La causa “Giudizio Universale” e il problema della verità
“Giudizio Universale”, com’è noto, è il nome – coniato dai promotori dell’azione – che identifica il primo contenzioso climatico italiano (si cfr. il sito www.giudiziouniversale.eu, dove è possibile reperire tutta la documentazione). Nonostante si tratti di un’esperienza inedita nel contesto nazionale, essa ha sollecitato sporadico approfondimento nella dottrina giuridica, con la sola eccezione di due saggi, entrambi dedicati a evidenziare il “tono costituzionale” del thema decidendum (I. Bruno, La causa «Giudizio Universale». Quattro test costituzionali sui poteri del giudice adito; e F. Gallarati, Il contenzioso climatico di tono costituzionale), oltre a due monografie, che vi prestano richiamo in un quadro più generale di ricostruzione del diritto e contenzioso climatici (L. Butti- S. Nespor, Il diritto del clima; A. Pisanò, Diritto al clima).
In ogni caso, leggendo l’atto di citazione, si constata immediatamente che l’azione, radicata presso il Tribunale civile di Roma, presenta caratteri di originalità, non rinvenibili negli altri contenziosi climatici europei, che l’hanno preceduta. La verifica di queste originalità è effettuabile attraverso i documenti pubblicati nelle banche dati del Sabin Center for Climate Change Law e consente di evidenziare quanto segue.
In primo luogo, il fatto dedotto in giudizio dagli attori non è individuato semplicemente nel cambiamento climatico antropogenico lesivo di diritti umani, bensì nell’emergenza climatica quale inedita e recente situazione di fatto ultimativa, denunciata dalla comunità scientifica internazionale e formalmente dichiarata dal Parlamento europeo (con la Risoluzione del 28 novembre 2019, base del “Green Deal” europeo) proprio nel suo contenuto di minaccia esistenziale per l’intero genere umano.
La situazione di emergenza climatica, sempre secondo gli attori, impone il rispetto di alcune “leggi di natura”, descritte nel primo Capitolo dell’atto di citazione con riguardo al funzionamento del sistema climatico nella sua duplice dinamica geofisica (contraddistinta specificamente da feedback loop e tipping point) e biofisica (segnata da crolli ecologici e patogenesi).
E poiché l’emergenza climatica deriva dalle persistenti violazioni umane, dagli Stati legittimate, di quelle “leggi di natura”, l’uscita da essa non può che richiedere il ripristino urgente del loro rispetto.
Ma come procedere al rispetto delle “leggi di natura” violate necessita del ricorso alla scienza che le ha scoperte e compreso il funzionamento.
Di conseguenza, gli attori chiedono al giudice che lo Stato venga condannato ad agire attenendosi alle scoperte scientifiche di quelle “leggi di natura”, senza il rispetto delle quali la minaccia esistenziale non avrà fine e i diritti degli attori, da essa dipendenti per connessione biofisica, saranno irrimediabilmente compromessi.
“Giudizio Universale”, in definitiva, si pone come caso paradigmatico avente ad oggetto un fatto, l’emergenza climatica, che non si presenta semplicemente come collisione di diritti o tra diritti e poteri o tra poteri e conoscenza scientifica, bensì come conflitto tra “leggi di natura”, scoperte e comprese attraverso la scienza, e decisioni umane che, violando quelle “leggi”, hanno causato l’emergenza.
Il giudice, di conseguenza, è chiamato a misurarsi su una scelta di verità che non potrà essere esclusivamente giuridica, ma – alla fin fine – epistemica. Detto in sintesi, il tema sollevato dal caso non consiste in una “Scientific Question”, già ampiamente indagata dai formanti giuridici (cfr. L. Chieffi, Scientific questions nel diritto giurisprudenziale), bensì in una “Coupled Human and Natural Systems (CHANS) Question” (cfr. D.B. Kramer et al., Top 40 questions in Coupled Human and Natural Systems (CHANS) research), del tutto inesplorata dai giudici.
Questo induce ad approfondimenti interessantissimi e fondamentali, che ci si augura verranno prima o poi fatto oggetto di confronto dottrinale.
Vediamo le principali “CHANS Question”.
Dato che l’emergenza climatica, come accennato, è stata formalmente dichiarata dal Parlamento europeo, e, di conseguenza, riconosciuta ufficialmente e formalmente come vera perché esistente nei suoi elementi di natura (“minaccia esistenziale”, si legge nei Considerando del Regolamento UE n. 2021/1119), il primo interrogativo che si pone è il seguente: quali implicazioni comporta, per la cognizione del giudice, il riconoscimento di questa “verità” esistenziale dichiarata non solo dalla scienza ma dalle istituzioni?
Inoltre, poiché l’emergenza climatica deriva appunto da “leggi di natura” interferite e violate dall’azione umana, possono, queste “leggi di natura”, limitare i poteri governati dal diritto, a partire da quelli dello Stato, convenuto in giudizio, e del giudice stesso che dovrà decidere?
Infine, considerato che l’emergenza climatica è eliminabile solo ripristinando il rispetto delle “leggi di natura” e il ripristino di queste “leggi” può essere garantito solo attraverso la scienza, le predizioni scientifiche, su come applicare le “leggi di natura” nell’emergenza climatica, prevalgono sulle previsioni legalmente concordate?
Si tratta di considerazioni di primaria importanza, che i precedenti contenziosi climatici non hanno sollevato con la medesima forza, per la semplice ragione di non aver dedotto, come fatto giuridico, l’emergenza climatica nella sua portata ultimativa di minaccia esistenziale determinata dalla violazione di “leggi di natura”, scoperte dalla scienza e presupposte esistenti da un’istituzione giuridica.
Ovviamente non è questa la sede per scandagliare nei dettagli i tre interrogativi proposti in prospettiva comparativa. L’unico caso giurisprudenziale che, prima di “Giudizio Universale”, aveva rimarcato con la stessa enfasi l’emergenza climatica è “Juliana v. United States” (cfr., in tal senso, M.C. Wood, “On the Eve of Destruction”: Courts Confronting the Climate Emergency). Ma, in esso, mancava e manca un riconoscimento ufficiale dell’emergenza come “verità dichiarata”. Nella vicenda italiana, al contrario, a perimetrare il confronto tra le parti è per l’appunto la convergenza tra scoperte scientifiche e dichiarazioni ufficiali della situazione ultimativa che coinvolge l’esistenza umana.
La novità, come sostengono gli attori, incide sul fronte della buona fede dello Stato nei comportamenti materiali di neminem laedere (in coerenza, si potrebbe aggiungere, con i Principi 18 e 27 della Dichiarazione di Rio del 1992).
In estrema sintesi, gli attori sostengono che le “leggi di natura” identifichino una verità che nessun potere può legittimamente ignorare o, peggio, violare, anche perché proprio la violazione di quelle “leggi” ha condotto all’emergenza climatica in corso. Per tale motivo, chiedono al giudice di condannare lo Stato a rispettarle (a partire dalla c.d. Equity climatica, che ricostruisce la violazione storica statale delle “leggi di natura” e le modalità di riequilibrio per il loro ripristino). Lo Stato, attraverso la sua Avvocatura, non nega l’emergenza climatica e la sua verità, ma sostiene che sussista una sfera insindacabile nell’utilizzo di quella verità da parte del potere, soprattutto in un sistema democratico fondato sul principio della separazione dei poteri, principio non sacrificabile né in nome delle “leggi di natura” e né in nome della scienza che le ha scoperte e osservato il funzionamento predicendone l’utilizzo a salvaguardia dell’esistenza umana. Questa divaricazione di posizioni regista un conflitto sul concetto di verità, su cui il giudice – volente o nolente – dovrà esprimersi. Da parte degli attori, si rivendica un concetto di verità “forte”, in quanto “naturale” ossia composta delle sue cinque classiche qualità epistemiche (corrispondenza, rivelazione, conformità, coerenza e utilità) scopribili attraverso protocolli scientifici e schemi logici sostanzialmente tarskiani (ovvero analoghi alle note sperimentazioni di Alfred Tarski sulle proposizioni vere in natura). Da parte dell’Avvocatura, invece, si opta per un concetto di verità “debole”, perché soltanto “istituzionale” ossia frutto dell’ermeneutica giuridica che inquadra tutti i fatti come interpretazioni e reputa insindacabile l’interpretazione fornita dal potere, quando questo è legittimato democraticamente (per le classificazioni epistemologiche dei concetti di verità in “forti” e “deboli”, si rinvia alla dense voci “Verità” e “Concezione tarskiana della verità” in N. Abbagnano, Storia della filosofia, vol. 12 Dizionario, Novara-Roma, 2006). Il giudice dovrà stabilire quale concetto di verità adottare a base della propria decisione sull’emergenza climatica.
Da questa divaricazione segue l’altra, relativa al secondo interrogativo. Per l’Avvocatura, le “leggi di natura” – con le scienze che le scoprono, ne osservano e predicono il funzionamento – non possono limitare i poteri democratici, se non a costo di delegittimarli in nome delle soluzioni basate sulla scienza. Diametralmente opposta la prospettiva degli attori, che invocano la “riserva di scienza” non solo come riserva di competenza nel risolvere problemi riguardanti “leggi di natura”, ma anche come sfera dell’indecidibile da parte della politica quando in gioco sono le “leggi di natura” della sopravvivenza umana. Qui si scontrano due concezioni diverse del diritto e dello stesso costituzionalismo (inteso come cultura giuridica della limitazione del potere). Dal lato dell’Avvocatura, prevale la visione “principialista” del diritto: esistono principi che non possono essere derogati né in nome dei fatti né in nome delle “leggi di natura” ma solo bilanciati rispetto a entrambi, sicché nessun fatto, neppure naturale come l’emergenza climatica, può metterli in discussione e comunque il giudice, in virtù del principio non derogabile della separazione dei poteri, non è deputato a farlo. Dal lato degli attori, invece, prevale la visione “garantista”: esistono garanzie che non possono essere derogate giacché radicate non nei poteri, ma nella sovranità popolare, che li legittima, e nei diritti fondamentali, che li limitano, per cui quelle garanzie devono essere applicate sempre e comunque anche da parte del giudice, a tutela di ogni singolo soggetto della sovranità popolare (nello specifico, gli attori in giudizio) e senza alcuna distinzione di fatti, incluso, quindi, il fatto dell’emergenza climatica e delle sue “leggi di natura”, il cui rispetto permette la sopravvivenza di quelle garanzie e dei diritti fondamentali degli attori. Si vedrà come il giudice inquadrerà sé stesso dentro questa demarcazione: se come custode dei “principi”, nonostante le “leggi di natura” e la scienza, o delle “garanzie”, grazie anche alle “leggi di natura” e alle scoperte scientifiche sulla sopravvivenza umana (si riassume qui, a volo d’uccello, un tema che vede comparate, com’è noto, le posizioni riconducibili, sul fronte giuridico, a Robert Alexy e Luigi Ferrajoli, e, su quello filosofico-sociale, a Niklas Luhmann e Jürgen Habermas: per i necessari approfondimenti, cfr. L. Di Carlo (cur.), Bilanciamento e sistema delle fonti).
Infine, con riguardo alle predizioni sulle “leggi di natura” e il loro funzionamento per porre fine all’emergenza, è consequenziale che, per l’Avvocatura, esse non possano indirizzare né ancor meno condizionare, come parametro di validità ed efficacia, le previsioni normative (ma qui, invero, l’Avvocatura sembra ignorare, con esiti fallaci o paradossali, la differenza non solo tra “leggi di natura” e “leggi di copertura” – dagli attori specificata nell’atto di citazione – ma anche tra previsioni e predizioni rispetto ai modelli “realistici”, e non meramente “ipotetici”, utilizzati dalle scienze del sistema climatico e accettati dallo stesso Stato italiano con la sua adesione all’IPCC, che appunto quei modelli utilizza nell’interesse dei decisori politici: cfr., per queste complesse distinzioni, Skeptical Science, How reliable are climate models?). Per gli attori, al contrario, la predizione scientifica si interpone come parametro della legalità a cui soggiace il giudice, sia perché tale predizione opera come elemento costitutivo delle fonti di diritto climatico, in una logica di legalità di risultato e anticipatory regulation scandita dagli artt. 2 e 3 dell’UNFCCC, sia perché la dichiarazione europea di emergenza climatica, prendendo atto che i contenuti predittivi dell’IPCC risultano “esaustivi sugli effetti dannosi dei cambiamenti climatici”, afferma la necessità di una soluzione “basata sulla scienza”. A quale legalità vorrà richiamarsi il giudice, si potrà conoscere solo all’esito della vicenda.
Resta indubbio che la sua funzione di peritus peritorum dovrà misurarsi con una sfida epistemica senza precedenti. Se, di fronte a una “Scientific Question”, il suo ruolo ha teso a oscillare tra giudice “Ercole” e giudice “Sisifo” (secondo l’efficace ricostruzione di S. Penasa, Giudice “Ercole” o giudice “Sisifo”?), nel cimentarsi sulla “CHANS Question”, esso dovrà controllare la tentazione “prometeica” di considerare il diritto superiore alle “leggi di natura” per la sopravvivenza umana. È già accaduto in passato, quando scoperte scientifiche di “leggi di natura” sul sistema terrestre e l’umanità smentirono principi e regole del diritto, costringendo, giudici e non, a decidere, prima di ogni cosa, se affrontare le “emergenze” della natura o appiattirsi sulla inadeguatezza del diritto oppure, ancora, occultare il dilemma con gli stratagemmi linguistici del diritto stesso (su queste oscillazioni, cfr. F. Cordero, Gli osservanti. Fenomenologia delle norme, e G. Harrison, La “scoperta” di territori nuovi “offerti” allo jus communicationis, per il pensiero di Francisco de Vitoria sullo jus communicationis da praticare di fronte alla “scoperta” di nuove verità “naturali”).