Alla ricerca del fondamento: a proposito dell’ultimo libro di Martin Loughlin

In un suo recente scritto Sabino Cassese, riflettendo sulla situazione attuale del diritto amministrativo e della sua scienza in Italia, rilevava che il diritto amministrativo vive oggi un significativo arricchimento delle tematiche studiate, cui si accompagna però una forte difficoltà metodologica; che l’appannamento del legame con la tradizione romanistica è sempre più causa di insicurezze e imprecisioni nell’impiego di concetti e termini fondamentali della disciplina; e, infine, che tra i due principali rami del diritto pubblico interno, il costituzionale e l’amministrativo, si è prodotta una divaricazione che appare difficilmente ricomponibile nel breve periodo (Lo stato presente del diritto amministrativo italiano, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, 2010).

L’ultimo libro di Martin Loughlin, Foundations of Public Law (Oxford, OUP, 2010), sembra fare implicitamente i conti con numerosi di questi problemi. Si tratta del secondo pannello di un dittico inaugurato nel 2003 dal volume The Idea of Public Law e destinato a essere ulteriormente arricchito da un saggio su The Transformations of Public Law (si veda all’indirizzo http://www.lse.ac.uk/collections/law/staff/martin-loughlin.htm ). Si tratta di un’opera monumentale, che cerca di presentare una ricostruzione complessiva delle origini e del possibile declino del public law occidentale. In un imponente sforzo di chiarificazione concettuale autori e temi del dibattito giuspubblicistico contemporaneo sono costantemente posti a confronto con scrittori e dottrine della prima modernità, col proposito di offrire un’immagine unitaria – anche se non necessariamente omogenea – di cinque secoli di riflessione teorica e di pratica istituzionale.
Come viene spiegato nell’introduzione, il libro adotta una nozione “ampia” di diritto pubblico, che va al di là delle disposizioni di diritto positivo, come quelle contenute nelle carte costituzionali dal Settecento a oggi. L’autore si scontra, da questo punto di vista, con un importante problema linguistico: “we lack the vocabulary for distinguishing between law as an instrument of government (lex, la loi, das Gesetz) and law as an expression of the constitutive principles of right-ordering (ius, le droit, das Recht). In this study, we are concerned with the right-ordering of state, in Latin transcribed as ius publicum, in French expressed as droit politique, and in German as allgemeines Staatsrecht. For English speakers, however, if we are not to invoke the ambiguous expression ‘political right’, or the downright confusing ‘political law’, the concept must simply be rendered as public law” (pp. 8-9). Nel Regno Unito questa operazione è tanto più difficile a causa del prestigio della tradizione intellettuale che prende le mosse dal positivismo di Austin e Bentham: “in order to address these foundational questions, the British are obliged to re-connect with the mainstream of the European tradition of public law” (p. 6).
Per queste ragioni, accanto a finalità di ordine teorico-generale, il libro ha anche un’ispirazione più prettamente “nazionale”, poiché cerca d’intervenire nel dibattito giuspubblicistico britannico attuale con un intento di chiarificazione. In particolare, secondo l’autore la discussione sugli assetti costituzionali del Regno Unito sarebbe falsata proprio da scarsa consapevolezza intorno alla distinzione tra positive law e fundamental law. Il libro si prefigge perciò di mostrare che la vicenda britannica, per quanto risulti caratterizzata da indubbie particolarità – dalla quasi ininterrotta ascesa del Parlamento alle celebri ricostruzioni diceyane sull’inesistenza di un diritto amministrativo oltremanica – nondimeno non può essere considerata realmente eccentrica rispetto alla più ampia tradizione europea (e, in un secondo momento, anche nordamericana). Così, con una costante attenzione alla comparazione diacronica e sincronica, è presa in esame l’ambiguità – e, in ultima analisi, la scarsa utilità euristica – di nozioni come rule of law, Rechtsstaat, État de droit.
Per cogliere in tutta la sua complessità un fenomeno che va ben al di là del diritto positivo, l’autore adotta consapevolmente un metodo interdisciplinare, in cui trovano posto la storia, la filosofia politica e la sociologia; c’è una particolare attenzione, inoltre, nei confronti di giuristi positivi come Duguit, Schmitt o Mortati, attenti alla questione delle forze e dei principi che legittimano un determinato assetto di potere. Il diritto pubblico è preso in considerazione come una creazione specificamente europea, legata alla separazione del diritto e della politica dalle sfere sociale e religiosa.
Per quanto riguarda il focus, la dimensione statuale assume un rilievo preminente: così, “Sovereignty now presents itself as a representation of the autonomy of the public sphere” (p. 186), mentre “The concept of the state is the entity that gives us access to the nature of modern political reality and provides the key to understanding the nature of public law. It forms a scheme of intelligibility” (p. 208). Lo stesso vale per l’individuazione dell’oggetto della disciplina: “By public law as an autonomous field we mean the arrangements that sustain the modern immanent concept of sovereignty” (p. 86).
Sarebbe velleitario provare a dar conto in maniera esaustiva dei temi e della fitta trama di connessioni presentati nell’opera. Una possibile chiave di lettura muove dalla considerazione che secondo l’autore lo sviluppo del diritto pubblico appare segnato e internamente plasmato da alcune tensioni; il public law può perciò essere riguardato, di volta in volta, come la risultante di alcuni campi di forze. Ci limitiamo a citare alcuni esempi. Il primo è la dialettica tra storia e ragione. L’adozione di una prospettiva interdisciplinare nell’indagine sulle origini del diritto pubblico, in effetti, risulta confermata dalle circostanze in cui la disciplina venne ad esistenza: sulla scia delle considerazioni del Carl Schmitt di Ex captivitate salus sulle origini della scienza giuridica europea, la laicizzazione del pensiero politico che ebbe luogo nei secoli XVI e XVII “produced an approach to jurisprudence that was historical and comparative in nature. This historical approach challenged the universal metaphysics of medieval scholasticism and sought to restore the idea of law as a system of practical knowledge (juris prudentiae) geared to the concerns of civil government” (p. 50 e s.). L’universalismo del diritto romano, d’altra parte, era collegato alla giustificazione dell’autorità del Sacro Romano Impero.
Come i giuristi bolognesi del Basso Medioevo ebbero un ruolo fondamentale nella ricezione del Corpus giustinianeo, così alcuni legisti francesi del secolo XVI affermarono in maniera decisiva l’idea che “public law principles derived not from Justinian’s Code but from historical investigation of the legal and political practices of the European states” (p. 53). Il punto d’arrivo di quell’elaborazione, che Loughlin fa coincidere con la nascita del public law, è rappresentato dall’opera di Bodin Methodus ad facilem historiarum cognitionem (1566). Si tratta, a dispetto del titolo, del “manifesto” di un nuovo metodo di analisi giuridica: la lex terrae deve essere studiata non coi tradizionali metodi esegetici tramandati fin dal Medioevo, ma per mezzo dell’indagine storica e comparatistica. Così, il potere del monarca legibus solutus deve ritenersi limitato dalle leggi fondamentali, di origine immemorabile, che costituiscono l’ufficio del sovrano, e dal diritto naturale. Il risultato di questo approccio è però l’edificazione di una public sphere come ambito di azione autonomo, svincolato dalle dispute religiose della prima modernità. Il pensiero di Bodin fu razionalizzato e compiutamente formalizzato nel corso del secolo XVII da autori come Grozio, Hobbes e Pufendorf, che “laicizzarono” gli elementi più problematici del pensiero di Bodin, come le fonti di legittimità del potere sovrano e il suo rapporto col diritto naturale. Alla base dell’architettura del diritto pubblico e dell’edificio statuale rimase, però, la problematica dialettica fra storia e ragione, sorprendentemente riconosciuta anche dal Cartesio del Discorso sul metodo: “use of the architectural metaphor with respect to public law highlights yet again the tensions between reason and history, rationality and empiricism” (p. 101). Da questo punto di vista, una trattazione equilibrata dei fondamenti di un ordinamento può essere rintracciata nella English Constitution di Bagehot e nella teorizzazione che vi si fa di una efficient e di una dignified constitution. Altro passaggio fondamental
e di quell’evoluzione è la trasformazione del fundamental law o droit politique in positive law, avviata dal Chief Justice Marshall nel 1803: da lì ha preso le mosse l’apparentemente irresistibile ascesa del potere giudiziario, proseguita con ancora maggior vigore nel secolo XX: “one of the most characteristic features of contemporary American constitutionalism, namely its extreme legalism combined with its rights foundationalism. … The American system may be exceptional, but there is little reason to doubt that, albeit in varying degrees, other constitutional regimes are following the lines of its trajectory” (p. 356 e s.).
Un’altra coppia antinomica di grande rilievo per l’economia del libro si trova nel capolavoro di Bodin, la République. Lo svolgimento di quest’opera prende le mosse non dal sovrano, ma dalla “repubblica ben ordinata”. Come ha chiarito Foucault nelle lezioni tenute al Collège de France nel 1975-1976, l’attenzione si sposta dal potere supremo di comando al campo di forze in cui questo è generato (p. 62). Da qui l’insistenza su un’altra coppia di concetti, compiutamente teorizzati da Spinoza nel Tractatus Theologico-Politicus, potestas e potentia: l’autorità legittima (“the rigthful power of an office-holder, the authority to rule”) contro l’effettiva disponibilità di risorse politiche in capo agli apparati di governo (“the type of power that derives from the state’s control of resources”), ripresa più recentemente da Foucault sotto l’etichetta gouvernmentalité. Si tratta forse della distinzione cruciale, poiché consente di rendere ragione della crescente inadeguatezza del costituzionalismo sette-ottocentesco rispetto alla crescita degli apparati amministrativi nell’età contemporanea e, in secondo luogo, della tensione fra il diritto costituzionale e il diritto amministrativo. Anche in questo caso, un concetto-chiave del diritto costituzionale britannico – la royal prerogative – è assunto come caso paradigmatico di uno sviluppo più generale, di cui fanno parte il disciplinamento sociale nelle società calviniste e il cameralismo e la Polizeiwissenschaft germanici. La distinzione tra Justiz e Polizei ripropone quella tradizionale tra iurisdictio e gubernaculum e, di nuovo, quella fra potestas e potentia.
L’ascesa dell’attività amministrativa degli apparati pubblici – prevalentemente rivolta a fini in senso lato “sociali” – è all’origine di una possibile, radicale inversione di prospettiva, esposta per la prima volta in forma estesa da Léon Duguit: “Duguit’s argument is that the revolutionary settlement based on the sovereignty of the state and the natural rights of the individual is now dead. … Government will thus derives from its function, which is to promote social solidarity. In this way, the idea of public service replaces the concept of sovereignty as the foundation of modern public law” (p. 405). Si tratterebbe, come si vede, di un radicale rovesciamento dei fondamenti del public law.
Tra i fenomeni che sembrano indicare che è in corso una transizione di vasta portata viene segnalata, in particolare, l’ascesa dell’“eforato”. Con questa espressione, tratta da Fichte, si indica una congerie di istituzioni e di procedimenti che “expresses a new phase in the development of government” (p. 450). Si tratta, per esempio, delle autorità amministrative indipendenti: “a new branch of government comprising office-holders who possess the type of expertise and specialised knowledge that has become the basis of effective governmental decision-making” (p. 450). Secondo alcune ipotesi estreme, il ruolo sempre più influente dell’“eforato” negli ordinamenti contemporanei renderebbe obsoleto l’intero edificio del costituzionalismo moderno, in cui è ineludibile l’elemento della rappresentanza politica. L’attività degli “efori”, inoltre, sarebbe rivelatrice di un appannamento della distinzione fra questioni costituzionali e amministrative e, conseguentemente, anche di quella fra pubblico e privato: “an overcoming of the tensions between potestas and potentia, and … the destruction of the modern edifice of public law” (p. 462).
La dimensione dell’integrazione sovranazionale è trattata soltanto nelle ultime pagine del volume ed è presa in considerazione come una manifestazione – forse la più significativa – di quelle trasformazioni del diritto pubblico che rivelano un’erosione della distinzione fra pubblico e privato, cosicché “government is conceived not as the exercise of sovereign authority but the realization of social objectives through a network of institutions” (p. 462). Così, l’UE si occupa prevalentemente di materie riconducibili alla Polizei, nella sua architettura istituzionale non trova posto uno dei cardini del costituzionalismo, la separazione dei poteri tradizionalmente intesa; nei suoi processi decisionali ha un rilievo cospicuo il c.d. eforato.
Il libro si chiude con una conclusione “aperta” e non priva di pessimismo: la possibile fine dell’autonomia della public sphere dal “sociale” si accompagna anche a un ritorno del “religioso”; da questi sviluppi possono scaturire “confusion, disappointment, and the generation of new forms of conflict” (p. 465).