La Corte costituzionale corregge la riforma Fornero sull’articolo 18 (con uno sguardo al Jobs Act?)
Dopo più di un mese dalla camera di consiglio, cui era seguito il comunicato stampa del 24 febbraio 2021, la Corte ha depositato la sentenza n. 59 del 2021 che ha rilevato una illegittimità costituzionale parziale del co. 7° dell’articolo 18 della l. n. 300 del 1970 (cd. Statuto dei lavoratori), come modificato dalla cd. legge Fornero (n. 92 del 2012). La questione, affrontata in via incidentale, è stata portata all’attenzione dei giudici della Consulta con l’ord. del 7 febbraio 2020 del Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, il quale dubitava della costituzionalità della norma nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, possa – e non debba – disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
Le vicende processuali prendevano il via dall’opposizione del datore di lavoro all’ordinanza con cui il giudice aveva disposto la reintegra del lavoratore per manifesta insussistenza del fatto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La successiva scelta del lavoratore in favore dell’indennità sostitutiva, nell’opinione del giudice rimettente, accolta dalla Corte, non scalfirebbe la rilevanza del giudizio incidentale di costituzionalità, in quanto l’applicazione della citata norma appare caratterizzante la natura della tutela apprestata (reintegratoria, pur sostituita da indennità, o meramente indennitaria, ex art. 18, co. 3, St. lav.).
La decisione della Corte costituzionale interviene in una questione che molto aveva impegnato dottrina e giurisprudenza. Già tra i primi commentatori si era rilevata come problematica la discrezionalità del giudice in ordine alla scelta tra tutela reale o risarcitoria. Infatti, mentre il comma 4° dell’art. 18 prevede l’automatismo della reintegrazione nei casi dell’insussistenza del fatto, per quanto concerne i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo o giusta causa («annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione»), il comma 7° affida al giudice la mera possibilità di apprestare la tutela reale alle ipotesi della manifesta insussistenza del fatto alla base del motivo oggettivo («può altresì applicare…»), senza dotarlo di alcun riferimento ermeneutico sul quale basare la propria scelta.
La dottrina maggioritaria aveva sin dal principio ritenuto che l’espressione «può» dovesse interpretarsi nel senso di «deve», ponendosi questa come l’unica interpretazione costituzionalmente legittima in applicazione del principio di certezza del diritto (Maresca, Vallebona, Carinci). Interpretazione avallata dalle prime pronunce della Suprema Corte, la quale aveva affermato che la «giuridica inesistenza del fatto obiettivo presupposto (a base del licenziamento), valutate altresì le circostanze del caso concreto, esclude che la scelta sia rimessa alla discrezionalità del giudice» (Cass. 14 luglio 2017, n. 17528). In seguito, tuttavia, la stessa Corte di cassazione aveva modificato il proprio orientamento, individuando nel principio civilistico dell’eccessiva onerosità – ex art. 2058 c.c. – il criterio ermeneutico determinante per la decisione del giudice, escludendo, di conseguenza, la tutela reintegratoria nel momento in cui essa «sia, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall’impresa» (Cass. 2 maggio 2018, n. 10435), orientamento affermatosi poi come maggioritario, al di là di alcuni ripensamenti (es. Cass. 13 marzo 2019, n. 7167; in senso conforme Cass. 31 gennaio 2019, n. 2930, Cass. 3 febbraio 2020, n. 2366).
A tal proposito, il giudice a quo argomenta in favore di quest’ultimo orientamento, sostenendo come l’interpretazione costituzionalmente orientata (che legge il «può» come un «deve») finisca per risolversi in «una interpretazione chiaramente abrogatrice di un chiaro precetto normativo», in contrasto con il sindacato accentrato di costituzionalità. In tal modo il giudice rimettente supera i paletti dell’ammissibilità della questione (l’obbligo di interpretazione conforme), ritenendo giuridicamente impercorribile la via dell’interpretazione adeguatrice. Tale interpretazione, come sosterrà la Consulta, sarebbe in contrasto, oltre che con il dato testuale, anche con la ratio legis desumibile dalla lettura dei lavori parlamentari, in cui la «disarmonia» tra le situazioni giuridiche in oggetto è apparsa ben chiara al legislatore.
Con riferimento al merito della questione, l’ordinanza del giudice a quo solleva dubbi di legittimità costituzionale con riferimento a diversi parametri: dapprima per un contrasto con l’art. 3, primo comma, in quanto la differenza di tutela esperibile dal giudice sarebbe «determinata dalla mera, insindacabile e libera scelta del datore di lavoro di qualificare in un modo o nell’altro l’atto esplosivo dallo stesso adottato e rivelatosi poi del tutto pretestuoso». Altro parametro costituzionale richiamato dal rimettente è l’art. 41, primo comma, in quanto la norma in oggetto doterebbe il giudice di poteri para-imprenditoriali, violando in questo modo la libertà di iniziativa economica. Quanto rilevato in merito al principio di eguaglianza ex art. 3 confliggerebbe infine anche con i diritti di azione e difesa del lavoratore, nonché con i principi del giusto processo (artt. 24 e 111 Cost).
La Corte costituzionale ha invero ritenuto sufficienti – e quindi assorbenti gli ulteriori profili, della cui sostenibilità, con riferimento soprattutto all’art. 41 è possibile, a parere di chi scrive, dubitare – i motivi riguardanti la violazione dei principi ricavabili dall’art. 3 Cost. Innanzitutto, la Corte effettua una disamina della propria giurisprudenza evidenziando come, sulla base dei principi costituzionali del diritto al lavoro (art. 4, primo comma) e della tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35), la stessa abbia da tempo fondato l’esigenza di circondare di «doverose garanzie» e di «opportuni temperamenti» le fattispecie del licenziamento, tali da evitare che il lavoratore possa essere «estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente».
Tali garanzie, tuttavia, per quanto costituzionalmente obbligate, sarebbero riconducibili «nell’alveo delle valutazioni discrezionali del legislatore, quanto alla scelta dei tempi e dei modi della tutela […] anche in ragione della diversa gravità dei vizi e di altri elementi oggettivamente apprezzabili». La Corte ha poi ribadito come la reintegrazione non rappresenti «l’unico possibile paradigma attuativo dei principi costituzionali», potendo la tutela esplicarsi in una pluralità di rimedi parimenti idonei. Ciò detto, tuttavia, i giudici costituzionali hanno ribadito che, nell’apprestare le garanzie necessarie a tutelare la persona del lavoratore, il legislatore, pur nell’ampio margine di apprezzamento che gli compete, sia vincolato al rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza desumibili dall’art. 3. Ed è proprio sulla scorta di tali parametri che la Corte riscontra problematicità nella normativa impugnata: il carattere meramente facoltativo della reintegrazione rivelerebbe infatti una disarmonia interna al peculiare sistema delineato dalla legge n. 92 del 2012, lesiva del principio di eguaglianza.
Non sarebbe infatti giustificabile, secondo la Consulta, una diversificazione quanto alla obbligatorietà o facoltatività della reintegrazione, una volta che si reputi l’insussistenza del fatto meritevole, in base alla valutazione del legislatore, del rimedio della reintegrazione. Tenendo poi conto che per il licenziamento economico è richiesto «finanche il più pregnante presupposto dell’insussistenza manifesta», la facoltatività della tutela reale per i soli licenziamenti economici sarebbe a maggior ragione priva «di una ragione giustificatrice plausibile».
Sarebbe poi «sprovvisto di un fondamento razionale» anche il menzionato orientamento giurisprudenziale legato alla valutazione sull’ eccessiva onerosità: i licenziamenti economici, secondo la Corte, «incidono sull’organizzazione dell’impresa al pari di quelli disciplinari e, non meno di questi, coinvolgono la persona e la dignità del lavoratore». Il criterio dell’eccessiva onerosità non sarebbe poi in grado di evitare quella «irragionevolezza intrinseca» caratterizzante la norma, dovuta alla totale mancanza di criteri applicativi idonei ad orientare il giudice, provocando «ulteriori e ingiustificate disparità di trattamento». Tale criterio, inteso come «incompatibilità con la struttura organizzativa nel frattempo assunta dall’impresa», appare configurarsi «indeterminato e improprio», poiché, da un lato, legato all’attività dell’autore dell’illecito e, dall’altro, anche «privo di ogni attinenza con il disvalore del licenziamento» e con gli altri elementi suscettibili di valutazione da parte del giudice, essendo lo stesso provocato da accadimenti successivi causalmente slegati.
È da notare come la Corte non connoti negativamente la discrezionalità del giudice di per sé, bensì solamente in quanto scollegata da «puntuali e molteplici criteri desumibili dall’ordinamento» e non orientata all’adattamento della tutela alle specificità del caso concreto (cfr. sentt. n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020, in cui è stata valorizzata la discrezionalità del giudice, prima imbrigliata entro limiti risarcitori obbligati).
La sentenza in commento appare particolarmente significativa nella parte in cui afferma che i licenziamenti economici «incidono sull’organizzazione dell’impresa al pari di quelli disciplinari e, non meno di questi, coinvolgono la persona e la dignità del lavoratore». Di conseguenza, sembrano non potersi più sostenere quelle tesi che giustificano una differenziazione di tutele tra l’illegittimità del licenziamento disciplinare, da una parte, ed economico, dall’altra, sulla base della ragione per cui solo il primo coinvolgerebbe direttamente «la dignità della persona del lavoratore» (Pisani). Invero, una conclusione simile potrebbe aprire la strada a dubbi di costituzionalità che investono la disciplina dei licenziamenti contenuta nel d.lgs. n. 23/2015 e, in particolare, nel suo art. 3, in cui la differenza dei regimi sanzionatori è ancora più marcata (che, come noto, disciplina le assunzioni a decorrere dal 7 marzo 2015).