K.K. and Others v. Denmark: il superiore interesse del minore alla luce della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in materia di riconoscimento del genitore intenzionale del bambino nato da madre surrogata all’estero
Con la sentenza K.K. and Othes v. Denmark (6 dicembre 2022) la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sancito che il rifiuto delle autorità danesi di riconoscere come madre adottiva la madre intenzionale di due gemelli nati tramite surrogacy ha violato il diritto al rispetto della vita privata dei due bambini.
La sentenza si inserisce coerentemente nella giurisprudenza della Corte EDU in materia di riconoscimento della genitorialità di coloro che, vivendo in paesi che non permettono la surrogacy, rientrano in patria con il minore nato all’estero da madre surrogata. In questi casi la Corte, adottando il criterio del superiore interesse del minore, si è trovata a valutare se le leggi nazionali eccedessero il margine di apprezzamento garantito agli stati, violando l’articolo 8 della CEDU.
All’origine del caso Mennesson v. France (2014) c’è l’annullamento della Corte di Cassazione francese della trascrizione del certificato di nascita estero (attribuente la genitorialità ad entrambi i coniugi Mennesson, sebbene solo il marito fosse geneticamente legato alle minori) di due bambine nate tramite surrogacy altruistica. La Corte EDU ha rilevato la violazione del diritto al rispetto della vita privata delle due gemelle (e non dei coniugi Mennesson), in quanto esposte al rischio di non ottenere la cittadinanza e l’eredità, poiché uno dei principali tratti della personalità individuale è il riconoscimento dei legami di filiazione. Uguale l’esito del caso Labassee v. France (2014). La Corte di Cassazione francese ha poi richiesto alla Corte EDU un parere consultivo (2019); quest’ultimo ha argomentato che, nel caso di una surrogacy effettuata all’estero con contributo genetico dell’uomo della coppia committente, al rientro non solo il padre genetico deve essere considerato tale, ma si deve riconoscere anche il legame con la madre intenzionale, nel superiore interesse del minore. Tuttavia, risiede nel margine di apprezzamento degli stati la scelta di come riconoscere tale legame (configurandosi l’adozione come opzione alternativa alla trascrizione del certificato di nascita), a patto che la soluzione sia implementata “promptly and effectively”.
In linea con questo parere, in una recentissima sentenza (2022) la Corte di Cassazione italiana ha rifiutato la trascrizione dell’atto di nascita nella parte relativa al padre intenzionale (e non genetico) di una coppia omoaffettiva, poiché avrebbe prodotto effetti contrari all’ordine pubblico, decretando però che il soggetto potesse richiedere l’adozione in casi particolari. Inoltre, la Corte EDU si è basata sul parere citato per decidere i casi successivi; in D. v. France (2020) il diniego di registrare il certificato di nascita nella parte relativa alla madre intenzionale (e genetica, ma non gestante) non si è configurato come violazione dell’articolo 8, poiché la stessa poteva fare domanda di adozione. Al contrario, in una pronuncia non ancora definitiva (D.B. and Others v. Switzerland, 2022), si è riscontrata la violazione del diritto al rispetto della vita privata del bambino nato da surrogacy poiché, non essendo stato trascritto l’atto di nascita, il padre intenzionale (partner del padre biologico) lo aveva potuto adottare solo dopo quasi 8 anni (prima la legge svizzera non prevedeva l’adozione per le coppie legate da unione registrata).
Un altro importante caso è Paradiso and Campanelli v. Italy (2017), in cui la Corte EDU ha ritenuto che il sequestro del bambino nato da surrogacy commerciale ai genitori intenzionali (che non avevano legami genetici con lui) avesse interferito in maniera giustificata con la vita privata dei coniugi e ha escluso l’esistenza di una vita familiare de facto (il bambino non era stato riconosciuto come ricorrente).
Alla luce di questi riferimenti si può comprendere meglio la sentenza K.K. and Others v. Denmark, peculiare poiché, differentemente dagli altri casi in cui è stata riconosciuta una violazione del diritto al rispetto della vita privata dei bambini ricorrenti (Mennesson, Labassee e D.B.), siamo di fronte a una surrogazione di maternità a fini commerciali. Un secondo profilo di originalità è che, contrariamente al caso D.B., le leggi danesi, come si dirà, sembravano tutelare i minori in maniera efficace anche senza che la madre intenzionale li adottasse.
La vicenda riguarda due coniugi danesi rivoltisi ad una clinica ucraina per usufruire dei servizi di una madre surrogata, che ha poi dato alla luce due bambini legati geneticamente all’uomo della coppia. Al rientro in Danimarca, la genitorialità del padre intenzionale (e biologico) è stata riconosciuta, ma non quella della moglie, poiché, ai sensi della legge danese, madre è colei che partorisce. Ciò che più rileva è che la madre intenzionale si è vista negare l’adozione dei minori, poiché secondo il diritto danese l’adozione non può avere luogo se le persone che devono acconsentire alla stessa (in questo caso la madre gestante) ricevono dei soldi.
La Corte Suprema danese, chiamata a pronunciarsi sulla liceità o meno di tale diniego, dopo aver sostenuto che la legge nazionale sulle adozioni deve essere riformulata poiché non permette di valutare quale sia il superiore interesse del minore, ha affermato che, fino all’introduzione di variazioni, si deve valutare caso per caso se il rifiuto di un’adozione configuri una violazione dell’articolo 8 della CEDU. Nel caso di specie non si è riscontrata tale violazione: i bambini avevano acquisito la cittadinanza danese in virtù della filiazione paterna, potevano ereditare i beni della madre intenzionale come se fossero suoi figli ed era stato predisposto l’affidamento congiunto alla coppia (tutelando quindi il legame tra la donna e i bambini in caso di separazione, divorzio o morte del marito).
A seguito della sentenza, la madre intenzionale si è rivolta alla Corte EDU, che ha riconosciuto lei e i gemelli come ricorrenti lamentanti una violazione dell’articolo 8. La Corte distingue, come in Mennesson, tra il diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita familiare e quello al rispetto della loro vita privata, non riscontrando alcuna violazione del primo. Quanto al secondo, non si rilevano violazioni nei confronti del genitore intenzionale, come in Paradiso e in Mennesson. Al contrario, come in quest’ultimo, sebbene l’interferenza sia prevista dalla legge e persegua fini legittimi (non mercificare i bambini e non sfruttare le donne vulnerabili), la Corte sostiene che vi sia una violazione del diritto al rispetto della vita privata dei gemelli, poiché le leggi danesi non contemplano un’altra soluzione che riconosca legalmente il legame tra i bambini e la madre intenzionale. Ciò contrasta con il parere del 2019 e delegittima de facto il legame parentale vissuto nella quotidianità, rendendo fragile l’identità dei bambini all’interno della società. La decisione di riconoscere la violazione solo nei confronti dei figli sembra asserire l’esistenza di un diritto del minore ad avere dei genitori, ma non di un diritto degli adulti ad avere figli ad ogni costo.
Inoltre, sono d’interesse i riferimenti che la Corte fa, citando i paragrafi 75-81 di Mennesson, al margine di apprezzamento degli stati, che è molto ampio per questioni su cui i paesi del Consiglio d’Europa hanno posizioni diverse, come la surrogacy e i rapporti di filiazione da essa scaturiti. D’altra parte, la Corte puntualizza la necessità di restringere il margine di apprezzamento quando le politiche degli stati riguardano aspetti importanti dell’esistenza individuale, come nel caso in esame, in cui il margine viene ridotto per tutelare il superiore interesse del minore. Quest’ultimo interesse è però anche al cuore della decisione danese di non riconoscere la madre intenzionale come adottiva, motivata dalla volontà di evitare il ricorso alla surrogacy a pagamento, accusata di trasformare i bambini in merci. La configurazione del superiore interesse del minore come l’interesse di tutti i bambini a non essere considerati beni di scambio è presente anche nell’opinione dissenziente del caso in esame, che ricorda come la Corte EDU abbia accettato, in Paradiso, che le autorità nazionali, contrastando la surrogacy, stessero proteggendo i bambini dal traffico degli esseri umani. Inoltre, l’opinione dissenziente critica la maggioranza per aver eliminato il margine di apprezzamento in nome della considerazione del superiore interesse del minore come “paramount” (sopra qualsiasi altro diritto), anziché “of primary consideration” (in linea con gli strumenti del diritto internazionale a protezione dell’infanzia), e asserisce che le tutele che il diritto danese assicura ai gemelli si configurano già come un modo di riconoscere la relazione genitore-figlio, senza bisogno dell’adozione.
Alla luce di ciò, si comprende come il superiore interesse del minore sia un principio molto complesso che si presta ad interpretazioni non univoche. Ciononostante, la Corte EDU l’ha applicato finora in modo coerente, regolarizzando a valle delle situazioni in cui la relazione tra genitore intenzionale e minore vissuta nella quotidianità non poteva rimanere senza riconoscimento. Così facendo, però, si è legittimata a monte una pratica illegale in tanti stati, col rischio che sempre più persone vi ricorrano all’estero. Ad ogni modo, la possibilità che il riconoscimento passi per l’adozione, e non per la trascrizione del certificato di nascita, rendendo la procedura meno immediata, potrebbe scoraggiare qualcuno dal ricorrere alla surrogacy. Inoltre, ciò permette di evitare la registrazione automatica del genitore intenzionale, che rimuove la madre biologica, eclissando il peculiare legame materno che caratterizza la gravidanza. Bisognerebbe infatti chiedersi se sia nel superiore interesse del minore separarlo dalla donna che lo ha gestato e trascrivere un certificato di nascita in cui non ci sia traccia di lei, compromettendo la verità biologica e precludendo al figlio la possibilità di cercarla da grande.
Infine, in K.K. and Othes v. Denmark si fa riferimento al fatto che la surrogacy a fini commerciali possa sfruttare le donne povere, che potrebbero essere costrette a lavorare come madri gestanti, ma non si parla del trauma che queste ultime potrebbero vivere (che siano o meno in condizioni di vulnerabilità) dovendosi distaccare dal bambino dopo il parto.