Indennità di licenziamento e garanzie (costituzionali ed europee) del lavoratore
1.Anticipato l’esito del giudizio da un comunicato stampa del 26 settembre, come divenuto usuale per le decisioni della Corte costituzionale di maggior impatto sull’opinione pubblica, lo scorso 8 novembre è stata depositata la sent. 194/2018 che ha dichiarato parzialmente illegittimo uno dei punti qualificanti della riforma del lavoro del Governo Renzi, il c.d. Jobs Act. Nello specifico, la decisione ha colpito la previsione normativa concernente il meccanismo di determinazione dell’indennità spettante al lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato (art. 3, c. 1, d.lgs. 23/2015, nel testo originario e in quello risultante dalle modifiche apportate dal recente “decreto dignità”, d.l. 87/2018 conv. in l. 96/2018).
La pronuncia era molto attesa, non solo per l’accennata risonanza mediatica del suo oggetto, ma anche per le implicazioni di politica del diritto che – secondo diversi studiosi – sarebbero potute derivare dalle argomentazioni giuridiche impiegate dalla Corte. Le idee che hanno ispirato le scelte di fondo della riforma, si sa, sono riconducibili alla nota prospettiva della c.d. flexicurity, nella convinzione che alla flessibilità derivante dallo spostamento delle tutele dal rapporto di lavoro al mercato consegua naturalmente un benefico effetto espansivo dei livelli occupazionali. Per contro, va detto che l’efficacia di questa “scommessa” – ché di ciò si tratta – non è suffragata da dati certi e univoci e neppure può ritenersi pacifica «sul piano scientifico» (così, C. Salazar, Jobs Act e Costituzione: qualche riflessione, in Quad. cost., 1/2016, 96, ma v. pure V. Speziale, Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti tra costituzione e diritto europeo, in Riv. it. dir. lav., 1/2016, 112 s.).
È perciò comprensibile che la pronuncia, affrontando una questione fortemente divisiva tra le forze politiche e presso l’opinione pubblica, sia accolta dall’uditorio non specializzato con l’attesa di trovarvi – a seconda delle preferenze – una conferma o una smentita della costituzionalità di un certo indirizzo politico (secondo quanto sostenuto, ma in ben altro contesto, da autorevole dottrina molti anni fa: T. Martines, Contributo ad una teoria giuridica delle forze politiche, Milano 1957, ora in Id., Opere, I, Milano 2000, spec. 206 ss.). In verità, per quanto in costante equilibrio tra “politica” (in un’accezione alta) e “giurisdizione”, l’attività delle Corti costituzionali non è diretta a vigilare ad ampio raggio su programmi e indirizzi generali perseguiti dal Governo e dalle forze parlamentari che ne sostengono l’azione, ma a sindacare su impulso esterno se puntuali manifestazioni di questa attività contrastino o meno con le norme costituzionali, argomentando di conseguenza. Questa considerazione, per molti versi scontata, va tenuta presente anche al fine di non scambiare l’odierna decisione per una “compensazione” della precedente sent. 26/2017 che ha dichiarato inammissibile il referendum abrogativo sul Jobs Act promosso dalle organizzazioni sindacali: ciascuna di queste pronunce costituisce, infatti, l’atto terminale di procedure di controllo che hanno scopi, presupposti e limiti proprî e non sovrapponibili.
Prendiamo dunque la sent. 194 per quel che è: una decisione riguardante uno specifico problema di legittimità costituzionale di una puntuale norma di legge. Ciò non impedisce, ovviamente, che dai princìpi che sorreggono la pronuncia sia possibile trarre implicazioni ulteriori, magari idonee ad offrire un orientamento per futuri indirizzi legislativi di cui Parlamento e Governo mantengono l’esclusiva responsabilità; ma questo attiene, più che alla singola decisione, alle potenzialità generative del testo costituzionale, di cui la Corte è certamente interprete privilegiato (e potenzialmente “ultimo”), ma non certo esclusivo.
2.La sentenza, tecnicamente qualificabile “a dispositivo multiplo”, interviene su un aspetto fondamentale della riforma, ossia il computo dell’indennità spettante al lavoratore licenziato in assenza di giusta causa o giustificato motivo oggettivo o soggettivo, mentre respinge come inammissibili o infondati gli ulteriori dubbi di legittimità sollevati nell’ordinanza di rimessione. Quest’ultima, tra l’altro, aveva un oggetto assai ampio e mirava a mettere in discussione l’impostazione di fondo della nuova disciplina, con una decisa critica al generale arretramento delle tutele che dalla stessa sarebbe scaturito (per opposte valutazioni sui possibili esiti di tale tentativo, cfr. M. Cavino, Il contratto di lavoro a tutele crescenti al vaglio della corte costituzionale e V. Speziale, Il problema della legittimità costituzionale del contratto a tutele crescenti, entrambi in AA.VV., La normativa italiana sui licenziamenti: quale compatibilità con la Costituzione e la Carta sociale europea?, in www.forumcostituzionale.it, 28.06.2018, ma v. pure G. Fontana, Le questioni di costituzionalità del contratto a tutele crescenti, in Dir. lav. merc., 3/2017, 613 ss.; in generale sulla riforma, cfr. già M.V. Ballestrero, La riforma del lavoro: questioni di costituzionalità, in Lav. dir., 1/2015, 41 ss. e S. Giubboni, Profili costituzionali del contratto di lavoro a tutele crescenti, in Costituzionalismo.it, 1/2015, 12 ss.).
L’inammissibilità è dovuta, per un verso, al difetto di applicabilità al caso dedotto in giudizio di alcune delle disposizioni denunciate (artt. 2 e 4, nonché art. 3, cc. 2 e 3, del citato d.lgs. 23/2015) e, per un altro, alla insufficiente motivazione della “non manifesta infondatezza” (art. 1, c. 7, lett. c, della legge delega 183/2014). Tali profili restano dunque del tutto impregiudicati per il futuro. Non così, invece, per le questioni dichiarate infondate: sebbene, com’è noto, le sentenze di rigetto non chiudano affatto la partita (limitandosi ad attestare la “non incostituzionalità” della norma di legge in relazione ad una specifica «situazione normativa», ma non pure la sua “costituzionalità” tout court: cfr., per tutti, A. Ruggeri-A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale6, Torino 2019, 175 ss.), le argomentazioni impiegate dalla Corte manifestano un’evidente prudenza nell’intervenire sul merito delle scelte discrezionali del legislatore, rendendo al momento improbabili – benché non impossibili – futuri ripensamenti.
Ciò vale per la denunciata violazione del principio di eguaglianza ex art. 3, in relazione al duplice profilo del trattamento meno favorevole riservato ai neoassunti rispetto ai lavoratori già in servizio (in ragione del mero fatto accidentale, estrinseco al rapporto instaurato, che l’assunzione sia successiva o antecedente al 7 marzo 2015) e della irragionevole differenziazione tra gli stessi neoassunti in base alla qualifica rivestita (la nuova disciplina non si applica infatti ai dirigenti). Quanto al primo aspetto, la Corte non solo ribadisce il proprio costante orientamento secondo cui «il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche», salvo la verifica della sua irragionevolezza, ma ritiene pure che, nel caso di specie, il criterio temporale di applicazione del nuovo regime sia coerente con la ratio ispiratrice della riforma – incentivare l’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, connettendovi una maggiore flessibilità in uscita – e dunque non appaia irragionevole (mentre esulerebbe dai compiti della Corte giudicare se tale politica sia pure efficace). Relativamente al secondo profilo, poi, si esclude che le due situazioni siano omologabili, in ragione del diverso trattamento complessivo che la legislazione esistente riserva ai dirigenti.
Espressione di analogo self-restraint, nei riguardi stavolta del giudice dell’Unione, è poi la scelta di dichiarare infondata la questione relativa al presunto contrasto con l’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE sul diritto alla tutela contro il licenziamento illegittimo. Seguendo un orientamento consolidato della Corte di giustizia (ma non esente da critiche sul piano dottrinale), il giudice delle leggi circoscrive la rilevanza di tale Carta alle ipotesi in cui la disciplina nazionale ricada «nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione», secondo un’interpretazione particolarmente restrittiva di tale formula che porta ad escludere la sua utilizzabilità come parametro quando la materia, ancorché di competenza dell’UE, non sia stata nei fatti disciplinata da atti normativi dell’Unione, come appunto avviene nel caso specifico.
3.Veniamo ora alla parte centrale della sent. 194, che riconosce l’illegittimità del citato art. 3, c. 1, limitatamente al “frammento” testuale che vincola in modo rigido il giudice, in caso di licenziamento ingiustificato, a condannare il datore di lavoro al pagamento di un’indennità «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio». Ad avviso del remittente, non è in discussione la scelta legislativa di escludere in casi del genere la tutela reale, sostituendola con la sola tutela indennitaria (salve le eccezioni previste negli artt. 2 e 3, c. 2, d.lgs. cit.). Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte, la Costituzione non impone una preferenza per l’uno o l’altro strumento di tutela, ma solo il principio della «necessaria giustificazione del licenziamento» (sent. 46/2000), ovvero la sua non arbitrarietà; né essa richiede che la riparazione del pregiudizio patito dal lavoratore sia “integrale” ma solo “adeguata” (sent. 303/2011). Dunque, il problema si sposta dalla tipologia della tutela (reintegrazione/indennizzo) al quantum da corrispondere. Ed è su questo aspetto che si concentrano le censure del remittente, condivise anche dalla Corte.
Nel quantificare l’indennità da corrispondere, nei limiti minimo e massimo fissati, al lavoratore ingiustamente licenziato, il giudice è infatti tenuto a seguire un criterio rigido e predeterminato dalla legge (parametrato esclusivamente sull’anzianità di servizio) che gli preclude qualunque valutazione discrezionale legata alla situazione di fatto. Questo automatismo, come altri simili in passato, è ritenuto dalla Corte contrario alla Costituzione, nello specifico per tre motivi: a) in quanto determina, in violazione dell’art. 3 Cost., un’irragionevole omologazione di situazioni diverse, impedendo al giudice di prendere in considerazione anche gli ulteriori elementi che l’evoluzione legislativa in materia ha finora contemplato (come il numero dei dipendenti, le dimensioni economiche dell’azienda o il comportamento delle parti); b) poiché non assicura una tutela adeguata al pregiudizio patito dal lavoratore e non scoraggia comportamenti illegittimi della parte datoriale, soprattutto in relazione alle fattispecie più vicine alla soglia inferiore dell’importo (in corrispondenza di una bassa anzianità di servizio), eludendo la duplice funzione compensativa e dissuasiva che discende dalla natura sostanzialmente “risarcitoria” dell’indennizzo da corrispondere (artt. 3, 4 e 35 Cost.); infine, c) perché viola gli obblighi internazionali, richiamati anche tra i criteri direttivi della legge delega, con particolare riguardo – e questo sembra molto rilevante – all’adesione dell’Italia alla Carta sociale europea, il cui art. 24 impone alle Parti contraenti di riconoscere al lavoratore ingiustamente licenziato il «diritto ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione», con considerazioni di merito che si saldano a quelle appena viste (artt. 76 e 117, c. 1, Cost.).
Tra i molti aspetti degni di nota, ci limitiamo a segnalare appunto il rinvio alla Carta sociale, la cui sostanziale assenza dal circuito delle garanzie giudiziarie dei diritti viene da tempo additata da una parte della più recente dottrina come una colpevole disattenzione dell’ordinamento italiano. Benché il grado di vincolo riconosciuto a tale trattato sia in vari aspetti inferiore a quello tributato alla più nota Cedu (v. spec. la sent. 120/2018), l’esplicita attrazione della Carta nel controllo di costituzionalità rappresenta un indubbio passo avanti nelle relazioni fra tutela interna ed esterna (europea) dei diritti fondamentali, che specie nella materia sociale mostra tuttora non piccole difficoltà di coordinamento. Incoraggiante è la diretta presa in considerazione – tanto nell’ordinanza di rimessione quanto nella sentenza della Corte – delle determinazioni dell’organo di controllo della Carta sociale, il Comitato europeo dei diritti sociali, la cui “voce” più di una volta ha offerto (in controtendenza rispetto all’atteggiamento complessivamente “freddo” delle Corti europee) una valida sponda all’incerta garanzia apprestata sul piano interno ai diritti sociali conculcati dalla crisi economico-finanziaria dell’ultimo decennio, contribuendo in modo deciso a riaffermare nei fatti il principio di “indivisibilità” dei diritti fondamentali e delle relative tutele (per maggiori approfondimenti sul punto, v. AA.VV., La Carta sociale europea tra universalità dei diritti ed effettività delle tutele, a cura di C. Panzera, A. Rauti, C. Salazar e A. Spadaro, Napoli 2017).
Di tale vicenda sentiremo ancora parlare, visto che lo scorso anno la CGIL ha depositato presso il Comitato europeo un reclamo collettivo (n. 158/2017, dichiarato ammissibile il 20.3.2018) mirante ad accertare la compatibilità della normativa in questione con il citato art. 24 della Carta. La sentenza qui brevemente commentata non mancherà di porsi come un autorevole riferimento per la decisione nel merito del reclamo, quale primo passo di un “dialogo” fra Corte costituzionale e Comitato europeo che può aprire a molte e auspicabili convergenze per la garanzia dei diritti sociali in uno spazio europeo integrato e materialmente “costituzionale” tuttora in via di costruzione.