La Corte costituzionale amplia ulteriormente l’area della reintegrazione nei casi di licenziamento per motivo oggettivo (sent. 128/2024) e soggettivo (sent. 129/2024) illegittimo
1. Con due sentenze pubblicate nello stesso giorno (il 17 luglio 2024), la Corte costituzionale ha arricchito la già consistente giurisprudenza sulle sanzioni avverso i licenziamenti illegittimi. I precedenti sono tanti e talmente variegati da rendere poco utile una ricognizione complessiva. Basti evidenziare che il susseguirsi degli orientamenti giurisprudenziali ha completamente mutato il volto delle norme dell’art. 18 St. lav. (applicabile ai lavoratori assunti fino al 7 marzo 2015) e del d.lgs. n. 23 del 2015 (applicabile ai lavoratori assunti dopo). L’esistenza di due discipline non molto diverse tra loro (cfr. Corte cost. n. 44 del 2024) assume ora più che mai i tratti di un’inutile duplicazione. Anche in ragione di ciò si spiega il dibattito dottrinale circa l’unificazione della disciplina delle sanzioni contro i licenziamenti illegittimi (L. Zoppoli 2022; Ballestrero 2023); nonché la proposta di referendum recentemente presentata dalla CGIL, con l’obiettivo di abrogare in toto il d.lgs. n. 23 del 2015 e di tornare all’applicazione, per tutti i lavoratori, dell’art. 18 St. lav., per come modificato dalla l. n. 92 del 2012 (c.d. riforma Fornero).
2. La sentenza n. 128 del 2024 ha deciso alcune questioni di legittimità costituzionale sull’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015.
La norma regola la distribuzione delle sanzioni avverso i licenziamenti illegittimi, prevedendo, al comma 1, che all’accertamento giudiziale dell’insussistenza del giustificato motivo oggettivo o soggettivo consegua il pagamento di un’indennità da parte del datore di lavoro. Il comma 2 applica invece la sanzione della reintegrazione nell’ipotesi in cui il fatto posto a base di un licenziamento per motivo soggettivo sia insussistente, ma non anche qualora lo sia il fatto posto a base di un licenziamento per motivo oggettivo. Un licenziamento per motivo oggettivo basato su un fatto insussistente è quindi sanzionato solo con la tutela indennitaria.
L’esclusione della tutela reintegratoria in quest’ultimo caso ha portato il giudice a quo a dubitare della legittimità costituzionale della norma, nella parte in cui tale tutela non è prevista. In particolare, il rimettente censurava l’applicazione di due sanzioni differenti nei casi di accertamento dell’insussistenza del motivo oggettivo e del motivo soggettivo o della giusta causa. Il diverso trattamento delle due ipotesi sarebbe stato «ingiustamente discriminatorio» a fronte di due fenomeni identici, e per questo incompatibile con i principi di ragionevolezza e uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.
Inoltre, l’esclusione della tutela reintegratoria sarebbe stata anche in contrasto con gli artt. 4 e 35 Cost., alla base del principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro, poiché la norma rimetterebbe la scelta della tutela applicabile alla qualificazione del licenziamento da parte del datore di lavoro. Si riteneva infatti che il datore di lavoro avrebbe potuto, in modo opportunistico, optare per la qualificazione del licenziamento quale licenziamento per motivo oggettivo, in modo da escludere ab imis la possibilità di incorrere nella sanzione della reintegrazione.
Il giudice rimettente ha dubitato, inoltre, anche dell’idoneità della tutela indennitaria in sé a ristorare un pregiudizio talmente grave quale quello che deriva da un licenziamento illegittimo per motivo insussistente, prospettando l’illegittimità costituzionale della norma in relazione agli artt. 1, 2, 3, commi 1 e 2, 4, comma 1, 35, comma 1 e 41, commi 1 e 2. La tutela indennitaria sarebbe stata anche, secondo il rimettente, non adeguatamente dissuasiva, secondo i canoni attraverso i quali è stato interpretato l’art. 24 della Carta Sociale Europea, motivo per il quale la norma censurata sarebbe stata anche incompatibile con l’art 117 Cost. (cfr. sent. n. 194 del 2018).
Infine, il rimettente rileva altre possibili discriminazioni, in contrasto con l’art. 3 Cost., da una parte nell’applicazione, ai lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, di una disciplina diversa rispetto a quelli assunti precedentemente; dall’altra, nel «trattamento ingiustificatamente deteriore» riservato al creditore lavoratore subordinato rispetto al creditore “generale”.
3. Le censure del giudice a quo sono state molteplici e, seppur apparentemente omogenee, sono fondate su argomenti tra loro molto diversi. Per questo motivo, non convince del tutto la scelta della Corte di trattare le questioni in modo sostanzialmente unitario, nei fatti soffermandosi su alcune e trascurando del tutto altre (si pensi, ad esempio, alla questione relativa al trattamento differenziato dei crediti, non toccata nelle motivazioni).
La Corte ha ritenuto le questioni fondate «in riferimento ai parametri di cui agli artt. 3, 4 e 35 Cost.», dichiarando incostituzionale l’art. 3, comma 2 del d.lgs. n. 23 del 2015 nella parte in cui non prevede che si applichi la reintegrazione anche nei casi in cui il licenziamento sia dichiarato illegittimo per insussistenza del fatto oggettivo posto a base.
Dopo aver ripercorso in modo esteso l’evoluzione della disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi, la Corte si è concentrata sulla illogicità dell’irrilevanza, ai fini dell’applicazione della tutela reintegratoria, dell’insussistenza del fatto posto a base del giustificato motivo oggettivo. Tale illogicità deriverebbe dalla comparazione con la disciplina del licenziamento per motivo soggettivo illegittimo, che prevede, al contrario, la reintegrazione nei casi in cui il fatto posto a base sia insussistente. La nozione di fatto insussistente deve, secondo la Corte, considerarsi “neutra”, e cioè identica, tanto che il fatto sia alla base di un motivo oggettivo, quanto che sia alla base di un motivo soggettivo.
Un simile iter argomentativo, basato sulla comparazione tra le discipline delle diverse fattispecie, ha riguardato la disciplina dell’art. 18 St. lav. per come modificato dalla l. n. 92 del 2012, nella quale erano previste delle differenze, pur minori, nel trattamento sanzionatorio del licenziamento illegittimo per insussistenza del fatto posto a base del motivo, a seconda che questo fosse oggettivo o soggettivo. Tali differenze sono state superate con due recenti pronunce di illegittimità costituzionale (sent. n. 59 del 2021; sent. 125 del 2022).
Infine, la Corte ha fatto leva sull’altro argomento “forte” segnalato dal giudice rimettente. È stata infatti accolta in toto, in due separati punti della sentenza (nn. 13 e 15), la tesi per cui la norma consentirebbe al datore di lavoro di “eludere” l’applicazione della tutela reintegratoria attraverso la qualificazione dell’atto come licenziamento per motivo oggettivo. In particolare, si arriva ad affermare che il licenziamento per motivo insussistente intimato con questo scopo sia «nella sostanza, un licenziamento pretestuoso (senza causa), che si colloca a confine con il licenziamento discriminatorio». L’accostamento, invero, non appare pienamente condivisibile, in quanto la ragione discriminatoria attiene ai motivi, mentre il licenziamento privo di fatto posto a base, pure se qualificato in modo opportunistico dal datore di lavoro, è un licenziamento ingiustificato che non condivide il vizio di motivazione proprio, appunto, del licenziamento discriminatorio o del licenziamento ritorsivo.
Da ultimo, la Corte ha ritenuto opportuno precisare le conseguenze della dichiarazione di illegittimità con riferimento al caso specifico in cui il licenziamento sia dichiarato illegittimo per mancato assolvimento dell’obbligo di repêchage. Tale obbligo, di matrice giurisprudenziale, consiste nel dover valutare, prima di giungere al licenziamento, l’alternativa di adibire il lavoratore a mansioni “libere” diverse (v., anche per una ricostruzione storica, Ferraresi 2022; Villa 2020). Qualora venga provato che tale adibizione era possibile, il licenziamento è dichiarato illegittimo.
La collocazione sistematica dell’obbligo di repêchage nell’ambito della fattispecie del giustificato motivo oggettivo è da tempo oggetto di dibattito. In particolare, atteso che sono individuabili quali elementi della fattispecie il fatto posto a base del licenziamento e il nesso causale tra questo fatto e il licenziamento stesso, ci si domanda se l’obbligo di repêchage attenga a uno di questi due elementi o se sia un terzo elemento, interno o esterno alla fattispecie (Maresca 2017; Romei 2017).
Per quel che interessa ai fini di questo commento, è necessario chiarire se l’obbligo di repêchage possa considerarsi o no un elemento del fatto posto a base del licenziamento. La Corte, propendendo per la soluzione negativa, ha conseguentemente escluso che la violazione dell’obbligo possa integrare un’ipotesi di insussistenza del fatto. Quindi, qualora a essere violato sia solamente l’obbligo di repêchage, alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento non conseguirà l’applicazione della tutela reintegratoria.
4. Anche la sentenza n. 129 del 2024 ha riguardato l’art. 3, comma 2 del d.lgs. n. 23 del 2015, ma nella parte in cui la norma disciplina le conseguenze sanzionatorie del licenziamento per motivo soggettivo illegittimo.
La sentenza è interpretativa di rigetto poiché, pur rigettando, appunto, le questioni di legittimità proposte, precisa i limiti entro i quali la norma deve essere interpretata affinché sia conforme alle norme costituzionali.
La questione sottoposta dal giudice a quo riguardava il fatto che la disposizione non prevedesse, tra le ipotesi di licenziamento ingiustificato cui si applica la reintegrazione, il caso in cui l’inadempimento contestato al lavoratore non rientrasse tra quelli punibili, ai sensi del contratto collettivo, con la sanzione del licenziamento. È infatti usuale che i contratti collettivi tipizzino le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni.
La valutazione di illegittimità del giudice rimettente ha riguardato diverse norme parametro (artt. 2, 3, 4, 21, 24, 35, 36, 39, 40, 41 Cost.). La maggior parte delle questioni è stata giudicata radicalmente infondata, sulla base della nota posizione della Corte costituzionale per la quale la reintegrazione non costituirebbe l’unico rimedio possibile al licenziamento illegittimo (cfr. sent. n. 7 del 2024; sent. n. 46 del 2000). L’attuale sistema di distribuzione delle tutele sarebbe quindi equilibrato e adeguatamente dissuasivo. Non potrebbe incidere su questa complessiva valutazione la mancata previsione della reintegrazione nel caso di specie.
Tra le questioni proposte, soltanto una, secondo i giudici, presentava «profili di particolarità» tali da giustificare riflessioni ulteriori. Si tratta della questione sollevata in relazione all’art. 39 Cost., ove sancisce il principio di libertà sindacale. Affinché la norma di cui all’art. 3, comma 2, nella parte in cui non prevede la reintegrazione per il caso in analisi, sia compatibile con tale principio, è necessario adottarne, secondo la Corte, un’interpretazione adeguatrice, con gli effetti che da questo tipo di interpretazione derivano (cfr., da ultimo, la richiamata sent. n. 96 del 2024).
In particolare, la norma dovrebbe essere interpretata nel senso in cui l’applicazione della sola tutela indennitaria non concerne i casi in cui a un inadempimento debba conseguire, secondo le previsioni del contratto collettivo, una sanzione conservativa. Ciò in quanto la sussistenza di un fatto per cui non è prevista la sanzione del licenziamento equivarrebbe alla radicale insussistenza del fatto, poiché questo è inidoneo a essere posto a base, appunto, del licenziamento. Per questo motivo, le fattispecie devono essere equiparate, con conseguente applicazione, anche nel primo caso, della tutela reintegratoria nella forma attenuata. Tale interpretazione adeguatrice è stata fondata sull’art. 39 Cost., in quanto, secondo la Corte, prevedere la sola sanzione indennitaria per la fattispecie oggetto di giudizio lederebbe il tradizionale ruolo delle parti sociali «nella predeterminazione dei canoni di gravità di specifiche condotte disciplinarmente rilevanti».
La scelta della Corte di fondare l’opzione interpretativa sul solo art. 39 Cost. sconta la debolezza e la scarsa autonomia sistematica dell’argomento. Non è facilmente intuibile, infatti, come la previsione della sola tutela indennitaria, di per sé identificata come potenzialmente adeguata dalla stessa Corte, possa indebolire le prerogative sindacali a tal punto da essere in contrasto con l’art. 39 Cost. Piuttosto, se si ritiene che il fatto non previsto dal contratto collettivo come inadempimento punibile con sanzione conservativa sia equivalente al fatto non sussistente, allora si sarebbe potuto rilevare un contrasto con l’art. 3 Cost., per irragionevolezza del differente trattamento applicato nelle due diverse ipotesi.