La Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli interviene nell’ambito dell’affare libico. Il principio di complementarità per la prima volta applicato nei rapporti fra Corte e Commissione africana

Il continente africano si è dotato di un proprio sistema di protezione dei diritti umani grazie all’adozione, avvenuta il 27 giugno 1981, della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, poi entrata in vigore nel 1986. La Carta istituisce una Commissione africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, composta da 11 commissari, che vi siedono a titolo individuale e a tempo parziale, con il compito di promuovere il rispetto dei diritti umani in Africa ed esaminare i rapporti periodici redatti dagli Stati parte alla Carta. Allo stesso tempo, la Commissione è deputata a ricevere comunicazioni di Stati parte che lamentino una violazione della Carta ad opera di altri Stati parte; anche un individuo, un gruppo di individui o una organizzazione non governativa (ONG) potrebbero rivolgersi alla Commissione, sul modello di quanto accadeva nel sistema europeo di protezione dei diritti dell’uomo antecedente all’entrata in vigore del Protocollo n. XI apposto alla CEDU. Indipendentemente dal fatto che sia chiamata a pronunciarsi su comunicazioni di origine statale o individuale, la Commissione può adottare soltanto rapporti sprovvisti di efficacia vincolante.

Anche per questo motivo è stata favorita la successiva creazione di una Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli il cui mandato, posto a complemento di quello della Commissione, le attribuisce la facoltà di emettere sentenze vincolanti non solo per i ricorsi statali ma anche per i ricorsi presentati da individui o da ONG, a condizione che lo Stato convenuto abbia previamente accettato la competenza della Corte a conoscere di tale seconda tipologia di ricorsi. La Corte è stata istituita grazie al Protocollo di Ouagadougou del 1998, entrato in vigore nel 2004, ed ha iniziato ad operare effettivamente solo a partire dal 2006.

La prima pronuncia emessa dalla Corte africana risale al 15 dicembre 2009 e riguarda il caso Michelot Yogogombaye vs Senegal. Si tratta di una decisione di scarso valore, attraverso la quale la Corte ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione ratione personae, limitandosi a constatare come lo Stato convenuto, il Senegal, non avesse effettuato la dichiarazione volta ad accettare la competenza della Corte a pronunciarsi sui ricorsi individuali. A questa prima pronuncia, recentemente, hanno fatto seguito altre pronunce nelle quali la Corte, oltre a rigettare i ricorsi per le stesse ragioni già addotte nella sua prima decisione, li ha rinviati all’attenzione della Commissione africana, secondo quanto previsto ex articolo 6, paragrafo 3, del Protocollo di Ouagadougou.

In questo contesto, si colloca anche l’ordinanza sulle misure cautelari emessa dalla Corte lo scorso 25 marzo nell’ambito del caso African Commission on Human and Peoples’ Rights vs. Great Socialist People’s Libyan Arab Jamahiriya. A differenza delle altre pronunce, si tratta di una tappa indubbiamente rilevante nell’ambito del processo di sviluppo concreto di quel sistema regionale africano di protezione dei diritti dell’uomo che, finora, per molti aspetti, è esistito soltanto sulla carta.

La Corte è stata adita il 16 marzo 2011 dalla Commissione africana, dopo che quest’ultima aveva ricevuto numerose comunicazioni da parte di organizzazioni non governative, nelle quali si lamentavano ripetute violazioni della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli in conseguenza della violenta repressione messa in atto dal Governo di Tripoli per contenere le proteste popolari contro il regime del colonnello Muammar Gheddafi. La Commissione ha ritenuto opportuno deferire il caso alla Corte dopo aver riconosciuto il carattere massiccio e sistematico delle violazioni compiute dalle forze governative ai danni della popolazione libica, pur non richiedendo espressamente l’adozione di misure cautelari a salvaguardia della popolazione civile. Si può, quindi, dire che la Corte abbia agito autonomamente, probabilmente dopo aver preso atto della gravità della situazione, nel momento in cui ha ordinato unanimemente alla Libia di “immediately refrain from any action that would result in loss of life or violation of physical integrity of persons, which could be a breach of the provisions of the Charter or of other International human rights instrument to which it is a party”, imponendole, altresì, di presentare un report, entro 15 giorni dalla data di notifica dell’ordinanza, circa le azioni esperite per l’implementazione delle misure cautelari.

La facoltà di adottare misure cautelari in caso di estrema gravità e urgenza (sulla base di quanto già previsto anche nell’ambito del sistema interamericano ed europeo) è attribuita alla Corte africana dall’articolo 27, paragrafo 2, del Protocollo istitutivo; ad esso si aggiunge l’articolo 51, paragrafo 1, del regolamento interno, secondo il quale la Corte può anche decidere misure cautelari proprio motu quando ritenga che ciò sia necessario nell’interesse delle parti e quindi soprattutto nel caso in cui si presenti la condizione del c.d. periculum in mora, tipica dei conflitti interni o internazionali. Accanto a queste due norme di carattere sostanziale non si ritrovano però altre norme di carattere procedurale a cui far riferimento per l’adozione di misure cautelari da parte della Corte. Nel caso di specie, dopo aver rilevato prima facie l’esistenza della propria giurisdizione nel merito, la Corte ha semplicemente adottato l’ordinanza in esame inaudita altera parte e senza addurre eccessive motivazioni. Se, da un lato, questo iter procedurale non può essere ritenuto criticabile data la contingenza degli avvenimenti, dall’altro lato, appare evidente come, fornendo motivazioni scarne per la sua ordinanza, la Corte africana si sia comunque discostata dal modello delle decisioni sulle misure cautelari adottate da altre giurisdizioni internazionali in casi analoghi. Tutto ciò, anche se apparentemente irrilevante, potrebbe assumere un certo rilievo nel caso in cui l’adozione di misure cautelari da parte della Corte non dovesse rimanere un fenomeno isolato. Considerato, infatti, il contesto africano e tenuto conto della competenza ratione materiae assai vasta della Corte africana (come dimostrato dal combinato disposto dell’articolo 3, paragrafo 1, e dell’articolo 7, del Protocollo istitutivo, su cui non ci si sofferma in questa sede per ragioni di sintesi), risulta prevedibile un ampio sviluppo delle decisioni circa le misure cautelari nel contesto del sistema africano di protezione dei diritti umani. Alla luce di tale previsione, sarebbe opportuno che la Corte africana si pronunciasse sul carattere vincolante o meno delle misure cautelari da essa ordinate. Così come la Corte internazionale di giustizia e la Corte EDU, la cui giurisprudenza ha sempre manifestato una propensione in senso favorevole all’obbligatorietà, anche la Corte africana dovrebbe pronunciarsi su questo punto sia per evitare che i propri provvedimenti cautelari rimangano inattuati, sia per ovviare (anche se solo in parte) ai tipici problemi di credibilità che ne caratterizzano l’operato.

Al di là delle questioni attinenti alla giustizia cautelare internazionale, un altro aspetto degno di nota dell’ordinanza in esame concerne la possibilità che anche uno Stato che non abbia mai accettato la competenza della Corte africana a conoscere dei ricorsi individuali o di ONG – come la Libia – sia comunque convenuto dinnanzi ad essa a seguito di un tale ricorso. L’articolo 5 del Protocollo di Ouagadougou, dopo aver stabilito, al paragrafo 1, che la Corte africana può essere adita dalla Commissione africana, da uno Stato parte che ha presentato o contro il quale è stata presentata una comunicazione dinanzi alla Commissione africana, da uno Stato parte il cui cittadino sia stato vittima di una violazione dei diritti umani o da una organizzazione intergovernativa africana, afferma, al paragrafo 3, che “[t]he Court may entitle relevant Non Gouvernmental Organizations (NGO,) with observer status before the Commission, and individuals to insistute cases directly before it, in accordance with Article 34 (6) of this Protocol”. Allo stesso tempo, il citato articolo 34, paragrafo 6, prevede che la Corte non possa dichiararsi competente a ricevere casi presentati da individui o ONG avverso uno Stato parte che non abbia effettuato la prevista dichiarazione di accettazione. Ad oggi solo 5 Stati (Burkina Faso, Ghana, Malawi, Mali e Tanzania) hanno effettuato tale dichiarazione, con la conseguenza che la Corte africana non potrebbe pronunciarsi a proposito dei ricorsi presentati da individui o ONG avverso la stragrande maggioranza degli Stati parte.

Tuttavia, la Corte africana potrebbe andare oltre il combinato disposto dell’articolo 5, paragrafo 3, e dell’articolo 34, paragrafo 6, e conoscere, in ogni caso, di ricorsi presentati da individui o ONG grazie al ruolo di “filtro” svolto dalla Commissione africana. Infatti, sulla base del già citato articolo 5, paragrafo 1, del Protocollo di Ouagadougou, e degli articoli 84, paragrafo 2, e 118, paragrafo 3, del suo nuovo regolamento interno, la Commissione africana, potrebbe rimettere una comunicazione individuale ad essa indirizzata presso la Corte africana, affinché quest’ultima possa intervenire con una sentenza vincolante (o con misure provvisorie) al fine di porre termine alle violazioni riscontrate. In questo modo, la Commissione africana, da organo super partes si trasformerebbe in ricorrente presso la Corte africana per conto del ricorrente originario non autorizzato ad adire la Corte africana e contro l’originario Stato convenuto. Quest’ultimo si troverebbe, a sua volta, a dover rispondere davanti alla Corte africana delle proprie azioni compiute in violazione della Carta africana proprio a causa di quello stesso ricorso individuale per il quale non aveva mai autorizzato la Corte africana stessa ad agire.

Sostanzialmente, quanto descritto sopra corrisponde a ciò che è effettivamente accaduto nell’ambito dell’affare libico. Se questo meccanismo, non previsto esplicitamente dal Protocollo di Ouagadougou ma giuridicamente del tutto lecito, dovesse trovare terreno fertile, probabilmente la Commissione africana potrebbe trasformarsi nella fonte principale di casi per la Corte africana.

All’aspetto giuridico, come spesso accade in questi casi, si affianca però anche l’aspetto politico: considerate le precarie condizioni democratiche di numerosi Paesi africani, e tenuto conto della carenza di imparzialità riscontrata, a volte, a carico di taluni membri della Commissione, potrebbe facilmente accadere che questi decidano di non trasmettere casi analoghi a quello in esame alla Corte africana per questioni di convenienza politica. Sembra, infatti, indicativo il fatto che la Commissione africana abbia preso in considerazione le comunicazioni contro la Libia solo dopo che le proteste popolari avevano raggiunto un alto livello di esasperazione; è ancor più significativo che la Commissione abbia deciso di deferire il caso alla Corte il 16 marzo, ovvero quando già era certo che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite avrebbe presto adottato delle risoluzioni nei confronti della la Libia e mentre la Francia si preparava ad intervenire militarmente; non è, infine, casuale che l’ordinanza sulle misure cautelari sia stata pronunciata dalla Corte il 25 marzo, cioè dopo l’adozione della Risoluzione 1973/2011 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ed il successivo intervento francese, e quindi quando al conflitto interno stava per sostituirsi un conflitto internazionale, tant’è che nell’ordinanza stessa si parla di “ongoing conflict”.

A prescindere da tali aspetti della vicenda, va comunque sottolineato positivamente come l’ordinanza sulle misure cautelari del 25 marzo incoraggi la collaborazione, basata sul principio di complementarità, fra la Commissione e la Corte. Fino a questo momento, infatti, i rapporti tra i due organi africani non erano molto chiari. Di conseguenza, il principio di complementarità fra la Commissione e la Corte, sancito dall’articolo 2 del Protocollo di Ouagadougou, era rimasto del tutto inoperante; ciò è stato ampiamente dimostrato da un precedente caso, riguardante l’Egitto, molto simile a quello in oggetto, frutto di una serie di comunicazioni di ONG presentate alla Commissione, che non è mai stato deferito alla Corte. La differente gestione dell’affare libico rispetto a quello egiziano probabilmente non va attribuita soltanto ad una maggiore sensibilità della Commissione africana ma anche alle regole pratiche, relative alla cooperazione tra i due organi, che sono state inserite, all’inizio del 2011, nel regolamento interno della Corte africana e che affiancano la norma di principio contenuta nel già citato articolo 2, del Protocollo di Ouagadougou. Poiché al regolamento interno della Corte ha fatto poi seguito una rimodulazione delle regole contenute negli interna corporis della Commissione, nel deferire l’affare libico alla Corte, la Commissione ha dato seguito al disposto dell’articolo 118, paragrafo 3, del suo regolamento interno, secondo il quale: “[t]he Commission may, pursuant to Rule 84(2) submit a communication before the Court against a State party if a situation that, in its view, constitutes one of serious or massive violations of human rights as provided for under Article 58 of the African Charter, has come to its attention”; allo stesso modo, l’articolo 84, paragrafo 2, statuisce che: “[t]he Commission may also, in conformity with Article 5 of the African Court Protocol and Rule 118(3) of the present Rules of Procedure, refer the matter to the African Court”. A queste due norme fa da pendant l’articolo 29, paragrafo 3, del regolamento interno della Corte, il quale permette a quest’ultima, per un caso deferitole dalla Commissione, di audire sia alcuni dei membri della Commissione stessa che gli individui o le ONG che a loro tempo presentarono la comunicazione originaria alla Commissione. Grazie all’adozione delle norme procedurali interne sarà, inoltre, possibile dare attuazione anche ad altre previsioni contenute nel Protocollo del 1998 e richiedenti una cooperazione tra Corte e Commissione, come, ad esempio, la possibilità che la Corte richieda un parere non vincolante alla Commissione circa l’ammissibilità di un determinato ricorso o, addirittura, lo trasferisca ad essa (articolo 6). Allora, la domanda che risulta naturale porsi riguarda il perché di tempi così lunghi per la stesura o il riadattamento degli interna corporis dei due organi. La risposta, probabilmente, può essere ricercata nei lunghi negoziati volti a favorire l’adozione del Protocollo di Sharm el-Sheikh del 2008, relativo alla fusione fra la Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli e la Corte di giustizia dell’Unione africana in un’unica Corte di giustizia e dei diritti umani, che avrebbe reso “inutile” la stesura di regole procedurali per la vecchia Corte. Nel caso in cui tale fusione dovesse realizzarsi effettivamente, la speranza è che la collaborazione tra la Commissione e la nuova Corte possa avviarsi sin da subito. Anche in quel caso, infatti, la Commissione potrebbe rivelarsi la “fonte” principale di casi per la nuova Corte, sia perché potrebbe deferire ad essa le situazioni più spinose, sia perché uno Stato, la cui comunicazione dovesse essere dichiarata irricevibile dalla Commissione africana, potrebbe comunque rivolgersi alla nuova Corte (a differenza di quanto accade in ambito interamericano).

La Corte africana è tornata ad esprimersi sull’affare libico nelle sessioni di giugno e di settembre di quest’anno, semplicemente per rispondere alle richieste dello Stato convenuto di poter dilazionare i tempi per l’indicazione dei rappresentanti legali e per la presentazione del report richiesto. Si tratta, quindi, di pronunce non di rilievo. Si attende, ora, la pronuncia di merito, che potrebbe aver luogo nel corso della sessione straordinaria che si terrà a dicembre non ad Arusha ma ad Accra, o che potrebbe non aver mai luogo: è, infatti, possibile che il primo caso rilevante affrontato dalla Corte africana venga comunque cancellato dal ruolo alla luce dei recenti sviluppi della situazione libica, culminati con la morte del colonnello Gheddafi e con l’instaurazione, su tutto il territorio nazionale, del governo degli insorti.

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