a soppesare gli effetti della rescissione su questi ultimi, individuando ad esempio altri interessi concorrenti determinati dalle nuove politiche di immigrazione. Anche tale omissione è ritenuta dalla Suprema Corte come arbitrary and capricious.
In relazione alla questione della Equal Protection Clause, sollevata dai convenuti ma respinta dalla Corte, il giudice Sotomayor ha messo in luce che in futuro la questione del DACA potrebbe essere rivista proprio sulla base della suddetta clausola costituzionale. In particolare, Sotomayor ritiene che le esternazioni del Presidente Trump sugli immigrati messicani – i maggiori beneficiari del DACA – ritenuti come “animali” responsabili “per la droga, le gang, i cartelli, la tratta di esseri umani e riconducibili alla pandilla MS-13”, non siano estranee alle politiche messe in atto dalla sua amministrazione (al contrario, la maggioranza della Corte ha ritenuto che le esternazioni di Trump non siano correlate al contesto delle azioni poste in essere dalla sua amministrazione).
La sentenza si presta a una doppia chiave di lettura. L’orientamento dei giudici sul thema decidendum si muove limitatamente sul piano procedurale-amministrativo, definendo una soluzione significativa ma non di certo risolutiva per l’intera politica dell’immigrazione. La decisione potrebbe avere comunque alcune ripercussioni su una campagna elettorale presidenziale quanto mai violenta. I giudici della Corte Suprema, come visto, non hanno cassato le politiche di Trump né hanno impedito all’amministrazione di procedere in futuro con la rimozione del DACA. Trump può dunque continuare a battere il ferro sulla questione dell’immigrazione clandestina, compattando così la propria base elettorale, ma col rischio però di creare ulteriori spaccature che potrebbero risultare fatali sul piano nazionale, soprattutto in un momento in cui le divisioni sociali e razziali sembrano essere ingovernabili. Biden può puntare invece sull’infattibilità delle politiche di Trump in materia di immigrazione e ribadire, ancora una volta, l’incompetenza dell’amministrazione Trump, un’incompetenza che la Corte Suprema ha fatto emergere, questa volta, proprio sul piano della mera conoscenza dei processi amministrativi.