La calda estate della Romania: impeachment, referendum, riforme e pronunce della Corte costituzionale mostrano una grave crisi istituzionale e democratica.
Gli ultimi mesi hanno visto la Romania protagonista di numerosi cambiamenti di natura politica, elettorale e costituzionale. La causa sembra individuabile in uno scontro fra poteri: più precisamente l’instabilità data dalle gravi ripercussioni della crisi economica sul Paese, così come uno stato di disorientamento politico complessivo, ha portato a un progressivo indebolimento delle istituzioni e, conseguentemente, del principio di separazione dei poteri.
Il Paese, caratterizzato da una forma di Stato semipresidenziale, ha visto quale attore principale nei recenti avvenimenti il primo ministro di centro-sinistra, Ponta, spinto dal desiderio di estromettere – e forse sostituire – il capo dello Stato, Basescu, che detiene la presidenza dal 2004.
Il punto di partenza è stato l’approvazione, lo scorso 22 maggio, di una nuova legge elettorale in base a cui i candidati avrebbero potuto ottenere seggi in Parlamento prescindendo dal numero di voti complessivi attribuiti al loro partito. La legge ha dato il via a una lunga serie concatenata di atti, il primo dei quali è stato la sentenza della Corte costituzionale rumena con cui la nuova normativa è stata dichiarata incostituzionale.
La pronuncia in materia elettorale è stata poco dopo seguita da un’altra sentenza della Corte, in questo caso adita dal Presidente Basescu. Il conflitto è stato originato dal desiderio del premier Ponta di rappresentare la Romania in occasione del summit comunitario organizzato a Bruxelles a inizio luglio: consapevole del fatto che il ruolo di rappresentanza sarebbe spettato a Basescu, Ponta ha ottenuto che il Parlamento emanasse una risoluzione nella quale si riconosceva solo al premier la capacità di rappresentare il Paese in occasione di incontri internazionali. I desideri del primo ministro sono però stati vanificati dalla Corte costituzionale che ha dichiarato illegittima la risoluzione riconoscendo al solo Capo dello Stato la capacità di rappresentare il Paese all’estero.
Ponta, che ha deciso di recarsi comunque al summit comunitario, al suo ritorno ha ordinato al Ministro della giustizia di destituire tutti i giudici della Corte che si erano espressi contro la legittimità dell’ordinanza del Parlamento. Fortunatamente questa eventualità non si è verificata anche grazie a una lettera con cui i medesimi giudici hanno denunciato alle istituzioni comunitarie le forti pressioni politiche cui erano sottoposti.
A inizio luglio il Parlamento rumeno, con il voto positivo della maggioranza che sostiene il primo ministro Victor Ponta, ha altresì deciso di intraprendere un procedimento di impeachment per la destituzione del Presidente Basescu. In base al dettato della Costituzione rumena, il Capo di Stato può essere rimosso solo se autore di gravi violazioni costituzionali (art. 95); la decisione – che deve essere presa dalla maggioranza dei membri delle due Camere riunite in seduta comune dopo aver ottenuto dal giudice costituzionale un opinione non vincolante – deve poi essere confermata dal corpo elettorale, chiamato a esprimersi con un referendum.
La Corte, chiamata a pronunciarsi, ha in primo luogo sottolineato che l’espressione “gravi violazioni costituzionali” fa riferimento a una fattispecie a natura indeterminata, ragion per cui è necessario che le allegazioni siano precise, suffragate da prove e idonee a indicare le violazioni di cui il Capo dello Stato si è fatto artefice. Nel riscontrare che tali elementi erano assenti e che l’istanza di destituzione si fondasse su allegazioni generiche, il 6 luglio il giudice costituzionale ha sostenuto che il procedimento fosse infondato. Il Parlamento rumeno, tuttavia, non ha accolto l’opinione espressa dal giudice costituzionale e, con l’emissione della decisione n. 33, ha decretato di sospendere Basescu dal proprio incarico deducendo l’applicazione degli artt. 95 e 146, lett. g) della Costituzione.
La Corte costituzionale, tenuta a verificare la correttezza procedurale dell’iter seguito per adottare la decisione, ha constato che, su 370 parlamentari presenti, 256 hanno votato a favore della sospensione del Presidente Basescu, dichiarando legittimo il provvedimento. Il Capo di Stato è pertanto stato sospeso in attesa dello svolgimento delle votazioni referendarie previste per il 29 luglio.
Sempre nel mese di luglio sono stati emessi vari provvedimenti atti a minare il potere di controllo del giudice costituzionale, così come a indebolire e destituire il Presidente Basescu. Fra questi si distinguono le ordinanze governative di emergenza: atti disciplinati dall’art. 115, c. 4 della Costituzione, che devono essere adottate solo in presenza di casi urgenti da disciplinare senza ritardo e che al loro interno devono indicare con precisione le ragioni che le rendono necessarie.
Il 4 luglio il Governo ha emesso un’ordinanza di emergenza (n. 38) volta a modificare la legge 47/1992, che disciplina le competenze e il funzionamento della Corte costituzionale; in particolare, riformando l’art. 27, comma 1, è stato disposto che gli atti e le decisioni del Parlamento che non costituiscano esercizio del potere legislativo possano essere soggetti a controllo di costituzionalità solo in casi limitati: la Corte infatti potrà essere adita solo dal Presidente della Camera o da quello del Senato, oppure da cinquanta deputati o da venticinque senatori o ancora da un gruppo parlamentare.
La peculiarità dell’ordinanza va riscontrata non solo nell’oggetto della stessa, ma anche nel momento in cui è stata emanata: infatti il Parlamento rumeno già a fine giugno aveva approvato un disegno di legge che introduceva le medesime modifiche all’art. 27, c. 1 della legge n. 47/1992 e la Corte costituzionale era stata chiamata a pronunciarsi in via preventiva sulla legittimità della stessa. Il Governo ha quindi tentato di battere sul tempo la Corte: per non rischiare di incorrere in una sentenza di illegittimità costituzionale si è cercato di apportare i medesimi cambiamenti utilizzando uno strumento diverso, idoneo a produrre immediatamente i suoi effetti.
La Corte costituzionale, con la decisione n. 727 del 9 luglio, non ha mancato di esprimersi in merito alla legittimità della riforma della legge n. 47/1992, nonché sull’ordinanza governativa di emergenza (n. 38) – avente analogo contenuto – dichiarandole illegittime. Cuore del ragionamento dei giudici è il riconoscimento del fatto che essa sia il solo soggetto idoneo a vegliare sul rispetto della carta fondamentale da parte dei pubblici poteri, nonché sulla costituzionalità degli atti e delle decisioni adottate da queste. La legge di riforma dell’art. 27, c.1, invece, limita notevolmente il ruolo della Corte di “custode della Costituzione” e la sua capacità di sindacare le risoluzioni adottate dal Parlamento in seduta plenaria, nonché quelle della Camera e del Senato. Insomma, privare la Corte di siffatte competenze pregiudicherebbe la Costituzione poiché impedirebbe una verifica corretta e piena circa il rispetto dei suoi dettami. Illegittima è anche l’ordinanza di emergenza n. 38. Infatti, in base all’art. 155, c. 6 della Costituzione i provvedimenti di emergenza non possono essere presi in materia di leggi costituzionali, né possono toccare i poteri e le competenze delle istituzioni fondamentali dello Stato.
Il 5 luglio il Governo ha adottato un’altra ordinanza di emergenza, volta a modificare la disciplina del referendum, regolato dalla legge n. 3/2000. In particolare modificando l’art. 10 della legge si prevedeva che per la validità del referendum di destituzione del Capo dello Stato non fosse necessario un quorum costitutivo (partecipazione della maggioranza degli aventi diritto al voto), ma solo deliberativo (maggioranza dei voti validi). Il giudice costituzionale, chiamato a esprimersi sulla disciplina referendaria, con la decisione n. 731/luglio 2012 ha statuito che andasse mantenuto il quorum costitutivo, oltre a quello deliberativo.
Il Parlamento ha anche provveduto a decretare la revoca degli incarichi a varie figure chiave delle istituzioni rumene quali Gheorghe Iancu, che rivestiva il ruolo di Ombudsman (una sorta di difensore civico chiamato a vegliare sul corretto agire del Governo), Roberta Alma Anastase, Presidente dell’Ufficio Permanente della Camera dei Deputati e Vasile Blaga, Presidente del Senato. I provvedimenti sono stati reputati legittimi dal giudice costituzionale, anche in questo caso chiamato a verificare il corretto svolgimento delle procedure di voto.
Infine, pochi giorni prima dello svolgimento del referendum, il Parlamento ha approvato un provvedimento volto ad allungare di quattro ore l’orario di apertura delle urne; decisione motivata principalmente dal timore di non riuscire a ottenere l’affluenza di più della metà degli aventi diritto al voto, determinando così l’invalidità delle votazioni. Ipotesi che peraltro si è puntualmente verificata il 29 luglio: si è infatti recato alle urne circa il 46% della popolazione rumena, vanificando così la consultazione, come accertato anche dalla Corte costituzionale (decisione n. 3/agosto 2012).
Il Parlamento ha subito riconosciuto la validità della decisione del giudice costituzionale e non ha opposto resistenza alla revoca della sospensione della carica del Presidente Traian Basescu. Tuttavia, considerando che Victor Ponta è asceso alla carica di primo ministro solo lo scorso maggio, non si può evitare di chiedersi se la Romania nei prossimi mesi verrà nuovamente scossa da altri provvedimenti di stampo fortemente antidemocratico, oppure se la maggioranza al Governo si stia riservando di attendere le prossime elezioni, che avranno luogo a novembre.
Vista l’attuale situazione politica e istituzionale in cui versa la Romania appare inevitabile pensare a quanto accaduto nella confinante Ungheria: anche lo Stato magiaro, infatti, nell’ultimo biennio è stato caratterizzato dall’approvazione di provvedimenti fortemente antidemocratici, arrivando a dotarsi di una nuova e discussa Costituzione. Considerando che molte delle decisioni prese di recente tanto dall’Ungheria, quanto dalla Romania vengono direttamente o indirettamente ascritte alle emergenti necessità dovute alla crisi economica, viene spontaneo chiedersi se e in quale misura l’instabilità monetaria e finanziaria che sta investendo i Paesi a livello globale sarà un fattore idoneo a minare le istituzioni e il modello dello Stato democratico di diritto.