Il valore emblematico del superamento del giudicato nei conflitti intorno ai diritti in Europa. A margine del libro di Vincenzo Sciarabba, Il giudicato e la CEDU. Profili di diritto costituzionale, internazionale e comparato, CEDAM, 2012 (I-XXVII, 1-272)
A chi osservi la giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni in merito all’efficacia della CEDU nel diritto interno non può sfuggire come i percorsi di questa integrazione siano sempre più evidentemente segnati da conflitti di natura sistemica. Con essi intendo quei casi in cui alla Corte costituzionale, per il tramite delle relative questioni di legittimità, viene addossato l’onere di risolvere contrasti tra norme di legge e CEDU che si allontanano dal canone del giudizio di costituzionalità, perché l’input proveniente dal diritto convenzionale richiede un nuovo inquadramento di interi settori normativi ormai consolidati nell’interpretazione costituzionale e nell’applicazione giudiziaria, quando non una loro ricalibratura alla luce di nuovi termini e tecniche di bilanciamento. In questi casi appare costante, in altre parole, una vocazione delle singole questioni in giudizio a rimettere in discussione valutazioni e scelte ordinamentali il più delle volte connesse con la salvaguardia di interessi costituzionalmente rilevanti, che la Corte è sollecitata in vario modo a riconfigurare in modi nuovi rispetto al passato. E se ciò, in certa misura, avviene spesso nel giudizio di costituzionalità, la peculiarità di questi casi è che qui a venire in contatto sono propriamente le diverse grammatiche dei diritti veicolate dalle due Corti: diversità che può preludere ad un avvicinamento del diritto interno alla Convenzione nelle vesti di un riequilibrio di sistema del primo alla seconda, come anche al perdurare di contrasti (che nella giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni ha preso le sembianze del rinvio al “margine d’apprezzamento interno”).
Esempi di questi orientamenti possono essere fatti rinviando alla giurisprudenza sull’art. 6 CEDU e sul connesso (tendenziale) divieto di leggi di interpretazione autentica nonché sull’art. 7 CEDU e il connesso diritto a giovarsi della retroattività in mitius, in cui com’è noto persiste un contrasto tra le due Corti legato ad una radicale diversità di prospettive. Si possono poi richiamare casi che presto occuperanno la scena, come quello scaturente dalle condanne subite dall’Italia per violazione dell’art. 3 CEDU in ragione delle condizioni inumane in cui sono ridotti i detenuti (che ha spinto il Tribunale di Sorveglianza di Venezia, a seguito della sentenza pilota resa dalla Corte di Strasburgo nel caso Torreggiani c. Italia, a sollevare q.l.c. dell’art. 147 c.p. “nella parte in cui non prevede, oltre ai casi ivi espressamente contemplati, l’ipotesi di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena quando essa debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità”).
Il filone giurisprudenziale maggiormente rappresentativo di questo orientamento resta tuttavia quello legato al superamento del giudicato penale di condanna in quei casi in cui esso sia scaturito da un processo ritenuto non equo dalla Corte europea, in violazione dei dettami dell’art. 6 CEDU, su cui ad un riallineamento si è infine giunti con la nota sentenza n. 113 del 2011 della Corte costituzionale. Ed è proprio all’attenta analisi di questo filone, delle sue implicazioni costituzionalistiche come dei suoi riflessi comparatistici e internazionalistici, che è dedicato il recente volume di Vincenzo Sciarabba su “Il giudicato e la CEDU. Profili di diritto costituzionale, internazionale e comparato”. Da anni attento a misurarsi su questo tema, l’autore sceglie meritoriamente di legare innanzi tutto la prospettiva d’indagine incentrata sull’evoluzione registratasi nel diritto interno al complesso quadro che ha sorretto l’elaborazione, a livello internazionale, del principio che impone la restitutio in integrum del soggetto leso nelle sue garanzie processuali, da realizzarsi attraverso la nuova celebrazione del processo (imperniato, oltre che sulle pronunce della Corte, sulle risoluzioni del Comitato dei Ministri). Merita di essere segnalata, da questo punto di vista, l’attenta ricostruzione delle premesse interordinamentali che hanno guidato l’evoluzione interna sino alla citata sent. n. 113, in particolar modo quelle connesse al valore da attribuirsi agli artt. 41 e 46 CEDU, che hanno costituito le basi per assicurare l’efficacia del principio a livello interno e intorno alle quali si è venuta strutturando l’esigenza di superamento del giudicato interno, caratterizzato dall’attribuzione a tali articoli di una particolare efficacia “conformativa” delle decisioni degli organi di Strasburgo (p. 22). Alla luce delle notazioni svolte in apertura, appare infatti emblematica la proposta suggerita da Sciarabba di legare la nozione di “impossibilità giuridica interna imperativa” – che ad avviso del Comitato dei Ministri costituisce l’unica esimente possibile per gli Stati membri rispetto alla mancata restitutio in integrum della riapertura del processo – con il livello costituzionale dei relativi principi che osterebbero a tale soluzione, con l’accortezza, tuttavia, che “anche una simile limitazione … potrebbe, in alcuni casi limite – che peraltro sarebbero proprio quelli in cui maggiormente si avvertirebbe l’esigenza di un controllo sovranazionale – rivelarsi insufficiente ai fini della piena tutela dei diritti fondamentali” (p. 27).
L’analisi dei profili costituzionali è attentamente condotta mettendo in luce innanzi tutto le diverse strade intraprese dai giudici interni al fine di soddisfare l’imperativo di tutela promanante dalle istituzioni europee e particolarmente interessanti appaiono, in questa chiave, le critiche che vengono rivolte ai tentativi condotti attraverso un’interpretazione analogica dell’art. 670 c.p.p. (sull’ineseguibilità del giudicato) e dell’art. 625-bis c.p.p. (ricorso straordinario avverso le sentenze di cassazione), come avvenuto rispettivamente nei casi Dorigo e Drassich. Soluzioni che, condivisibilmente, vengono ritenute insoddisfacenti sia perché appare assai flebile il collegamento analogico tra le ipotesi ivi contemplate e l’esecuzione delle decisioni europee, sia, soprattutto, perché esse lasciano insoddisfatto l’interesse sostanziale alla rinnovazione del processo (pp. 36 e 51). Su questo scenario, caratterizzato quindi da un legislatore colpevolmente inerte e da una giurisprudenza ordinaria coraggiosa ma forse priva di strumenti per adeguarsi pienamente alle istanze provenienti da Strasburgo (e questo dato potrebbe forse mitigare alcune delle critiche rivolte alle pronunce in questione), l’intervento della Corte costituzionale (affidato alla già ricordata sent. n. 113 del 2011) ha rappresentato, ad avviso dell’autore, un’occasione “epocale” per far prevalere le ragioni della tutela dei diritti fondamentali rispetto ad esigenze di tenuta sistematica degli istituti processuali. In questa chiave, un’attenzione particolare è dedicata alle peculiarità della tecnica decisionale impiegata in quell’occasione, “dotata, dal punto di vista logico-giuridico, di caratteri in parte autonomi rispetto a quella che si concretizza nelle altre sentenze additive (sia quelle tradizionali, sia anche, per certi versi, quelle di principio), proprio per la sua maggiore ecletticità operativa e per il suo svincolarsi in maniera massima da valutazioni relative alla violazione di principi di eguaglianza, ragionevolezza e parità di trattamento di situazioni analoghe” (p. 64). Un esito decisionale, quello della peculiare pronuncia additiva cui la Corte ha fatto ricorso in quel caso, dietro il quale si celano problemi effettivamente molto complessi, primo fra tutti la conformazione che la nuova ipotesi di revisione dovrà avere: problemi che in parte la Corte ha risolto mediante le indicazioni operative rivolte ai giudici, ma che in parte restano affidate proprio a questi ultimi e all’interlocuzione che questi sono chiamati ad avere con gli organi europei quanto all’apprezzamento dei presupposti perché si dia la riapertura del processo (su cui Sciarabba si sofferma con attente precisazioni a p. 73).
La parte centrale del volume è poi dedicata, sulla base dell’analisi svolta sino a quel punto, ad indagare le soluzioni accolte in tutti gli ordinamenti dei quarantasette paesi membri della CEDU in merito ad una serie di aspetti problematici che Sciarabba isola e distingue attraverso una scomposizione dei momenti, dei presupposti e degli effetti della complessiva procedura di riapertura del processo richiesta dagli organi di controllo europei, mostrando in ciò una notevole padronanza del metodo di indagine comparatistica di natura tipologica. L’esito della ricerca comparata è di notevole interesse, soprattutto tenendo conto del fatto che “pressoché tutti, se non proprio tutti, i paesi aderenti alla CEDU hanno conosciuto nella prassi giurisprudenziale e/o specificamente disciplinato nei propri testi legislativi e/o considerato in via di principio ammissibili forme di riapertura del giudicato a seguito di decisioni della Corte di Strasburgo” (pp. 166-167). A partire dalla ricchezza e multiformità delle soluzioni accolte nei vari paesi, vengono ricostruiti i tratti comuni e i principali problemi applicativi riscontrati a partire dai singoli tratti della disciplina della riapertura, così come precedentemente isolati. Per fare un esempio tra i molti spunti che provengono dalla ricerca, tenendo anche conto delle prospettive che su questo punto dischiude la sent. n. 113 del 2011, ricordo solamente quello relativo al novero dei soggetti che possono beneficiare dell’effetto “espansivo” delle sentenze europee che hanno accertato una violazione: è possibile, e se sì in che termini, che a beneficiarne siano soggetti che non abbiano fatto ricorso ma che si trovino nelle stesse condizioni di un loro connazionale che ha fatto ricorso con successo alla Corte europea? E se la violazione, in situazioni ed in termini analoghi, è stata riscontrata nei confronti di un soggetto che ha fatto ricorso avverso un diverso Stato membro?
Da questo e dai molti altri spunti che vengono al lettore si può desumere quanto un simile orientamento rappresenti uno degli aspetti centrali e più interessanti dell’intera ricerca, perché consente di vedere all’opera un’attenta indagine microcomparatistica (ma con importanti riflessi “di sistema”) volta all’individuazione degli aspetti maggiormente problematici del rimedio forgiato dagli organi europei, per come essi sono stati rielaborati a livello nazionale, con l’obiettivo di enucleare – a partire dai risultati acquisiti – dei punti fermi da cui muovere nell’adozione di una normativa interna che nel nostro ordinamento, malgrado i molti disegni di legge presentati, è ancora assente.
In conclusione, quella su “Il giudicato e la CEDU” rappresenta una ricerca doppiamente interessante per il lettore attento alle vicende dell’attuazione e della garanzia dei diritti. Da un lato, perché ha ad oggetto una vicenda sicuramente paradigmatica delle difficoltà dell’integrazione tra diritto interno e sovranazionale, che però al tempo stesso mostra la ricchezza e la molteplicità dei canali di dialogo e di interazione tra gli attori coinvolti. Dall’altro lato, perché rivela brillantemente quanto anche in una materia tradizionalmente ritenuta coessenziale alle prerogative più riposte della sovranità statale come la firmitas del giudicato, l’imperativo della tutela dei diritti sia in grado di affermarsi in presenza di un’attività di lenta e complessa elaborazione di un principio comune di garanzia.