La Corte Suprema britannica tra prorogation e Brexit: una lezione di diritto costituzionale
Con la decisione R (on the application of Miller) (Appellant) v The Prime Minister (Respondent) Cherry and others (Respondents) v Advocate General for Scotland (Appellant) (Scotland) del 24 settembre 2019, la Corte Suprema del Regno Unito ha segnato una tappa fondamentale nel processo della Brexit e al contempo ha posto una vera e propria pietra miliare nel sistema costituzionale britannico. La decisione della Corte si concentra essenzialmente sull’istituto della prorogation e in particolar modo sui limiti costituzionali entro i quali questa può essere legittimamente invocata. Può essere utile tuttavia riassumere le tappe principali della Brexit, questione che la Corte ha espressamente tenuto fuori dal giudizio de quo, ma che è comunque connessa alla richiesta di prorogation di Boris Johnson.
Questi i fatti: il 29 marzo 2017 Theresa May notificava l’intenzione di recesso del Regno Unito dall’UE ai sensi dell’art. 50(2) TFUE. Ai sensi dell’art. 50(3) TFUE, pertanto, i trattati euro-unitari non sarebbero stati più applicati in Regno Unito a partire dal 29 marzo 2019, anche in assenza di un accordo di recesso. Il 25 novembre 2018 il Consiglio europeo approvava un accordo sul recesso che il Regno Unito avrebbe dovuto ratificare entro la fine di marzo. Al 29 marzo 2019 il Regno Unito non aveva ratificato l’accordo, pertanto il 5 aprile presentava all’UE una richiesta di proroga della scadenza ex art. 50(3) TFUE. Con Decisione dell’11 aprile, il Consiglio europeo rinviava la data del recesso al 31 ottobre ma escludeva comunque qualsivoglia riapertura dei negoziati. Il 28 agosto, il nuovo Premier Boris Johnson richiedeva alla Regina la c.d. prorogation della sessione parlamentare a partire da una data compresa tra il 9 e il 12 settembre e sino al 14 ottobre. La mossa del Premier britannico ha avuto l’obiettivo, non tanto velato, di limitare la possibilità per il Parlamento di legiferare contro un’uscita dall’UE senza accordo (no deal). La richiesta di prorogation di Boris Johnson ha aperto pertanto una voragine politico-costituzionale, attirandosi le ire dello Speaker dei Comuni, John Bercow, che ha giudicato la decisione un “oltraggio alla Costituzione”, tenendo anche conto del fatto che il Parlamento si era espresso più volte contro il no deal. La Corte ha anzi messo in rilievo che il Parlamento, dopo la pausa estiva, ha adottato lo European Union (Withdrawal) (No 2) Act 2019, che prevede che il Primo Ministro debba richiedere all’UE una nuova richiesta di proroga di tre mesi dell’art. 50(3) TFUE, spostando la data del recesso al 31 gennaio 2020.
A inizio settembre sono stati avanzati due ricorsi che si sono conclusi però con esiti contrapposti. Nel ricorso Cherry, sollevato presso la Court of Session scozzese, la Inner House ha ritenuto non solo che la questione fosse giustiziabile, ma anche che l’atto con cui si è proceduto per la prorogation fosse illegittimo e quindi nullo e senza effetto. Al contrario, nel ricorso Miller sollevato presso la EWHC, il giudice ha ritenuto inammissibile la questione poiché non implicava nessuna legal question, ma solo una questione di responsabilità politica del governo.
I ricorrenti hanno dunque fatto appello alla Corte Suprema, la quale ha unito i ricorsi riunendosi in un panel di 11 giudici, il numero massimo ammesso nell’Alta Corte. Entrambi i ricorrenti hanno sollevato le medesime domande: 1) è giustiziabile lo advice del Primo Ministro? 2) se è giustiziabile, quali sono gli standard di legittimità giudicabili? 3) lo advice in questione è legittimo? 4) in caso negativo, quali garanzie vi sono contro tale advice?
La Corte ha affrontato tutte le questioni poste dai ricorrenti con metodo maieutico, articolando dialogicamente i propri ragionamenti con una ferrea logica costituzionale. Preliminarmente, la Corte ha specificato che la decisione non avrebbe riguardato in alcun modo la Brexit, ma solo la legittimità dello advice di Johnson. La Corte si interroga dunque su cosa sia la prorogation. Il termine prorogation può essere tradotto come “fine della sessione parlamentare”. Si tenga conto che in Regno Unito i lavori parlamentari sono scanditi da sessioni annuali (ma nulla impedisce che le sessioni possano essere più lunghe, com’è il caso dell’attuale sessione parlamentare, avviata il 21 giugno 2017). Le sessioni hanno inizio con lo State Opening of Parliament, una cerimonia che culmina con un discorso della Regina dinanzi ai Comini e ai Lord sull’agenda politica e legislativa, e si concludono con la c.d. prorogation, ovvero con un periodo di tempo (generalmente di qualche giorno) in cui si interrompono i lavori parlamentari in attesa dell’apertura della nuova sessione. Durante la prorogation nessuna delle due Camere può essere convocata, non vi sono dibattiti, né possono essere adottate leggi. Inoltre, i disegni di legge che non hanno completato il loro iter decadono, salvo eccezioni. Nel corso della prorogation il governo rimane invece in carica ma non può ottenere l’assenso parlamentare per atti che prevedono ulteriori spese. Il Parlamento non può stabilire per sé la prorogation, poiché tale istituto è una prerogativa esercitata dalla Corona tramite Order in Council emesso attraverso il Privy Council. In teoria, il Monarca potrebbe esercitare in persona tale prerogativa ma nella prassi è il governo, nella figura del Primo Ministro, a sollecitare con un advice il Monarca ad esercitare tale prerogativa.
La prorogation deve essere distinta dalla dissolution, atto con cui si pone fine alla Legislatura, e deve essere distinta anche dall’aggiornamento (adjourning) e dalla pausa (recess), che sono stabiliti direttamente dai due rami del Parlamento tramite mozione e che non pongono fine alla sessione parlamentare. Si tenga conto che il periodo di prorogation richiesto da Johnson faceva seguito al recess estivo e si sovrapponeva a una conference recess (pausa per i convegni di partito) prevista ai Comuni dal 14 settembre al 9 ottobre.
La Corte ha messo in chiaro di non avere notizie circa i colloqui intrapresi tra la Regina e il Primo Ministro sulla richiesta di prorogation, pertanto non si è pronunciata nel merito. Gli unici tre documenti relativi alla richiesta di prorogation di cui la Corte ha avuto conoscenza sono stati: 1) un Memorandum del 15 agosto 2019 inviato al Primo Ministro dal Director of Legislative Affairs, Nikki Da Costa, in cui si raccomandava di porre fine alla sessione parlamentare in corso, non solo per l’eccessiva durata della stessa, ma anche per consentire l’avvio di una sessione impostata sul programma della nuova amministrazione Johnson. Si proponeva di stabilire una prorogation tra il 9-12 settembre e il 14 ottobre che avrebbe interrotto così i lavori parlamentari per un periodo di 34 giorni, un tempo inusuale per l’istituto in parola. Nel Memorandum si giustificava la lunga durata della prorogation con il fatto che questa si sarebbe sovrapposta alla conference recess prevista ai Comuni 2) la risposta del Primo Ministro al Memorandum, scritta il giorno seguente, nella quale Johnson dichiarava che non vi era “nulla di scioccante” nella richiesta di prorogation 3) un secondo Memorandum di Da Costa del 23 agosto, in cui si organizzavano i preparativi per formalizzare la richiesta di prorogation.
Venendo alla prima delle questioni sollevate dai ricorrenti, la Corte ha messo in chiaro quattro punti: 1) la prorogation rientra tra le prerogative dell’esecutivo ed è un potere riconosciuto dal diritto comune ed esercitato dalla Corona che può agire motu proprio o su impulso (advice) del Primo Ministro 2) la Corte non può invischiarsi in “questioni politiche” ma ciò non impedisce alla Corte di decidere su questioni legali che emergono anche da controversie politiche. Anzi, la maggior parte delle questioni sottoposte alla Corte sono in qualche modo questioni politiche 3) non è escluso un ruolo della Corte nell’ambito dei rapporti tra il Parlamento e l’esecutivo e ciò per almeno due ragioni: la prima è che l’effetto immediato della prorogation è quello di “disinnescare” la responsabilità dei ministri; la seconda è che le corti hanno il compito di dare effettività alle leggi, indipendentemente dal principio di responsabilità parlamentare. In altre parole, il fatto che un ministro sia “politicamente responsabile” dinanzi al Parlamento non esime quest’ultimo dalla responsabilità “legale” 4) se il caso può essere considerato giustiziabile, la decisione che ne conseguirà, non potrà invalidare il principio della separazione dei poteri, ma piuttosto lo renderà effettivo, proprio perché stabilendo ad esempio l’illegittimità dello advice, la Corte ripristinerebbe le funzioni costituzionali del Parlamento altrimenti impedite dall’esecutivo.
La questione della giustiziabilità pone due ordini di problemi: capire da un lato se esista la prerogativa e quali siano i suoi limiti; dall’altro, capire se l’esercizio di tale prerogativa possa essere giudicato sul piano legale. La Corte ritiene che l’esistenza della prerogativa non sia messa in dubbio. In merito alla seconda problematica, la risposta dipende essenzialmente dalla natura delle questioni legali connesse all’esercizio di tale potere. Pertanto tale questione si lega alla seconda delle questioni avanzate dei rimettenti, relativa agli standard sulla base dei quali deve essere giudicata la legittimità dello advice.
La Corte mette in rilievo che poiché la prerogativa della prorogation non è formalizzata in un atto normativo, è ben difficile determinarne i limiti. Ma poiché la prerogativa è un potere riconosciuto dal diritto comune, essa deve essere compatibile con i principi di legge. Incidendo però su rapporti tra organi costituzionali fondamentali, la prerogativa si inserisce nell’alveo costituzionale ed è pertanto dai principi fondamentali del diritto costituzionale che si possono ricavare i limiti di tale potere.
Nel caso de quo rilevano in particolare due principi di diritto costituzionale, ovvero il principio della sovranità parlamentare e quello della responsabilità dell’esecutivo dinanzi al Parlamento. Nel considerando n. 42, la Corte ritiene che un uso illimitato della prorogation sarebbe incompatibile con il principio della sovranità parlamentare, poiché impedirebbe al Parlamento di esercitare le proprie funzioni costituzionali. La Corte rileva inoltre che il fatto che l’esecutivo in fase di prorogation sia limitato nel suo potere di spesa, non costituisce una valida rassicurazione contro l’uso illimitato della prerogativa in parola. Normalmente, il periodo della prorogation è molto limitato, perciò la sua incidenza sulla capacità del Parlamento di esercitare i propri poteri è ritenuto irrilevante. Lo stesso ragionamento è seguito anche nei confronti del principio costituzionale della responsabilità parlamentare: una prorogation di corta durata sarebbe infatti irrilevante nei confronti di tale principio. Certo è che più lunga è la durata della prorogation, più lungo è il rischio che il governo venga rimpiazzato da un’amministrazione “irresponsabile”. Quando allora si può ritenere che la prorogation attenti ai due principi costituzionali succitati?
Nel considerando n. 50, la Corte ha ritenuto di individuare tale “punto di rottura” nello scrutinio della “giustificazione ragionevole”, stabilendo che una prorogation sarà illegale se avrà l’effetto di prevenire, senza una giustificazione ragionevole, la capacità del Parlamento a svolgere le sue funzioni costituzionali, sia come legislatore che come supervisore dell’esecutivo. La questione dell’individuazione della giustificazione ragionevole diviene pertanto una “questione di fatto” più che di diritto, poiché è nei fatti che dovrà essere valutata la ragionevolezza della giustificazione posta alla base del ricorso alla prerogativa in questione.
Poste tale basi, pertanto, la Corte conclude non solo che la questione sollevata è giustiziabile ma anche che lo advice di Johnson è illegittimo. La Corte non ritiene che la lunga durata della prorogation sia di per sé fattore giustificabile per decretarne l’illegittimità. Una lunga durata sarebbe anzi accettabile in condizioni politiche normali. Ma la Corte sottolinea che la decisione della prorogation è stata presa in un contesto politico “quite exceptional”, ovvero nel corso di una fase di transizione fondamentale che prevede l’uscita del Paese dall’UE il 31 ottobre 2019. Si tratta dunque di una fase politica in cui il Parlamento ha un ruolo fondamentale nelle decisioni da prendere, posto che il referendum sulla Brexit di per sé non è “binding” per il Legisaltore. Sulla questione dell’esistenza di una giustificazione ragionevole tale da rendere legittima la prorogation di Johnson, la Corte risponde che il governo ha certamente una certa discrezionalità nell’esercizio di tale potere, ma tuttavia non si rileva alcun motivo per cui il Primo Ministro abbia deciso di agire in tal guisa. In nessuno dei documenti citati dalla Corte vi è una sola ragione che giustifichi il ricorso alla medesima prorogation. Tutto è focalizzato sulla necessità di procedere con un nuovo discorso della Regina il 14 di ottobre ma alla domanda “perché una prorogation di 5 settimane?” non è possibile ricavare alcuna risposta. Per la Corte, è come se l’esecutivo fosse entrato in Parlamento con un “foglio bianco” che in quanto tale non può avere alcun effetto dal punto di vista legale.
Due considerazioni finali: da un lato, la Corte ha rimesso ancora una volta la Chiesa al centro del villaggio, ovvero ha posto nuovamente la centralità del Parlamento nel sistema costituzionale britannico, ponendo un vero e proprio usbergo contro la ormai ultradecennale traslazione del centro del potere a favore dell’esecutivo, ribadendo dunque l’essenza della democrazia parlamentare, la quale non può che basarsi sul principio della sovranità parlamentare. Dall’altro, la Corte ha messo in rilievo che il caso analizzato è un caso una tantum (“a one off”) ma anche a dispetto dell’unicità del caso, “l’ordinamento britannico è pronto a queste sfide e assicura ai giudici gli strumenti legali per giungere a una soluzione”. Questa flessibilità della Costituzione britannica può essere vista invece come la vera forza del sistema britannico, in grado di poter fornire risposte certe e funzionali senza la camicia di forza di disposizioni normative fisse nel tempo e incapaci di far fronte alle sfide poste nel tempo della costituzione materiale.