Intorno al common law constitutionalism. Recensione a “L’argomentazione costituzionale di common law” di Graziella Romeo

1.È ancora frequente che, studiando le caratteristiche dei sistemi di common law, ci si imbatta in ricostruzioni forzatamente unitarie, quando non stereotipate, di quella tradizione giuridica. Ricostruzioni che prescindono dal diverso modo in cui un patrimonio di tecniche e saperi giuridici ha attecchito in contesti geografici e culturali differenti e, soprattutto, è stato influenzato da variabili costituzionali e istituzionali assai eterogenee.
È quindi particolarmente importante segnalare la recente monografia di Graziella Romeo, L’argomentazione costituzionale di common law (Giappichelli, 2020), perché rappresenta non solo un significativo antidoto contro tali semplificazioni, ma offre (ben al di là di questo) un utile e approfondito percorso di analisi dei caratteri del common law constitutionalism.
La scelta di muovere da questa prospettiva, lasciandosi alle spalle ricostruzioni più in voga negli ultimi anni come quella del new Commonwealth model of constitutionalism sviluppata da Gardbaum, è sorretta da una giustificazione che rappresenta e riassume l’obiettivo centrale del volume: comprendere, nei vari contesti esaminati, come il common law, che è “oggetto di continua creazione  e rielaborazione secondo la regola del precedente e il metodo dello sviluppo progressivo”, si concili col principio di costituzionalità e con il ragionamento di diritto costituzionale, che “è solitamente guidato dalla gerarchizzazione delle finalità di tutela dei diritti fondamentali su ogni altro obiettivo di politica del diritto” (p. 6).
A partire da qui, Romeo sviluppa un’analisi che, nei cinque capitoli di cui si compone il volume, intreccia profili teorici e di metodo comparativo con l’analisi delle ricadute dei vari aspetti presi in esame nel sistema istituzionale e nelle prassi argomentative dei giudici degli ordinamenti qualificati dall’appartenenza alla common law tradition, vale a dire, oltre al Regno Unito, gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e l’Irlanda.
Pur trattandosi di ordinamenti molto diversi, convince la tesi del libro secondo cui in tutti e in ciascuno di essi, più che la generica appartenenza a una tradizione giuridica derivante dall’esperienza inglese, a risultare qualificante è la presenza di un dato contraddittorio rilevante prima di tutto sul terreno dell’esperienza costituzionale, vale a dire la non coincidenza (quando non l’aperta scissione) tra forma e materia costituzionale. Questo dato, che rappresenta il primo elemento di distinzione rispetto al costituzionalismo europeo-continentale (sia esso declinato in senso kelseniano o meno), si presenta infatti come una costante nelle esperienze prese in esame, pur se si atteggia lungo uno spettro che va dalla massima dissociazione, come nel Regno Unito e nel suo parente prossimo rappresentato dalla Nuova Zelanda, a una solo parziale non coincidenza, come con tutta evidenza avviene nell’esperienza degli Stati Uniti o, secondo tutt’altre caratteristiche, in Irlanda.
È bene intendersi sui caratteri di questa separazione tra forma e sostanza costituzionale, riferendosi alla “separazione concettuale” che Romeo individua “tra la normatività, nel senso dell’immediata prescrittività della costituzione, e la sua supremacy” (p. 34). L’identità del modello costituzionale di common law, infatti, andrebbe rinvenuto in ciò, che sia nel paradigma teorico che lo sorregge, sia nella prassi degli ordinamenti costituzionali presi in esame, la supremacy della costituzione non si identifica mai del tutto con il dato del suo valore prescrittivo formale, richiedendo costantemente un supporto in termini di legittimazione che deriva dal modo concreto di funzionamento dell’ordinamento. È precisamente in questo punto che si innesta la proposta di metodo del volume, che consiste nell’individuare in questo carattere aperto della constitutional supremacy l’esito di un dualismo mai completamente risolto tra metodo e valori del principio di costituzionalità e il portato, appunto, metodologico e valoriale del common law. Quest’ultimo offre infatti al giudice “una fucina di materiali giuridici eventualmente alternativi rispetto a quelli ricavabili dall’insieme dei principi costituzionali” (p. 47), che offrono “supporto sostantivo nella definizione dei contenuti sostantivi del testo costituzionale” (p. 69), ponendosi così come polo alternativo al testo e ai principi della costituzione nella definizione dei contenuti ricavabili da quest’ultima, soprattutto sul terreno dei contenuti di garanzia associati ai diritti fondamentali. Dalla interazione tra common law e constitutional rights si possono quindi ricavare, secondo Romeo, alcune prospettive di analisi sui tratti identificativi del modello costituzionale preso in esame, che consistono, in tutti gli ordinamenti considerati, nel “permanere del sostrato teorico della costituzione normativa consuetudinaria” (p. 71), nella “centralità del dibattito sulla dimensione politica del costituzionalismo” e nella “diffusa sensibilità per il testualismo” come caratteristica che connota in particolar modo l’interpretazione costituzionale” (p. 72).

2.Gli ambiti che costituiscono il principale banco di prova della tesi di Romeo sono rappresentati dal rapporto tra sovereignty of Parliament e teoria delle fonti (cap. II) e dalle teorie dell’interpretazione costituzionale come profilo inerente alla legittimazione degli organi investiti della funzione di judicial review (cap. III).
Sul primo aspetto convergono i problemi legati tanto al rapporto con la tradizione consuetudinaria, che integra la legittimità di una constitutional supremacy di per sé incapace di autofondarsi, quanto alla capacità di opporre limiti materialmente costituzionali alla sovranità del parlamento. Come il lettore non faticherà a comprendere, si tratta evidentemente di problemi che interessano in modo diverso sistemi dove la prevalenza della traditional constitution sulla costituzione scritta è più evidente (come nel Regno Unito e nella Nuova Zelanda), ma che non manca di far sentire il suo peso anche negli Stati Uniti, dove le tracce di questa apertura – pur nel quadro di una costituzione intesa sin dall’inizio come paramount law – si fanno sentire nell’uso talvolta antagonista del common law nella giurisprudenza della Corte Suprema, oltre che nel protrarsi del dibattito sulla legittimazione di quest’ultima, riaccesa col fiorire negli ultimi due decenni del political constitutionalism.
Non è dubbio, tuttavia, che sia l’esperienza inglese quella in cui è più acceso il dibattito, non solo teorico, sulla identificazione della materia costituzionale come elemento di teoria delle fonti e nel quale, nonostante gli sforzi della Supreme Court in Miller e i tentativi della giurisprudenza di identificare i caratteri dei constitutional statutes, permane l’idea che constitution e constitutional law siano “termini impiegati per descrivere un contenuto e non una forma” (p. 97). Questa prevalenza del dato contenutistico non ha tuttavia matrici univoche, nel senso che essa risulta compatibile tanto con la necessità di preservare la sovranità del parlamento, quanto con l’esigenza di salvaguardare quella unwritten constitution in cui sono depositati i valori del common law. Ed è proprio la sintesi operata nel nuovo common law constitutionalism che ha rappresentato, in sistemi come quello canadese, australiano e neozelandese, la guida per supplire alla originaria debolezza o all’assenza di un bill of rights e all’introduzione di sistemi di judicial review: esiti, entrambi, che non scaturiscono come conseguenza necessaria dalla supremacy della costituzione, ma che si affermano riallacciandosi tanto alla tradizione che (soprattutto nel caso canadese) ad una decisione di autolimitazione della sovranità parlamentare.

3.Il legame tra teorie dell’interpretazione costituzionale e ruolo e legittimazione degli organi investiti della funzione di judicial review (preso in esame nel III capitolo) è la parte della ricerca monografica di Romeo in cui meglio emerge lo sforzo ricostruttivo dell’autrice e la validazione delle sue tesi di fondo.
Del resto, sul punto sono molte le affinità tra i sistemi presi in esame, se solo si pensa al fatto che in tutti il judicial review è un’acquisizione successiva all’entrata in vigore della costituzione (talvolta anche di poco successiva, come nell’esperienza statunitense) e, soprattutto, che tutte le corti supreme degli ordinamenti presi in esame non svolgono esclusivamente funzioni di controllo di costituzionalità, con la conseguenza che (ed è il punto più rilevante) i criteri di interpretazione della costituzione non si differenziano mai completamente dai criteri dell’interpretazione tout court, sebbene oggi “si sta progressivamente facendo strada, anche in questi ordinamenti e nella pratica delle corti, l’idea che le norme costituzionali necessitino di alcune tecniche interpretative peculiari, non meramente mutuabili dall’ermeneutica dei testi normativi” (p. 129).
Sul punto, un aspetto meritevole di attenzione è legato al fatto che l’eredità e il peso del common law operano nei vari ordinamenti presi in considerazione secondo itinerari molto diversi, che giungono talvolta a produrre esiti opposti. Così, nell’esperienza statunitense le attitudini maggiormente conservatrici e tradizionaliste del common law sono state valorizzate da alcune correnti dell’originalismo (soprattutto quello metodologico di Ginnis e Rappaport) e di esse vi è più di un’eco nella giurisprudenza della Corte Suprema a firma Scalia, ma l’appello ad essa ritorna in funzione di relativizzazione del testo in alcune declinazioni del constructivism come quella di Richard Fallon, perché rivolta a garantire un più ampio spazio di manovra al giudice.
In funzione ancora diversa, poi, e decisamente più lontana dalla realtà statunitense, è l’influenza del modello di common law nell’esperienza canadese, dove all’inevitabile assenza di argomenti originalisti si contrappone una forte attitudine evolutiva dell’appello alla tradizione, che ha consentito il rafforzamento dei diritti della Charter e l’approdo a una teoria dell’interpretazione che si raffigura come una living tree doctrine. Volendo ulteriormente insistere sulle diversità di struttura, si potrebbero richiamare le pagine sulla specificità dell’ordinamento australiano, in cui l’interazione tra common law e approccio legalistico proprio di questo sistema producono il proliferare di un approccio strutturale all’interpretazione, in cui finiscono per prevalere tecniche sistematizzanti come l’interpretazione conforme (harmonizing arguments).

4.Gli ultimi due capitoli esaminano un tema più tradizionale come quello della regola del precedente e delle sue variabili (cap. 4) e concludono andando alla ricerca di una “koiné del discorso costituzionale di common law nel costituzionalismo globale” (cap. 5).
Con riguardo al primo, tornano alcuni aspetti di fondo della ricerca, come quello relativo all’influenza del quadro ricavabile dal materiale costituzionale sui diritti e le garanzie verso un uso più tecnico (thin) del precedente “nella sua dimensione di authority persuasiva, puntualmente richiamata” ovvero nei confronti di un uso invece più thick, “in funzione di supplenza rispetto agli altri percorsi interpretativi che le corti apicali possono intraprendere, sia come decisione che occorre correggere nell’interesse dello sviluppo  dell’ordinamento costituzionale” (p. 203). Ma anche con riguardo al precedente si ripropone l’idea che il common law esprima una valenza potenzialmente antagonista rispetto all’autosufficienza dell’argomentazione costituzionale, sia perché “il parametro costituzionale rappresenta sempre una sorta di logica rivale che chiede la deduzione di regole dai principi imposti dal testo” (p. 223), sia perché esso si aggancia a (e si nutre di) doctrines (dall’incorporation statunitense alla pith and substance canadese) che svolgono una funzione integrativa del testo costituzionale (di “supplenza delle carenze del testo”, p. 214) non  diversa da quella che le conventions of the constitution esprimono nei confronti delle regole costituzionali scritte nell’esperienza inglese.
Nel quinto e ultimo capitolo, il volume identifica nel rapporto col passato e nella centralità del testo i due elementi identificativi della koiné del common law constitutionalism. Ma opportunamente si chiarisce che il primo assume rilievo tanto come dato cui attingere elementi esperienziali quanto come dimensione gnoseologica, laddove il peculiare testualismo che è all’opera in questi sistemi ha caratteri molto diversi da quello europeo-continentale, atteggiandosi non come referente di un costrutto concettuale ma come terreno su cui misurare la capacità di tenuta dei vari esiti di volta in volta raggiunti.

5.Tra i molti aspetti di interesse del volume, vorrei in conclusione soffermarmi su quelli che proiettano il discorso del common law constitutionalism al di fuori dei suoi confini.
Il primo è legato al permanere della distanza tra il costituzionalismo di common law e quello (ammettendone per un attimo l’esistenza come categoria unitaria) di civil law. Il quadro che esce dalla riflessione di Romeo è quello di una distanza, se non incommensurabile, quanto meno assai evidente dai sistemi europeo-continentali, e sicuramente lontana da ogni ricomposizione o convergenza. Ciò non stupisce considerato che l’autrice si è soffermata sulle specificità e sui tratti comuni dei sistemi presi in esame, ma emerge come dato difficilmente contestabile se solo si pensa proprio al rapporto che altrove sussiste con i due elementi della koiné prima considerati, vale a dire il rapporto con la tradizione e il testo. Nel costituzionalismo di civil law, il rapporto con la tradizione è privo di quella funzione di validazione sostantiva di cui si è parlato, perché il più delle volte la tradizione è proprio il terreno su cui è maturato il potenziale di critica del passato insito nelle costituzioni programmatiche del novecento (e non solo). E anche la centralità del testo costituzionale, che pure potrebbe accomunare le due esperienze, esprime nei sistemi di civil law tutt’altro significato, riflettendo non tanto l’ancoraggio del giudice a un dato di prudenza istituzionale, quanto la commisurazione del suo agire alle premesse oggettive di valore del patto costituzionale, su un terreno peraltro assai più conteso che nei sistemi di common law con il legislatore. Mi limito a ricordare, sul punto, le pagine schmittiane in cui, rimandando a Gneist, già ci si riferiva polemicamente alla legittimazione “trascendente” della Corte Suprema degli Stati Uniti rispetto al circuito politico, perché ricavata direttamente dal common law (Der Hüter der Verfassung, Berlin, 1996, p. 14).
Il secondo aspetto è invece più strettamente metodologico e potrebbe, forse, andare in una direzione opposta a quanto si è appena detto. In fondo, nella dialettica tra constitutional rights e common law indagata da Romeo si assiste alla riproduzione, sia pur trasfigurata, della dialettica tra sistema e problema che contrassegna i sistemi europeo-continentali. Nelle due esperienze, ciò che ritorna comune è infatti l’impossibilità di sciogliere la tensione tra i vincoli che il sistema pone ai suoi attori istituzionali sul terreno dell’interpretazione costituzionale, e in primis ai giudici, e la necessità di fare i conti con la pressione dei fatti nel senso di un costante sforzo di adeguamento ad essi di quelle regole. Su questo aspetto, non si può fare a meno di individuare un elemento comune ai due sistemi, e ricerche come quella di Romeo, attente a cogliere le interazioni tra gli itinerari dell’argomentazione e il dato istituzionale, sono un valido contributo contro il “pregiudizio anti-comparatistico” e a favore di “argomentazioni fondate” (p. 257).