La Corte di giustizia non si “svela”: discriminazioni indirette e neutralità religiosa nei luoghi di lavoro. Il cliente (non) ha sempre ragione!
Anche la Corte di giustizia, dunque, è intervenuta sulla questione del velo islamico con due decisioni attese da tempo.
Lo scorso 14 marzo la Grande Sezione si è pronunciata su due rinvii pregiudiziali della Corte di cassazione belga e della Corte di cassazione francese (C-157/15 Achbita v. G4S Secure Solutions NV; C-188/15 Asma Bougnaoui, ADDH v. Micropole SA).
Ai giudici di Lussemburgo è stato chiesto se il divieto di indossare il velo sul luogo di lavoro costituisca una discriminazione ai sensi della direttiva 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
Il rinvio belga riguardava il caso della sig.ra Achbita, receptionist a tempo indeterminato per la G4S, un’impresa privata fornitrice di servizi di ricevimento e accoglienza a clienti sia del settore pubblico sia del settore privato. In seguito alla comunicazione della sig.ra Achbita di voler indossare il velo durante l’orario di lavoro, nonostante una regola non scritta (sic) in virtù della quale i dipendenti dell’azienda non potevano indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose, di fronte alla perdurante volontà della lavoratrice di indossare il velo sul luogo di lavoro, il comitato aziendale della G4S approvava una modifica del regolamento interno, in forza della quale ai dipendenti veniva fatto divieto di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose e/o manifestare qualsiasi connesso rituale. Conseguentemente, la sig.ra Achbita veniva licenziata, ricevendo il pagamento di una indennità di licenziamento pari a tre mensilità di stipendio e dei vantaggi acquisiti in forza del contratto di lavoro.
La Corte belga ha chiesto, quindi, alla Corte di giustizia se l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che il divieto di indossare un velo islamico, derivante da una norma interna di un’impresa privata che vieta in via generale di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, costituisce una discriminazione vietata da tale direttiva.
I giudici di Lussemburgo, dopo aver escluso che una siffatta norma interna costituisca una discriminazione diretta, hanno però precisato che essa può costituire una discriminazione indiretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78, qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, a meno che esso sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, e che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari (corsivi miei).
La verifica di tali circostanze è stata, pertanto, rimessa al giudice nazionale.
Il rinvio pregiudiziale della Cassazione francese derivava, invece, dal caso della sig.ra Bougnaoui, prima tirocinante e poi dipendente a tempo indeterminato in qualità di ingegnere progettista dell’impresa privata Micropole. In seguito alla decisione di indossare sul luogo di lavoro non più una semplice fascia, ma il velo islamico, la lavoratrice veniva convocata dall’azienda in vista di un eventuale licenziamento, essendole in tale occasione comunicato che un cliente, infastidito dalla circostanza che la lavoratrice indossasse il velo, aveva chiesto che non vi fosse in futuro “alcun velo”. La Micropole informava, quindi, la sig.ra Bougnaoui che, quando fosse stata a contatto con i clienti dell’impresa, all’interno o all’esterno della stessa, non avrebbe potuto portare il velo in qualsiasi circostanza, nell’interesse e ai fini dello sviluppo dell’impresa. Di fronte all’indisponibilità della lavoratrice a non indossare il velo davanti ai clienti, la signora Bougnaoui veniva licenziata senza preavviso e senza che le venisse riconosciuta la retribuzione per tale periodo, ritenendo l’azienda che l’impossibilità di proseguire nell’attività lavorativa fosse addebitale unicamente alla lavoratrice.
È stato, dunque, chiesto alla Corte di giustizia se l’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che la volontà di un datore di lavoro di tener conto del desiderio di un cliente che i servizi di detto datore di lavoro non siano più assicurati da una dipendente che indossi il velo islamico costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa ai sensi di tale disposizione.
Sul punto la risposta della Grande Sezione è stata negativa.
Le sentenze si segnalano, innanzitutto, per due ragioni: 1) alla Corte di giustizia è stato possibile addivenire alle due pronunce sul velo islamico, toccando questioni su cui non vi è alcun consenso tra gli Stati Membri, in virtù del fatto che la normativa europea regolamenta l’ipotesi delle discriminazioni religiose sul luogo di lavoro; 2) l’ambito in cui la Corte si è mossa al fine di armonizzare il relativo quadro europeo è quello dei rapporti di lavoro privati e non invece quello dei simboli religiosi nello spazio pubblico, su cui invece vi è ormai l’ampia e ben nota giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Nondimeno, attraverso l’interpretazione della direttiva 2000/78/CE la Corte di giustizia dà l’impressione di essersi proposta un obiettivo ambizioso: offrire ai giudici nazionali gli elementi in base ai quali essi, muovendosi nel perimetro disegnato da Lussemburgo, dovranno d’ora in avanti verificare le finalità e le circostanze in presenza delle quali il divieto di indossare il velo islamico sul luogo di lavoro si pone in contrasto con la direttiva UE.
Ciò che, tuttavia, non convince pienamente è il modo in cui la CGUE ha ritagliato quel perimetro. Intervenendo su questioni in ordine alle quali gli Stati Membri hanno assunto posizioni molto diverse e per cui difficilmente possono rintracciarsi tradizioni costituzionali comuni, la Corte di giustizia è sembrata voler fissare il punto di bilanciamento tra la libertà di coscienza e di religione (art. 10 della Carta dei diritti UE) e la libertà di impresa (art. 16 della Carta dei diritti UE), spingendo però sensibilmente l’ago della bilancia verso la seconda. Peraltro, nel tracciare una linea di equilibrio che propende per gli interessi (e i pregiudizi) del datore di lavoro, la Corte è pervenuta a conclusioni e ha lasciato intravedere soluzioni che si confanno maggiormente alla Francia e al Belgio, ma che paiono conformarsi molto meno agli orientamenti di altri Stati Membri.§
Nell’opinione della Corte (Achbita), difatti, una norma interna dell’impresa, che imponga a tutti i lavoratori, in maniera generale e indiscriminata, una neutralità di abbigliamento, non istituisce una disparità di trattamento e, quindi, una discriminazione direttamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali. Essa non costituisce neppure una discriminazione indiretta, quando sia giustificata da una finalità legittima (come, nel caso, è ritenuta la volontà di mostrare, nei rapporti con i clienti sia pubblici sia privati, una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa) e quando i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.
Il punto dolente è, però, rappresentato sia dalla finalità di perseguire la politica di neutralità sia dall’appropriatezza e dalla necessarietà dei mezzi impiegati per conseguirla. È sul crinale delle relative verifiche che per le lavoratrici di fede musulmana si gioca la partita delle discriminazioni indirette (e il richiamo alla sentenza della Corte EDU del 15 gennaio 2013, Eweida e altri c. Regno Unito, è in tal senso quanto meno fuorviante).
Non può, infatti, escludersi che la politica di neutralità perseguita dall’azienda sia essa stessa il sintomo di una discriminazione indiretta, soprattutto nell’ipotesi in cui tale politica sia accampata dall’azienda sulla base di alquanto elusive “regole non scritte” ovvero quando l’occasione per una “indiscriminata” applicazione delle relative norme interne sia offerta dalla volontà di una lavoratrice di indossare il velo islamico.
Ancor più problematica può ritenersi l’individuazione di criteri sulla cui base possa valutarsi l’appropriatezza e la necessarietà dei mezzi impiegati dal datore di lavoro nel perseguire la politica di neutralità. Tale valutazione non può prescindere dalla considerazione delle soluzioni alternative che l’azienda prospetti alla lavoratrice e dall’effettiva praticabilità e proporzionalità delle stesse. E sembra paradossale che, in assenza di ragioni legate alla salute o alla sicurezza sul lavoro, per la lavoratrice che intenda indossare il velo ed esprimere così la sua appartenenza religiosa l’alternativa al licenziamento possa essere costituita dallo svolgimento di mansioni che non comportino alcun contatto visivo con i clienti!
Del resto, come è stato evidenziato dall’avvocato generale Eleanor Sharpston nelle conclusioni alla causa Bougnaoui, anche in considerazione del fatto che «quando il datore di lavoro stipula un contratto di lavoro con un lavoratore subordinato, non ne compra l’anima», deve valutarsi se «sia possibile raggiungere sulla base di una discussione ragionevole tra il lavoratore e il datore di lavoro, un accordo che contemperi adeguatamente i diritti concorrenti del lavoratore a manifestare la sua religione e del datore di lavoro alla libertà di impresa. Talora, tuttavia, tale accordo potrà non essere raggiunto. In ultima analisi, l’interesse dell’impresa a generare il massimo profitto non dovrebbe prevalere […] sul diritto del lavoratore di manifestare le proprie convinzioni religiose» (corsivi miei).
Suscita, nondimeno, qualche perplessità che la libertà d’impresa sia considerata alla stregua di un diritto concorrente (e quindi alla pari) della libertà religiosa e della libertà di esprimere la propria identità.
Deve, invece, apprezzarsi il fatto che nel caso Achbita la Corte di giustizia non abbia ripreso alcuni passaggi problematici delle conclusioni dell’avvocato generale Juliane Kokott, in particolare là dove non si escludeva a priori che l’articolo 2, paragrafo 5, della direttiva 2000/78 tollerasse una deroga al divieto di discriminazione, al solo fine di tutelare la libertà d’impresa e si proponeva alla Corte di indicare come criteri utili a giudicare il rispetto del principio di proporzionalità le dimensioni e la vistosità del segno religioso. Ciononostante, colpisce che nelle due sentenze (e in special modo nella sentenza Achbita) dall’orizzonte della Corte scompaia del tutto la riflessione sul pluralismo e sulla diversità (anche religiosa) e che la valutazione circa la “vistosità” del simbolo religioso, attraverso il riconoscimento di una fumosa politica di neutralità, sia surrettiziamente messa nelle mani del datore di lavoro e dei suoi clienti.
Il velo islamico, in definitiva, continua a disturbare il sonno di molti europei, ora perché supposto simbolo di oppressione femminile ora perché ostacolo alla libertà d’impresa.