Indietro (non) si torna. La Corte Suprema indiana, i comportamenti sessuali “contro natura” ed il verso della comparazione

La sentenza dell’11 dicembre 2013 (ric. n. 10972/2013 et al.) – con la quale la Corte suprema indiana ha riformato il precedente della High Court di Delhi, che aveva dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 377 del Codice penale, in tema di repressione penale della sodomia e di qualunque comportamento sessuale “against the order of nature” – rappresenta, senza dubbio, un significativo arretramento nel cammino della protezione dell’orientamento sessuale come dimensione di vita e dignità costituzionalmente rilevante. Al tempo stesso, essa offre al comparatista una serie di spunti di riflessione sulle diverse virtualità dell’uso della comparazione giuridica nella giurisprudenza e, soprattutto, sul “verso” della circolazione di argomenti e precedenti. Se, infatti, il terreno dell’uso della comparazione da parte dei giudici è assai arato – anche e soprattutto con riferimento alle problematiche legate all’orientamento sessuale e, più in generale, alla sfera dell’autodeterminazione riproduttiva, affettiva e sessuale dei singoli – ancora aperta resta la riflessione sulla funzione e sul “verso” della comparazione, vale a dire sulle sue virtualità (solo) progressive – funzionali cioè all’ampliamento degli spazi di libertà e garanzia dei diritti – o (anche, almeno potenzialmente) regressive.


In materie particolarmente sensibili rispetto al contesto storico e culturale – com’è ancora l’orientamento sessuale – la pluralità di soluzioni e orientamenti riscontrabili a livello mondiale (su cui v. soprattutto Vitucci, La tutela internazionale dell’orientamento sessuale, Jovene 2012 e Torino, La tutela della vita familiare delle coppie omosessuali, Giappichelli 2012) rende assai faticoso il consolidamento di soluzioni condivise e di un comune patrimonio di tutela, ed invita – al tempo stesso – ad un approfondimento del confronto critico tra le diverse esperienze. Anche in questo ambito, peraltro, è possibile isolare alcune posizioni-chiave, qualificate dal diverso tasso di apertura critica all’esperienza straniera: per riprendere la nota classificazione di Vicky Jackson, si riscontrano posizioni di massima estroversione (Convergence), di massima introversione (Resistance) e di apertura critica (Engagement). Ancora, la piena efficacia dell’uso del metodo comparativo nella soluzione di casi concretamente affidati all’esame del giudice, sembra misurarsi più sulla sua coloritura critica, che non, semplicemente, sul grado di apertura o di chiusura dei giudici rispetto ad esperienze giuridiche diverse da quella dell’ordinamento di appartenenza.

Proprio la sentenza in commento, peraltro, offre significativi esempi in questo senso, sia esplicitamente – come nel “manifesto metodologico” contenuto nelle ultime pagine della sentenza, su cui ci soffermeremo oltre –, sia, per così dire, sottotraccia.

La decisione riformata (decisione del 2 luglio 2009 della Division Bench of the Delhi High Court) era caratterizzata, in questa prospettiva, da vaste e sicure aperture al patrimonio normativo, argomentativo ed interpretativo delle democrazie occidentali, ed in particolare degli altri ordinamenti del Commonwealth, ma anche della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In particolare, essa si basava su una interpretazione ampia e profonda dei concetti di “privacy” e “dignity”, funzionale ad affrancare da ogni condizionamento di tipo morale – specie se radicato in sentimenti di indignazione e disgusto, anche se maggioritari – la disciplina giuridica,  anche penale, dei comportamenti sessuali. Come già nel noto precedente della sentenza Lawrence v. Texas della Corte suprema degli Stati Uniti, inoltre, il comportamento sessuale era affrancato dalla sua considerazione meramente meccanica e, ricondotto alla sfera dell’affettività e della costruzione di relazioni, mostrava il suo legame profondo con la protezione dell’identità sessuale come proiezione della dignità dell’individuo.

Per tale via, la High Court di Delhi era giunta alla conclusione dell’incostituzionalità del reato di atti sessuali “contrari all’ordine di natura” – residuo, nell’art. 377 del Codice penale indiano, dell’esperienza coloniale, ed in particolare della traduzione giuridica della morale vittoriana, caratterizzata da una forte riprovazione verso i comportamenti omosessuali – fornendo, di tale disposizione, un’interpretazione evolutiva e particolarmente attenta alla sensibilità e al punto di vista della comunità omosessuale. “Mettendosi nei panni” degli omosessuali soggetti alla previsione del Codice penale, la High Court – facendo largo uso di argomenti particolarmente familiari alla cultura giuridica occidentale – era riuscita a “squarciare il velo” sulla profonda ipocrisia di una previsione normativa che, colpendo all’apparenza atti sessuali, finiva per stigmatizzare le identità e i gruppi “associati” al tipo di comportamento sessuale, represso dalla legge penale.

La digressione sugli itinerari argomentativi della sentenza riformata appare particolarmente utile per chiarire alcuni passaggi chiave di molte delle decisioni favorevoli al riconoscimento di diritti e spazi di libertà per le persone omosessuali: oltre, in estrema sintesi, al citato nesso tra comportamento sessuale, “privacy”, “dignity” ed autodeterminazione affettiva e relazionale, va sottolineato l’uso in senso “progressivo” della comparazione giuridica – evidente nella “scelta” dei precedenti -, ma anche l’attenzione alla concreta situazione di vita delle persone omosessuali – la “capacità di immaginare”, di contro al pregiudizio e al disgusto (per riprendere la nota distinzione di M. C. Nussbaum) – ed infine, una precisa scelta in relazione ai rapporti tra giudiziario e legislativo, con la decisa riaffermazione della funzione contro-maggioritaria del primo, in relazione alla tutela delle minoranze.

La sentenza della Corte suprema si muove in tutt’altra prospettiva, oltre che in una direzione del tutto opposta quanto alle tutele accordate.

Anzitutto, l’argomentazione muove da una affermazione di deferenza verso il legislatore – tanto più in una materia come la definizione delle fattispecie di reato – che si traduce in una interpretazione molto rigida della “presunzione di costituzionalità” che assiste, secondo la giurisprudenza della stessa Corte suprema indiana, le disposizioni legislative (cfr. pp. 61 ss.).

In secondo luogo, la ricostruzione della fattispecie di reato censurata è condotta con grande attenzione alla tradizione e ai precedenti, ma anche al testo e ad una sua interpretazione secondo canoni formali. Colpisce, in particolare, l’enfasi posta sulla qualificazione normativa dei comportamenti “irrespective to age and consent” and “regardless of gender identity and orientation” (p. 77), con la conseguente esclusione di soluzioni volte a privilegiare interpretazioni della norma dirette a metterne in luce – per un verso – un’eventuale funzione di repressione di comportamenti sessuali violenti e – d’altro canto – proprio l’intento (o l’effetto) di stigmatizzazione nei confronti degli omosessuali.

Ad essere colpiti, insomma, sono gli atti sessuali “contro natura”, indipendentemente dallo stile di vita di chi li ponga in essere: e dunque, paradossalmente, l’attività sessuale con un vitello – per citare, però, uno dei precedenti richiamati dalla Corte (cfr. p. 70) – può essere tranquillamente posta sullo stesso piano del rapporto sessuale all’interno di una coppia omosessuale stabilmente legata da un vincolo di comunione affettiva.

La forza evocativa dell’esempio appena fatto può servire a sollecitare l’attenzione sui rischi di un cattivo utilizzo del testualismo e del formalismo, in materie come quella che ci occupa, ed in particolare sulla tendenza di tali ordini di argomentazioni a porsi al servizio – almeno tendenzialmente, e qualora voltino le spalle all’esperienza – di regressioni e restrizioni degli spazi di libertà. Dall’argomento testualista – e dal richiamo acritico a precedenti lontani nel tempo, e connessi a contesti storico-sociali assai diversi dall’attuale – discende, in altre parole, l’insistenza sulla riduzione meccanica dell’atto sessuale, indipendentemente dal suo carattere consensuale o violento, dall’età dei soggetti coinvolti nonché, più in generale, dalla dimensione affettiva, dall’esperienza e dallo stile di vita della persona “incriminata” e, in altre parole, dalla sua concreta situazione di esistenza. Ne consegue, a cascata, anzitutto, la negazione di ogni illegittima discriminazione tra etero- ed omosessuali, dal momento che, sostiene la Corte, i comportamenti sessuali “secondo” e “contro” natura non sono assimilabili come oggetto di disciplina e, dunque, il loro trattamento differenziato è in sé giustificato.

La riduzione meccanica del comportamento sessuale, inoltre, incide sul nesso tra condotta sessuale e stile di vita omosessuale o, in senso lato, appartenenza alla comunità LGBT: per tale via, infatti, la Corte può omettere di considerare che gli atti sessuali oggetto di repressione penale – in buona sostanza, ogni forma di contatto sessuale diversa dalla penetrazione vaginale – costituiscono la normale espressione dell’affettività e della sessualità tra persone dello stesso sesso e, di conseguenza, può escludere che la criminalizzazione di tali condotte contribuisca alla stigmatizzazione di uno stile di vita e di una comunità (per giunta minoritaria).

Potrebbe legittimamente domandarsi, a questo punto, se – ed in quale misura – l’insistenza sulla riduzione meccanica degli atti mascheri posizioni di pregiudizio, disgusto o malcelata stigmatizzazione dello stile di vita omosessuale. Nel linguaggio usato dalla sentenza, peraltro, sembra di poter cogliere significativi segnali in tal senso: al di là della scelta dei precedenti – si pensi ancora al caso del “sexual intercourse with a bullock” ma anche, più seriamente, ai numerosi casi di applicazione della norma censurata a casi di violenza sessuale su minori – vi è, in particolare, una frase, posta in conclusione della sentenza, nella quale la Corte, aprendo la critica all’uso della comparazione da parte della High Court di Delhi, biasima “its anxiety to protect the so-called rights of LGBT persons” (p. 93) L’uso della locuzione “so-called” (cosiddetti), assieme al carattere del tutto eterogeneo dei precedenti richiamati – che mettono sullo stesso piano comportamenti sessuali molto diversi fra loro, ignorando la concreta condizione di esistenza delle persone omosessuali (e anzi accomunandola, non si sa quanto coscientemente, a comportamenti senz’altro riprovevoli) – dice molto sul grado di sensibilità della Corte suprema rispetto alla questione omosessuale.

Altri due, essenzialmente, gli argomenti posti a “copertura” del salvataggio dell’art. 377 del Codice penale.

In primo luogo, una concezione “relativa” di “privacy” e “dignity” (pp. 85 ss.), vale a dire l’indefinita possibilità di inserire quest’ultima in operazioni di bilanciamento con altri valori e principi costituzionalmente rilevanti. Ora, se il carattere relativo o “ponderabile” del principio-dignità è acquisizione – dibattuta, ma abbastanza frequente – nella dottrina e nella giurisprudenza europea (v. per tutti, Ridola, La dignità dell’uomo e il principio “libertà” nella cultura costituzionale europea, in Id., Diritto comparato e diritto costituzionale europeo, Giappichelli, pp. 77-138), non vi è dubbio che, nel procedere a tali operazioni di bilanciamento, siano necessario un uso di cautela e un approccio critico sensibile alla concretezza delle situazioni di vita coinvolte. In tale ottica, sembra assai discutibile un’operazione di acritico bilanciamento tra autodeterminazione in materia sessuale e morale maggioritaria, quasi che – echeggiando Bowers v. Hardwick, ove non addirittura il  dissent di Scalia in Lawrence v. Texas (peraltro espressamente richiamato da una delle parti nella propria memoria) – la Corte abbia voluto accedere alla qualificazione della difesa della morale maggioritaria quale “legitimate state interest” (cfr. p. 85, 87, 90).

Tale ultimo riferimento si collega strettamente al secondo degli argomenti utilizzati dalla Corte “a copertura” della propria posizione, ovvero la revisione critica del ricorso alla comparazione da parte del giudice, accompagnata da una forte attenzione al contesto sociale e culturale (pp. 93 ss.).

Nelle ultime pagine della sentenza, infatti, la Corte si diffonde sulle virtualità e, soprattutto, i limiti dell’uso di precedenti stranieri nell’itinerario di decisione. Pur riconoscendo – nell’analisi della sentenza impugnata – che il ricorso a precedenti stranieri possa gettare molta luce (“shed considerable light”) sulla portata di privacy, autonomy e dignity, e sulla condizione delle minoranze sessuali, la Corte esclude che questi possano essere “applicati ciecamente” (“blindfolded”) al giudizio di costituzionalità di una norma legislativa indiana (p. 93). Piuttosto, è necessario un esame critico dei principi desumibili dalle esperienze straniere, al fine di verificare la loro applicabilità alle “condizioni, norme e atteggiamenti (attitudes) sociali” tipici dell’India: in altre parole, il giudice deve usare attenzione e circospezione (essere “wakeful” e “circumspect”) ed evitare di rendere un giudizio che, per troppa sensibilità verso “l’esterno”, perda il contatto con il contesto sociale e culturale di riferimento. Non sembrerebbe, dunque, di essere di fronte ad un atteggiamento di radicale chiusura verso l’uso della comparazione, ma ad una rivendicazione di autonomia critica ed interpretativa nell’ottica di un accomodamento tra la protezione dell’identità della cultura giuridica indiana e l’apertura al patrimonio normativo e interpretativo di esperienze straniere: la Corte non nega, insomma, l’utilità “in astratto” della comparazione, ma afferma la necessità di non rimanere “accecata” dal riferimento ad esperienze diverse (“while we should seek light from whatever source we can get, we should however guard against being blinded by it”) (pp. 96-97).

Si tratta, indubbiamente, di una posizione complessa, che suscita non poche riflessioni per il comparatista, specie sotto il profilo dei rapporti tra comparazione, relazione con l’altro e revisione critica della propria identità (secondo l’insegnamento di maestri come Legrand, o – in Italia – Cervati). Per un verso, la Corte sembra infatti segnare un punto di mediazione tra posizioni di chiusura e posizioni di incondizionata apertura nei confronti del ricorso alla comparazione; ma, d’altro canto, essa si arresta sulla soglia del confronto critico con i principi desumibili dai precedenti stranieri richiamati dalla sentenza impugnata, invocando – senza meglio precisare – la specificità del contesto storico e culturale indiano.

Insomma – per riprendere la classificazione di Vicki Jackson –, pur ponendosi a metà strada tra Resistance e Convergence, la Corte suprema indiana non riesce ad impegnarsi apertamente nel confronto, e dunque ad assumere un atteggiamento di Engagement. Sembra, in altre parole, che l’uso della comparazione debba limitarsi al rafforzamento di percorsi argomentativi condotti esclusivamente all’interno dell’ordinamento di appartenenza, piuttosto che servire – come pure potrebbe (dovrebbe?) essere – da utile referente critico per meglio conoscere se stessi e, se del caso, crescere sulla via della miglior protezione dei diritti.

Resta il sospetto – o forse qualcosa di più – che dietro alla formale apertura, si nasconda la paura del confronto; e nella difesa della specificità del contesto, s’intravede in controluce la protezione della sua interpretazione “maggioritaria”, anziché l’adeguata considerazione della sua ricchezza e complessità.