La Corte di giustizia, il primato incondizionato del diritto dell’Unione e il suo mancato bilanciamento col valore della salvaguardia dei principi di struttura degli ordinamenti nazionali nel loro fare “sistema”

(nota minima a Corte giust., Grande Sez., 26 febbraio 2013, in causa C-399/11, Melloni c. Ministerio Fiscal)*

* Ho discusso alcuni passaggi di questa nota con R. Conti ed O. Pollicino, ai quali sono molto grato per l’opportunità offertami di un confronto che mi ha – come sempre – arricchito molto, consentendomi di mettere meglio a fuoco alcuni concetti bisognosi di precisazione; come di consueto, ovviamente, la responsabilità per ciò che è
scritto è solo mia.

 

  1. Pars destruens

 

Particolarmente attesa e subito fatta oggetto di varie e discordanti valutazioni, la Melloni si segnala sotto più aspetti, tutti meritevoli di una speciale attenzione. Non mi addentro ora in una minuta analisi del merito della vicenda, peraltro a tutti nota, per quanto – come si vedrà – proprio qui stia il cuore della questione specificamente riguardata da questo succinto commento. È ad ogni buon conto pressoché certo che è in ragione della “copertura” offerta dal giudice eurounitario alla disciplina che fa salva, sia pure a certe condizioni, i processi in absentia che è stata quindi data risposta al terzo dei quesiti posti in via pregiudiziale dal tribunale costituzionale spagnolo[1], al quale soltanto intendono dedicarsi le notazioni che seguono: una risposta – come si vedrà – monca, che da se medesima si dispone a letture suscettibili di gravi implicazioni ed eventuali, futuri ed inopportuni svolgimenti, nell’insieme inappagante insomma. La qual cosa, invero, ugualmente consiglia – come pure si tenterà di mostrare – una certa prudenza prima di condannare senza appello la decisione stessa, che potrebbe trovarsi anche a breve soggetta – la speranza è questa – a non secondarie precisazioni ed alla sua complessiva messa a punto.

La motivazione, in relazione al profilo al quale qui specificamente si guarda, è assai contenuta e francamente insufficiente, in buona sostanza allineata alle Conclusioni dell’avv. gen. Y. Bot[2]. Perentoria, senza alcuna possibile riserva o condizione, è l’affermazione secondo cui il principio del primato del diritto dell’Unione deve comunque essere preservato, costi quel che costi, quand’anche dunque all’applicazione del diritto stesso possa ostare una contraria disposizione di rango costituzionale (punto 59). La Corte è consapevole – proprio qui è infatti il punctum crucis della questione sollevata dal tribunale remittente – che l’art. 53 della Carta di Nizza-Strasburgo, preso alla lettera, parrebbe configurare come meramente “sussidiario” il ruolo della Carta stessa a salvaguardia dei diritti in rapporto ad una tutela apprestata in ambito interno e giudicata[3] meno “intensa” di quella offerta dall’Unione. La Corte ci dà oggi, tuttavia, una lettura “integrativa” (o, forse meglio, “correttiva”) del disposto in parola, precisando che gli standard di tutela riscontrabili in ambito nazionale non possono, in alcun caso, compromettere “il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione” (punto 60)[4].

Viene, in tal modo, inevitabilmente ad instaurarsi un rapporto di strumentalità necessaria – se si vuole: di gerarchia, culturale e positiva – tra Costituzione nazionale (e, in genere, disciplina normativa interna) e Carta dell’Unione, la prima potendo entrare in campo e farsi valere unicamente quale strumento di attuazione della seconda, non già in via alternativa rispetto a questa. Un’attuazione – si riconosce – che può anche portare all’innalzamento del livello di tutela fissato in ambito sovranazionale[5], ma che – come si vede – deve pur sempre svolgersi lungo un binario (e il verso) tracciato dalla Carta dell’Unione. Le eventuali “addizioni” nella tutela – per riprendere ed adattare al caso nostro una nota immagine forgiata per esperienze processuali nondimeno assai diverse – devono dunque pur sempre risultare, secondo la fortunata immagine crisafulliana, “a rime obbligate” (o, meglio, baciate), senza che possa comunque aversene alcun pregiudizio per l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione.

La Corte stranamente non s’interroga circa l’opportunità (rectius, la necessità) di bilanciare – perlomeno al ricorrere di talune circostanze e pur sempre entro certi limiti di sistema – il principio del primato con altri principi parimenti fondamentali dell’Unione, e segnatamente con quello della osservanza da parte dell’Unione stessa dei principi di struttura degli ordinamenti degli Stati membri (art. 4 del trattato di Lisbona); e si rammenti: di ciascuno degli Stati, non soltanto delle “tradizioni costituzionali” ad essi “comuni”[6]. La qual cosa, poi, invero inquieta non poco, alimentando l’impressione che il bisogno indisponibile di assicurare l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione, al fine di essere come si conviene appagato, non possa arrestarsi davanti ad alcun ostacolo, foss’anche dato dai principi fondamentali di diritto interno (dai c.d. “controlimiti”, come ormai è d’uso chiamarli).

Non viene così presa in considerazione, come invece a mia opinione si sarebbe dovuto, una delle più rilevanti (forse, proprio la più rilevante) delle risorse apprestate dal trattato di Lisbona nell’intento di preservare il difficile, pur sempre precario, equilibrio tra uniformità e differenziazione, su cui invero si fondano e svolgono le relazioni tra Unione e Stati, edificandosi ed incessantemente rinnovandosi, in forme originali, quell’ordine “intercostituzionale” che è proprio dell’Unione, quale istituzione autenticamente ex pluribus una.

L’“europeizzazione” dei “controlimiti” – come la si è altrove chiamata –, frutto dell’accorta e lungimirante intuizione dell’autore del trattato, vede così spenta sul nascere ogni possibilità di esser fatta valere, quanto meno – come si diceva e si preciserà ancora meglio più avanti – di essere fatta oggetto della dovuta attenzione; ed i “controlimiti” stessi restano affidati, in ordine alla loro concreta salvaguardia, esclusivamente alla buona volontà degli operatori di diritto interno ed agli strumenti in quest’ultimo allo scopo disponibili; e si badi: non dei soli giudici costituzionali, come invece comunemente si pensa, ma ancora prima dei giudici comuni, dal momento che se a tutt’oggi essi sono, perlomeno da noi e diversamente da altri ordinamenti come quello ceco[7], rimasti lettera morta, lo si deve proprio ad un tacito patto in tal senso siglato dagli uni e dagli altri giudici, una convenzione o forse pure una consuetudine costituzionale fin qui sistematicamente osservata[8].

La Corte dell’Unione vede le cose dal proprio punto di vista: è naturale che sia così; eppure, ciò non toglie che esso possa rivelarsi parziale e, per ciò stesso, deformante, non tendendo conto dei principi fondamentali dell’Unione nel loro fare “sistema”. Parimenti legittimo, però, è che i giudici nazionali vedano le cose dal loro punto di vista, che può dunque differenziarsi, in maggiore o minore misura, da quello adottato in ambito sovranazionale.

Nessuno dubita che possano esservi scostamenti sensibili, nel modo con cui si risolvono, a questo o quel livello istituzionale e piano di esperienza, le questioni di diritto costituzionale (in senso materiale), e segnatamente le questioni relativi ai diritti costituzionali. Dove però non dovrebbero esservi divergenze, tali da innaturalmente convertire il “dialogo” in un doppio o plurimo monologo tra parlanti lingue diverse[9], è nel metodo. Vedere le cose dal proprio punto di vista non equivale (o non dovrebbe equivalere) a rinunziare in partenza all’idea di poter realizzare una convergenza, se non proprio la piena integrazione, l’immedesimazione, tra gli ordinamenti. Una rinunzia che purtroppo si concreta ogni qual volta si trascura – indebitamente, già alla luce delle indicazioni dell’ordinamento di appartenenza – di prendere in  considerazione le ragioni dell’altro.

In ciascun ordinamento si riscontra l’apertura all’altro, innalzata a vero e proprio principio di struttura delle relazioni interordinamentali. L’Unione dichiara di voler tener conto della CEDU, delle tradizioni comuni, dei principi – come si diceva – dei singoli Stati membri; la CEDU, a sua volta, si apre all’Unione ed agli ordinamenti nazionali, essa pure configurando – come si sa – il proprio ruolo al servizio dei diritti quale “sussidiario” e, per ciò, come recessivo a fronte di una ancòra più avanzata tutela altrove apprestata; le Costituzioni nazionali (segnatamente la nostra), secondo la lettura invalsa in giurisprudenza, dichiarano esse pure di voler essere orientate verso l’alto in vista del loro ottimale, alle condizioni oggettive di contesto, inveramento nell’esperienza.

Insomma, se non si tiene conto del punto di vista altrui, non si tiene nel dovuto conto neppure il proprio, per la elementare ragione che a quello fa rimando questo, per il tramite dei principi di struttura dell’ordinamento di appartenenza. È così, e solo così, che può prendere corpo quel “sistema di sistemi”, frutto di paritaria convergenza di più ordini (ciascuno al proprio interno composito, piace a me dire: tendenzialmente “intercostituzionale”), che è l’orizzonte verso il quale decisamente tendere se si ha cuore la causa dei diritti. Perché è solo con lo sforzo congiunto di tutti, prodotto simultaneamente a più livelli istituzionali, che questo ambizioso, ancorché sempre più problematico (specie nella presente congiuntura segnata da una crisi economica senza precedenti), obiettivo può, sia pure in parte, essere raggiunto. Chiudersi in un insano patriottismo o, peggio, nazionalismo costituzionale, assumendo essere l’ordine di appartenenza l’unico vero sovrano, ogni altro dovendovi prestare incondizionato ossequio, equivale non soltanto a far torto alle ragioni dell’altro ma allo stesso tempo – qui è il punto – negare le proprie, col fatto stesso di mettere da parte proprio quel principio fondante dell’apertura che informa di sé ciascun ordinamento, segnandone ed illuminandone le più salienti esperienze riguardanti i diritti.

 

 

  1. Pars construens

 

In che modo avrebbe dunque dovuto procedere il giudice dell’Unione, volendosi attenere all’indicazione metodica appena enunciata? E ancora: si sarebbe trovato obbligato a rovesciare il verdetto, segnatamente al terzo quesito postogli, ovvero avrebbe potuto ugualmente tenerlo fermo, sia pure attraverso un percorso argomentativo diversamente orientato al piano teorico-ricostruttivo?

Parto dalla coda, dicendo subito che non necessariamente l’esito avrebbe dovuto essere diverso, purché però si fosse prestato rispetto ad una duplice condizione.

La prima.

Il primato del diritto eurounitario e il rispetto delle fondamenta costituzionali di ciascuno Stato membro, di cui al cit. art. 4, sono – è fuor di dubbio – entrambi principi che informano di sé l’ordinamento dell’Unione: per il tramite del primo, quest’ultima manifesta ed esprime nel massimo grado la propria vocazione istituzionale, quale ordinamento appunto che in progress tende verso una crescente integrazione interna e stabilizzazione; per il tramite del secondo, si rende palese la vocazione “pluralista” dell’istituzione stessa, che vuole edificarsi e crescere nello scrupoloso rispetto dell’identità costituzionale di ciascuno degli ordinamenti nazionali da cui risulta composta.

Questa doppia vocazione o, diciamo pure, doppia faccia non è propria della sola Unione ma anche dello Stato, di ciascuno degli Stati che, in piena autodeterminazione, ha deciso di appartenere all’Unione. Perché ogni Stato sa di essere gravato da obblighi, in forza dell’appartenenza stessa, ma anche di non volere e potere abdicare a ciò che ne dà l’essenza, l’identità costituzionale appunto.

Il bilanciamento tra queste due anime di ciascun ordine positivo si pone, dunque, quale il prodotto di uno sforzo costante, un esito naturale e caratterizzante le relazioni interordinamentali[10]. Nella specie, si tratta di un bilanciamento tra due norme sulla normazione, una delle quali peraltro rimanda a norme sostantive dei singoli ordinamenti nazionali[11]. A conti fatti, tuttavia, il bilanciamento investe pur sempre norme di tale ultima specie, dovendosi stabilire dove si appunti la più intensa tutela ai diritti e – come si dirà a momenti – in genere ai beni costituzionali nel loro fare “sistema”. È perciò che – come mi affanno a dire ormai da anni – un bilanciamento… squilibrato, a senso unico, che veda sempre e comunque l’affermazione di questo o quel principio sarebbe una contraddizione insanabile, svilendo questo o quello degli elementi costitutivi della struttura sia dell’Unione che degli stessi Stati e, per ciò stesso, del fisiologico modo di essere dei loro rapporti. Ed è sempre per ciò che, a mio modo di vedere, ragionare, dal punto di vista dello Stato[12], della prevalenza, sempre e comunque, dei “controlimiti” sul diritto dell’Unione sarebbe palesemente erroneo: né più né meno che dire, con la Corte dell’Unione stessa, che il primato del diritto sovranazionale non incontra alcun impedimento in ambito nazionale alla propria incondizionata affermazione.

Il vero è che v’è una coppia assiologica fondamentale, quella risultante dai principi, dalle mutue ed inscindibili implicazioni[13], di eguaglianza e di salvaguardia dei diritti inviolabili dell’uomo (e, ulteriormente risalendo, a mio modo di vedere, dalla dignità della persona umana[14]), alla cui luce va ambientata e risolta ogni questione che dovesse porsi in caso di eventuali conflitti tra le norme di questo o quell’ordinamento, quand’anche appunto ritenute espressive di principi fondamentali. Norme giudicate idonee ad apprestare un’ancòra più adeguato servizio ai valori fondamentali suddetti rispetto a quello che può esser loro offerto da altre norme possono (e devono), perciò, trovare applicazione[15]. La qual cosa – come si vede – porta in conclusione a dire che i “controlimiti” potrebbero alle volte, ma non appunto sempre, aver modo di esser fatti valere, mentre altre volte restare silenti. Ciò che importa è che di un siffatto riscontro non può (non potrebbe…) farsi comunque a meno, salvo a dar spazio a soluzioni apoditticamente affermate (per mero accidente, magari non sbagliate e però prive di solido fondamento ed adeguata argomentazione).

La seconda condizione, dalla prima linearmente discendente, è che, tutti i principi fondamentali trovandosi naturalmente soggetti a reciproco bilanciamento (anche in prospettiva interordinamentale[16]), se ne ha che il canone della tutela più intensa non può riguardare il solo diritto di volta in volta evocato in campo o posto in primo piano sulla scena bensì, appunto, l’intera tavola dei principi di struttura sia del singolo ordinamento dato che di quest’ultimo nelle sue proiezioni interordinamentali. È insomma l’idea di “sistema” che ha da essere preservata e bisognosa di esser sempre fatta valere nelle sue massime espressioni teorico-positive, in ragione del contesto nel quale nelle singole esperienze di vita viene ambientata e se ne ricerca la realizzazione.

La nostra giurisprudenza costituzionale tutto questo lo va ripetendo, di recente persino in modo martellante e – a dirla tutta –, a mio modo di vedere, anche strumentale[17], allo scopo cioè di “smarcarsi” da un pressing delle Corti europee (e, segnatamente, della Corte EDU) in qualche caso divenuto ormai insopportabile[18].

Il ricorso all’idea di “sistema” può, non di rado, comportare il doveroso bilanciamento della pretesa di un singolo, pur se espressiva di un diritto fondamentale, con un interesse della collettività; ed è interessante notare che alle volte entrambi i beni della vita in campo sono riportabili ad uno stesso principio di struttura, quale quello – per ciò che qui specificamente importa – del giusto processo, risolvendosi pertanto in un bilanciamento interno a quest’ultimo.

Questo è quanto appunto si è avuto nel caso nostro, nel quale la richiesta di una possibile ripetizione del processo svolto in absentia è venuta a scontrarsi con l’interesse sotteso al giudicato e riportabile ad esigenze di funzionalità di un processo nel corso del quale, peraltro, certe garanzie soggettive non erano venute meno. E, invero, la Corte dell’Unione ha argomentato la tesi difensiva della disciplina normativa dell’Unione stessa relativa alla esecuzione del mandato d’arresto, facendo in particolare notare come l’imputato avesse volontariamente ed in modo certo rinunziato a comparire nel processo, non risultandone pertanto leso né il diritto di difesa né l’equità del processo stesso, di cui agli artt. 47 e 48 della Carta di Nizza-Strasburgo[19].

Come avvertivo all’inizio di questa nota, non intendo qui affrontare di petto la questione se siffatta argomentazione può dirsi fino in fondo stringente e persuasiva. Il “salto” che tuttavia, a mia opinione, si riscontra nella decisione in esame sta nel non essersi in essa compiuto il doppio passaggio cui si è appena accennato, vale a dire nel non aver la Corte rilevato, in primo luogo, la necessità di conciliare, reciprocamente bilanciandoli, il principio del primato e il principio di cui all’art. 4 del trattato e, in secondo luogo, nel non aver chiarito che la stessa salvaguardia dei principi di struttura degli ordinamenti nazionali va rettamente e compiutamente intesa per il modo con cui essi fanno “sistema”. E, poiché nella specie, a dire del giudice dell’Unione, la soluzione normativa in materia di arresto era (ed è) “ragionevole”, nella sua densa e duplice accezione di conforme al “fatto”, a tutti gli interessi oggetto di regolazione, e rispondente ai valori fondamentali evocati in campo e riguardati nel loro fare “sistema”, piana è pertanto apparsa la conclusione per cui nessun ostacolo si aveva all’affermazione del diritto dell’Unione.

[1] Un opportuno invito ad “una lettura composita dell’intera trama argomentativa espressa dalla Corte” è in R. Conti, alla voce Mandato d’arresto europeo ed esecuzione di una pena irrogata in absentia, in Corr. giur., 4/2013, 8.

[2] … annotate nel mio Alla ricerca del retto significato dell’art. 53 della Carta dei diritti dell’Unione (noterelle a margine delle Conclusioni dell’avv. gen. Y. Bot su una questione d’interpretazione sollevata dal tribunale costituzionale spagnolo), in www.diritticomparati.it, 5 ottobre 2012, e pure ivi un commento di G. Repetto.

[3] … non si è ben capito da chi ed in che modo. Se, infatti, per un verso, è pacifico che spetti all’Unione (e, per essa, alla sua Corte) far luogo ad una raffronto delle tutele, rispettivamente assicurate in ambito sovranazionale ed in ambito nazionale, per un altro verso neppure può escludersi che esso possa aversi anche in tale ultimo ambito e ad opera di plurimi operatori (non si dimentichi che molte questioni di “comunitarietà” sono omisso medio risolte dai giudici comuni, mentre per altre si rende necessaria la chiamata in campo del giudice delle leggi, senza peraltro scartare l’eventualità del ricorso allo stesso giudice dell’Unione in via pregiudiziale). E, poiché gli esiti del raffronto in parola possono non coincidere, in ragione del diverso punto di vista adottato da questo o quel giudice, è altresì da mettere in conto l’ipotesi del conflitto che, laddove investa le Corti “costituzionali” (in senso materiale, siccome riferito altresì alle Corti europee che – come si è fatto notare da una sensibile dottrina – in modo crescente vanno appunto assumendo siffatta connotazione), si rivela essere assai problematicamente risolvibile, senza la spontanea convergenza o, diciamo pure, l’onorevole accomodamento della questione, in spirito di “leale collaborazione”, da parte degli stessi protagonisti di queste vicende.

[4] Si faccia caso al fatto che, al tempo stesso in cui si enuncia il primato del diritto dell’Unione, si ha quello stesso della Corte, competente a darne l’“autentica” e definitiva interpretazione, rispetto a quello che potrebbe aversene ad opera degli operatori di diritto interno (e, segnatamente, dei tribunali costituzionali). Su ciò, invero, molto potrebbe dirsi (e molto è già stato detto), precisando e correggendo in non secondaria misura il giudizio che la Corte dell’Unione dà di se stessa e dell’ordinamento di appartenenza.

[5] Torna qui ad affacciarsi la vexata quaestio, cui si è appena fatto cenno, relativa al parametro della “intensità” della tutela ed al modo complessivo del suo accertamento.

[6] Un implicito riferimento alle tradizioni in parola può forse vedersi nell’affermazione fatta nella decisione in esame, in merito al “consenso raggiunto dagli Stati membri nel loro insieme a proposito della portata da attribuire, secondo il diritto dell’Unione, ai diritti processuali di cui godono le persone condannate in absentia raggiunte da un mandato d’arresto europeo” (punto 62). È vero che il consenso in parola è frutto di un deliberato politico in tal senso espresso dagli Stati, che tuttavia potrebbe qualificarsi come quodammodo esplicitativo ovvero attuativo di principi costituzionali idonei a darvi fondamento; quanto meno, questo può, con una certa, buona volontà, forse considerarsi l’avviso della Corte.

[7] … su di che, ora, O. Pollicino, Qualcosa è cambiato? La recente giurisprudenza delle Corti costituzionali dell’est vis-à-vis il processo di integrazione europea, in Dir. Un. Eur., 4/2012, 765 ss.

[8] Sul punto, di recente e tra gli altri, M. Bignami, I controlimiti nelle mani dei giudici comuni, in www.forumcostituzionale.it, 16 ottobre 2012, e G. Martinico, Lo spirito polemico del diritto europeo. Studio sulle ambizioni costituzionali dell’Unione, Roma 2011; con specifica attenzione alle prospettive al riguardo aperte dal trattato di Lisbona, v., inoltre, S. Gambino, Identità costituzionali nazionali e primauté eurounitaria, in Quad. cost., 3/2012, 533 ss.

[9] La più accorta dottrina da tempo avverte di questo rischio, tanto sul versante dei rapporti, cui solo ora si guarda, con la Corte dell’Unione, quanto su quello dei rapporti con la Corte EDU.

[10] L’ipotesi del conflitto (e della sua conseguente soluzione mediante la tecnica del bilanciamento) parrebbe essere in radice esclusa a stare all’idea, argomentata già al momento della redazione del principio di cui all’art. 4, originariamente – come si sa – presente nell’art. 5 della Costituzione europea, secondo cui esso afferirebbe al riparto delle competenze tra Unione e Stati, ponendosi pertanto quale un prius logico-giuridico rispetto alle possibili applicazione del principio del primato (su ciò, ora, part. l’ampio saggio di B. Guastaferro, Beyond the Exceptionalism of Constitutional Conflicts: The Ordinary Functions of the Identity Clause, in Yearbook of European Law, 1/2012, 263 ss.). Un esito ricostruttivo, questo, invero suggestivo, al cui accoglimento tuttavia sembra ostare, per un verso, la circostanza per cui, così inteso, il principio in parola risulterebbe sostanzialmente ripetitivo delle norme del trattato specificamente riguardanti il riparto delle competenze tra Unione e Stati, nel mentre, per un altro verso, si farebbe torto alla lettera del disposto di cui all’art. 4, che parrebbe presupporre il riparto stesso, aggiungendo a quali limiti di sistema soggiacciono gli atti dell’Unione laddove ricadenti negli ambiti materiali di loro spettanza.

Tutto ciò posto, convengo che la lettura aprioristicamente conciliante porti acqua al mulino della Corte europea, cui sta a cuore che non sia frapposto ostacolo alcuno alla avanzata delle norme euro unitarie ed alla loro incondizionata affermazione in ambito interno.

[11] D’altro canto, che possano darsi casi in cui le metanorme sono obbligate a bilanciarsi con norme sostantive è un dato di frequente riscontro nelle esperienze della giustizia costituzionale, tanto al piano dei rapporti interordinamentali quanto a quello dei rapporti infraordinamentali. Si pensi, ad es., per l’uno, alla nostra giurisprudenza nella parte in cui chiama l’art. 117, I c., a bilanciarsi con altre norme costituzionali, un bilanciamento che – dice la Consulta – potrebbe portare a far salve norme di legge ancorché contrarie a CEDU (in realtà, come mi sono sforzato di mostrare altrove, in una congiuntura siffatta, non si dà violazione alcuna della Convenzione e, di riflesso, della Costituzione, dal momento che è la stessa Convenzione a dichiarare di voler valere unicamente laddove si dimostri in grado di servire ancora meglio delle norme interne i diritti). Per l’altro piano, si rammenti la giurisprudenza che, in fatto di rapporti Stato-Regioni, fa salve norme di leggi statali, ancorché invasive di ambiti di competenza regionale, in nome della loro provata attitudine a salvaguardare i diritti e. in ultima istanza, la dignità della persona umana (tra le altre, sentt. nn. 10 e 121 del 2010). Stranamente non ammesso, invece, il caso inverso, di norme regionali anticipatrici di una disciplina statale carente e funzionali alla salvaguardia dei diritti (sentt. nn. 373 del 2010 e 325 del 2011).

[12] … e della stessa Unione, ove dovesse farsi luogo ad un insano ordinamento gerarchico per sistema a beneficio del principio di cui all’art. 4 del trattato sul principio del primato (proprio l’opposto di ciò che ha inteso fare la decisione qui annotata).

[13] Su ciò, part., G. Silvestri, Dal potere ai princìpi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari 2009.

[14] … quella dignità cui ha opportunamente fatto riferimento, nella vicenda che ha dato origine alla pronunzia qui annotata, il tribunale spagnolo (a riguardo del modo con cui la dignità è intesa nell’ordinamento spagnolo, riferimenti in A. Oehling de los Reyes, Sobre la evolución jurídica de la noción de dignidad del hombre en España, in Jahrbuch öff. Rechts, 60/2012, 503 ss. e, dello stesso, già, La dignitad de la persona, Madrid 2010).

[15] Non è inopportuno rilevare che ragionare della maggiore ovvero minore tutela offerta ai diritti da questa o quella norma non necessariamente equivale ad ammettere che le norme stesse debbano trovarsi in guerra tra di loro; potrebbe anche darsi che esse si dispongano lungo lo stesso verso, fissando tuttavia la tutela stessa – diciamo così – ad una diversa “altezza”. Ciò non toglie che debba talora (ma, appunto, non sempre) farsi una scelta tra di esse, fermo restando che la soluzione ideale, appagante al massimo grado in ragione del contesto, è quella che consente di fare congiunta applicazione di entrambe le norme, composte ad unità nei fatti interpretativi [su tutto ciò, maggiori ragguagli possono, volendo, aversi dal mio Prospettiva prescrittiva e prospettiva descrittiva nello studio dei rapporti tra Corte costituzionale e Corte EDU (oscillazioni e aporie di una costruzione giurisprudenziale e modi del suo possibile rifacimento, al servizio dei diritti fondamentali), in www.rivistaaic.it, 3/2012, spec. al § 3].

[16] Si è poi tentato in altra sede di mostrare che i bilanciamenti interordinamentali si risolvono pur sempre in un bilanciamento interno al singolo ordinamento preso in considerazione, in virtù del principio dell’apertura che ciascuno di essi fa all’altro (o agli altri).

[17] … a puntello, cioè, di una certa soluzione di merito, altrimenti problematicamente argomentabile (riferimenti al “sistema” possono, ancora di recente, vedersi, tra le altre, in Corte cost. n. 264 del 2012 e 1 del 2013).

[18] Per la verità, non pochi distinguo dovrebbero al riguardo farsi, non soltanto tra le due Corti europee nei loro rapporti con le Corti nazionali ma anche, con riguardo ad una stessa Corte, in ragione della sua evoluzione nel tempo (con specifico riferimento alla Corte EDU, una sensibile dottrina si è persino spinta a ragionare, in più scritti, della sua “aggressività” nei confronti dei giudici nazionali: O. Pollicino, Corti europee e allargamento dell’Europa: evoluzioni giurisprudenziali e riflessi ordinamentali, in Dir. Un. Eur., 2009, 1 ss., e spec. in Allargamento ad est dello spazio giuridico europeo e rapporto tra Corti costituzionali e Corti europee. Verso una teoria generale dell’impatto interordinamentale del diritto sovranazionale?, Milano 2010).

[19] Ad ulteriore rinforzo del suo ragionamento, la Corte si premura di rilevare come l’interpretazione da essa fatta propria degli artt. citt. della Carta risulti conforme all’art. 6, parr. 1 e 3, della CEDU per come inteso dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo: quasi a voler significare che ogni diverso esito della vicenda avrebbe potuto comportare ovvero certamente comporterebbe una violazione della Convenzione.

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