Julio Baquero Cruz, What’s Left of the Law of Integration? Decay and Resistance in European Union Law, Oxford University Press, 2018

Il libro qui recensito rappresenta lo sviluppo di un corso tenuto dall’Autore, membro del servizio giuridico della Commissione europea, alla prestigiosa Academy of European Law dell’Istituto universitario europeo. Julio Baquero Cruz non è però soltanto un giurista, ma un intellettuale a tutto tondo, autore anche di romanzi e saggi di successo. Il volume qui recensito tocca vicende note, ma lo fa da una prospettiva non consueta per lo studioso di diritto europeo. Partendo dall’idea del processo integrativo come strumento di civilizzazione, Baquero Cruz si sofferma sulle ragioni della sua decadenza e della resistenza a livello nazionale (e non solo). Nel farlo, ripropone la celebre lettura di Pierre Pescatore del diritto dell’integrazione, chiedendosi cosa sia rimasto di quella idea di Europa.
Il volume si sviluppa in otto capitoli, alcuni dei quali riprendono saggi già pubblicati nelle principali riviste di diritto europeo, in cui l’Autore ritorna su diversi temi chiave dell’attuale crisi del processo integrativo.
La trattazione potrebbe apparire eterogenea, ma in realtà non lo è perché si tratta di casi di studio uniti dal fatto di essere emanazioni della natura (potremmo dire dell’identità) dell’ordinamento europeo (si vedano i par. 163 e ss. del Parere 2/13, ad esempio). Proprio il primo capitolo è dedicato al ricordo e all’insegnamento di Pierre Pescatore (“Some Things Pierre Pescatore Told Me”) in cui l’Autore traccia il suo ricordo di Pescatore durante gli anni da lui trascorsi alla Corte di giustizia come référendaire soffermandosi sull’importanza che Le droit de l’intégration ha avuto (e ancora, ovviamente, ha oggi, a più di quaranta anni dalla sua pubblicazione) nella storia degli studi europei.
Per introdurre i concetti chiave della teoria di Pescatore, Baquero Cruz ricorda tre episodi. Il primo riguarda una confidenza fattagli da Pescatore stesso secondo cui la versione originale del Trattato di Roma del 1957, firmata dai rappresentati degli Stati, fu in realtà una serie di fogli bianchi a causa di un ritardo nella stampa dovuto alla Zecca di Stato. Da questo aneddoto, Baquero Cruz prende le mosse per sottolineare come, secondo una visione dinamica del processo sovranazionale, l’integrazione europea sia sempre stato “a journey to an unknown (or not totally known) destination” (p. 2), una metafora, come noto ripresa poi, fra gli altri, anche da Weiler. Il secondo punto centrale della visione di Pescatore riguarda l’idea del processo integrativo come “a mobile, not a solid piece of stone with a more or less readable inscription entrusted to high priests to be worshipped by an eternal political community” (p. 3). Infine, e qui si va al cuore dell’idea pescatoriana, l’idea stessa del fenomeno giuridico come processo aperto e inclusivo. Il libro può allora leggersi come una finissima critica alle costruzioni teoriche che – fino a qualche anno fa, in realtà – hanno giocato il ruolo di narrazioni dominanti negli studi europei, in primis le varie teorie costituzionali del diritto dell’Unione, con un “posto” speciale riservato al c.d. pluralismo costituzionale (in tutte le sue versioni). Baquero Cruz ricorda anche tre aspetti che, a suo avviso, erano stati sottovalutati da Pescatore: per il giurista lussemburghese (e per la Corte di giustizia ovviamente) il diritto comunitario era soprattutto un diritto autonomo (senza che ciò necessariamente lo portasse a definire la sua natura in termini internazionali, costituzionali o sovranazionali):

“Pescatore’s mobile seemed to contain only the European system, conceived as a self-sufficient machine. He seemed to pay less attention to the various ways in which that machine was symbiotic with the national systems” (p. 5).

Il secondo aspetto trascurato da Pescatore riguarda i diversi modi in cui capitalismo e liberismo hanno influenzato il diritto dell’integrazione. Infine, una terza dimensione del pensiero di Pescatore non totalmente accolta da Baquero Cruz riguarda “his faith in the potential of law as a tool to civilize the behaviour of European Nations” (p. 5).
Il libro recensito ha come obiettivo quello di scoprire cosa resta del diritto dell’integrazione, in altre parole:

“An attempt at recovery, recognition, and resistance. Recovery of the initial meaning of legal integration, not as a historical exercise but as an exploration of its lasting significance. Recognition of the problems that legal integration has today, problems which, while note identical, resemble those encountered by previous generations of European lawyers. And resistance against the relentless march towards disintegration” (p. 5).

Il secondo capitolo (“Law after Auschwitz”) contestualizza l’origine del processo comunitario, legandolo necessariamente agli orrori del dopoguerra. Nonostante la natura economica dei Trattati fondativi, come giustamente sottolinea l’Autore, sbaglia chi vede in questo – e nel fallimento del tentativo di costruzione della Comunità europea di difesa – un motivo per “underrate their significance” (p.14). Chiaramente l’orrore della guerra è stato alla base dell’esperimento europeo e quelle che possono apparire come nozioni tecniche (effetto diretto in primis) non possono che spiegarsi anche alla luce di quello che era stato il passato. L’assenza di riferimenti testuali all’orrore della guerra nel testo di Van Gend en Loos, del resto, come ricorda l’Autore, non esclude che questi fattori abbiamo avuto peso in quello che Stone Sweet ha definito un juridical coup d’état. Dopo tutto, si potrebbe aggiungere, le stesse Costituzioni del dopoguerra risultano forgiate dalla Resistenza e hanno spesso celato gli strascichi delle divisioni sociali post-belliche puntando sul carattere compromissorio e, in alcuni casi, omettendo di esprimersi su questioni sensibili. Del resto, come gli scritti di Foley insegnano, il silenzio ha sempre svolto un ruolo centrale nella vita delle costituzioni e non solo di quelle non scritte ed evolutive. È interessante notare che per Baquero Cruz, una delle ragioni della decadenza del diritto dell’integrazione deve ravvisarsi nel progressivo allontanarsi dalle ragioni che hanno reso l’esperimento europeo possibile. Nel terzo capitolo (“Against Constitutional Pluralism”), l’Autore si scaglia contro il pluralismo costituzionale, ricostruendone la genesi negli anni Novanta e la ragione di quest’attacco può essere rinvenuto a pag. 39. Da un lato, i “constitutional pluralist” vengono accusati di trascurare le ragioni storiche che hanno portato al diritto dell’integrazione; dall’altra, questo insieme di dottrine sembra enfatizzare troppo la centralità del disaccordo che, specie in un’organizzazione caratterizzata da un numero elevato di Stati membri, finisce per minare le fragili basi del processo integrativo:

“In their account of the legal landscape, the pluralists never pause to consider the significant practical problems encountered by Union law in commanding a general habit of compliance in the Member States” (p. 41).

Nell’esaltazione del concetto di eterarchia, i “constitutional pluralist” farebbero dell’eccezione (i conflitti, qui intesi come disaccordi interpretativi) la regola, costruendo un sistema teorico che finirebbe per non rispondere alle funzioni stesse del fenomeno giuridico: quello di assicurare ordine, stabilità e certezza. L’Autore critica nel dettaglio le opere dei più famosi esponenti di questo movimento teorico, ricordando anche gli sforzi fatti da figure come MacCormick, Walker, Maduro e Kumm per rimediare, cercando di fornire alternative per assicurare l’integrità del sistema. La diagnosi è, allo stesso tempo, inesorabile e spietata, relegando il pluralismo costituzionale a ideologia o falsa rappresentazione:

“Constitutional pluralism was exactly this sort of false idea. It came. It stirred things up, to the point where it amounted to a proposal to subvert integration and the very structure of law. But its force is now spent. We should turn to something else” (p. 51).

È interessante comparare queste considerazioni con quelle fatte in altra sede da un altro critico del pluralismo costituzionale, Avbelj, che pare invece muovere un’accusa opposta. Per Avbelj, infatti, il pluralismo costituzionale sarebbe in realtà ossessionato dall’idea della coerenza. Probabilmente sono corrette tutte e due le analisi, solo che entrambe scontano l’incredibile varietà di posizioni che si cela dietro la stessa formula del pluralismo costituzionale.
Vale la pena però di sottolineare che l’impostazione prescelta da Baquero Cruz pare trascurare il ruolo che tradizionalmente i conflitti hanno avuto nello sviluppo del diritto europeo (fin dagli anni Settanta e, quindi, ben prima della nascita di tale “movimento teorico”, come lo stesso Autore finisce per riconoscere, del resto, nel sesto capitolo) e sembra anche muovere da una concezione prevalentemente negativa dei conflitti. La realtà pare più complessa, come del resto dimostrano le diversissime reazioni suscitate dalla saga Taricco. Mentre per Baquero Cruz, M.A.S. ha il torto di aggiungere confusione e incertezza, per altri autori, Sarmiento ad esempio, la stessa decisione può essere invece letta come una positiva evoluzione, in quanto “good proof of how the Court of Justice is starting to realise that fundamental rights are not only institutional tools to enhance its jurisdiction, or to send popular messages to a demanding audience”.
Tornando all’affascinante excursus offerto da Baquero Cruz, l’itinerario prosegue in una vera e propria panoramica sulla crisi del processo integrativo. Il diritto dell’integrazione viene definito dall’Autore “a complex assemblage of values, principles, rules, institutions, and powers” (p. 53) e, come anticipato, nei capitoli seguenti Baquero Cruz guarda all’evoluzione del diritto dell’Unione in alcuni “structural fields” che possono essere visti come veri e propri pilastri dell’ordinamento. Di nuovo guardando al già citato Parere 2/13 si trova la conferma della centralità del procedimento pregiudiziale ex art. 267 TFEU che:

“Instaurando un dialogo da giudice a giudice proprio tra la Corte e i giudici degli Stati membri, mira ad assicurare l’unità di interpretazione del diritto dell’Unione (v., in tal senso, sentenza van Gend & Loos, EU:C:1963:1, pag. 23), permettendo così di garantire la coerenza, la piena efficacia e l’autonomia di tale diritto nonché, in ultima istanza, il carattere peculiare dell’ordinamento istituito dai Trattati (v., in tal senso, Parere 1/09, EU:C:2011:123, punti 67 e 83)” (par. 176).

Proprio alla genesi e all’evoluzione (passando per decisioni come Rheinmühlen-Düsseldorf e CILFIT) del procedimento pregiudiziale viene dedicato il quarto capitolo (“The Preliminary Rulings Procedure: Cornerstone or Broken Atlas?”), in cui l’Autore conferma la sua nota posizione secondo cui i principi strutturali del diritto comunitario (effetto diretto e primato) sarebbero in realtà impliciti nella struttura del procedimento pregiudiziale. Tuttavia, quello disegnato dall’art. 267 TFUE non è un meccanismo perfetto e la Corte infatti negli anni ha cercato di provvedere a tali mancanze, ideando possibili “sanzioni” per rimediare (oltre alle note Köbler e Traghetti del Mediterraneo si veda la recente Commissione c. Francia). Il quinto capitolo, emblematicamente intitolato “Partial Eclipse of Union Citizenship: From Grzelczyk to Dano”, “fa i conti” con la problematica (e a tratti schizofrenica) giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di cittadinanza europea: dalla “promessa” in Grzelczyk, secondo cui “lo status di cittadino dell’Unione è destinato ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri”, ai dubbi suscitati da Dano. Conferme delle incertezze giurisprudenziali della Corte vengono anche dal ritorno della giurisprudenza Zambrano dopo casi come Rendón Marín e Chavez-Vilchez. Il capitolo successivo è inevitabilmente dedicato al rapporto fra diritti fondamentali e processo integrativo (“Fundamental Rights and the Integrity of Union Law”) in un’analisi che si sofferma nel dettaglio sull’importante opera di completamento del diritto dei Trattati. Inevitabilmente, particolare attenzione viene dedicata agli ultimi sviluppi: la nota sentenza Melloni e il suo “frutto amaro”, il Parere 2/13 in materia di accesso dell’UE alla CEDU. La conclusione è che l’attuale fase di confusione che circonda il “posto” dei diritti nel processo integrativo è dovuto principalmente all’ambiguo ruolo degli Stati. Anche in questo l’Autore vede una “lack of memory about the ultimate aims of integration and a reassertion of the nation state as the predominant form of political organization in contemporary Europe” (p.167).
Nel settimo capitolo (“Rigidity, Fragmentation and the Allure of International Law”) vengono ricordate le ragioni che rendono problematica l’uscita dall’attuale fase di regressione per il diritto dell’UE, innanzitutto la difficile emendabilità dei Trattati. Per compensare questa situazione l’Autore esamina alcune possibili strategie che vanno dal peso normativo assunto dalle decisioni della Corte di giustizia al possibile ruolo svolto dai meccanismi asimmetrici previsti dai Trattati o sperimentati attraverso l’uso del diritto internazionale (l’esempio del Fiscal Compact). Il capitolo ottavo (“Concluding Thoughts”) conclude l’ideale viaggio proposto dall’Autore, che in quella sede ricorda le condizioni necessarie per assicurare la sostenibilità del diritto europeo: il consenso degli Stati e dei cittadini dell’Unione sui fondamenti del processo integrativo, il perseguimento dell’interesse generale, una sufficiente legittimazione e una maggiore inclusione dei cittadini.
Il volume si chiude dove era iniziato, con il ricordo di un Pescatore un po’ deluso dalla formazione stato-centrica dei giuristi del dopoguerra, ma anche speranzoso nelle nuove generazioni.
What’s Left of the Law of Integration è una ricca, colta e lucida analisi dei malesseri del processo integrativo, coltivata a partire dalle radici storiche che ne avevano consentito l’avvio. È un libro che farà discutere e che non si fa mancare spunti polemici verso quelle che vengono percepite come le narrazioni dominanti che, in qualche modo, vengono indirettamente accusate di essere parte della decadenza del diritto dell’Unione.