Il Super Tuesday 2020: vecchie fratture in un’America polarizzata
Il 3 marzo 2020 si è tenuto il Super Tuesday, giorno in cui si è votato contemporaneamente in più Stati per le elezioni primarie presidenziali statunitensi, in vista delle nomination per i candidati per le prossime elezioni presidenziali, che si terranno il 3 novembre.
Sia democratici che repubblicani hanno organizzato primarie o caucus in Alabama, Arkansas, California, Colorado, Maine, Massachusetts, Minnesota, North Carolina, Oklahoma, Tennessee, Texas, Utah, Vermont e Virginia. Gli elettori democratici hanno votato anche nel territorio delle American Samoa, che non facendo parte della Federazione non conta nessun Grande Elettore e dunque non entrerà nel processo elettorale di novembre. Gli elettori democratici all’estero hanno cominciato inoltre a votare proprio a partire dal 3 marzo alla cosiddetta primaria dei Democrats abroad, che sarà aperta sino al 10 marzo e che assegnerà in totale 21 delegati. I delegati della “sezione estero” voteranno insieme a tutti gli altri delegati di partito alla convention nazionale che si terrà tra il 13 e il 16 luglio e nella quale sarà designato definitivamente il candidato democratico.
L’interesse per le primarie statunitensi del 2020 è tutto orientato a favore della competizione interna al Partito Democratico. Sul fronte repubblicano, infatti, Donald Trump non ha rivali, forte del fatto di essere il Presidente in carica (incumbent President), tanto che in molti casi, come è accaduto ad esempio in Maine e Minnesota, non vi sono altri candidati oltre Trump, il quale partecipa in tali primarie come uncontested. Nella storia recente degli Stati Uniti, tutti i Presidenti in carica hanno riottenuto la nomination dal proprio partito in vista del secondo mandato, senza grandi problemi. In tal senso, le primarie del partito dell’incumbent President si sono ridotte a pura formalità.
È pur vero, infatti, che a partire dagli anni ’70 le primarie hanno assunto un ruolo decisivo nella scelta dei candidati presidenziali, aumentando il peso del voto popolare e limitando contestualmente il potere dei partiti nella selezione dei candidati presidenziali, ma soluzioni come quella del Super Martedì, applicate più di recente, hanno ripristinato nuovamente il ruolo dei partiti e dunque il ruolo del “candidato di partito”, poiché concentrando in un unico giorno tante primarie si favoriscono quasi inevitabilmente i candidati più “strutturati”, ovvero quelli meglio organizzati o quelli appoggiati dal partito.
La nomination di Trump è dunque cosa quasi del tutto certa e i risultati del Super Martedì confermano le aspettative. Il Presidente ha vinto finora in tutti gli Stati, collezionando più di 800 delegati (ne servono 1.276 per ottenere la nomination e non siamo nemmeno a metà del processo delle primarie), mentre lo sfidante “fantoccio” Bill Weild resta fermo a un solo delegato.
Trump può dunque essere già considerato come il presumptive nominee del partito dell’elefantino. Il senso politico delle primarie repubblicane sta allora tutto nel messaggio di forza che l’incumbent President rivolge al suo Partito e agli elettori: con il tour delle primarie Trump può far mostra al Paese della compattezza del fronte repubblicano sia sul fronte istituzionale che sul fronte elettorale, oltre che risparmiare risorse per la campagna di novembre.
Trump ha poi un momentum favorevole: al netto del baccano social e del procedimento di impeachment, da cui il Presidente è uscito comunque indenne, l’economia americana va bene e tanto basta all’elettore repubblicano. In politica estera Trump ha poi saputo conciliare, pur senza una vera e propria strategia (e chi potrebbe averla?) realismo (capendo che l’America non può tutto) e protezionismo (avanzando la retorica dell’America First che ha incantato i sovranisti di mezza Europa), senza farsi mancare alcuni piccoli interventi di chirurgia bellica (Iran) che hanno mantenuto alto il morale dei conservatori.
In queste primarie, però, come visto, la competizione vera e propria è quella che si sta svolgendo sul fronte del Partito Democratico, dove a sfidarsi al Super Martedì sono stati soprattutto Bernie Sanders, già avversario di Hillary Clinton alle primarie del 2016, Joe Biden, il vice di Obama tra il 2008 e il 2016, Elizabeth Warren, senatrice del Massachusetts e il magnate Michael Bloomberg, già sindaco di New York tra il 2002 e il 2013.
I risultati hanno visto una netta vittoria, sia in termini di Stati – e dunque di delegati – che di voti popolari, di Joe Biden, che è riuscito a conquistare in particolare gli Stati del Sud (Texas, Tennessee, Oklahoma, Arkansas, North Carolina e Virginia). Sanders è riuscito a colmare il gap vincendo soprattutto in California, lo Stato più popoloso tra quelli del Super Martedì e quello che assegna più delegati in assoluto, e superando inoltre gli altri candidati in Colorado, nello Utah e nel proprio Stato di casa, il Vermont. Warren, già partita male nei primi quattro appuntamenti elettorali in Iowa, New Hampshire, Nevada e South Carolina, nel Super Martedì non è riuscita ad ottenere una vittoria nemmeno nello Stato di casa, il Massachusetts, dove è arrivata solo terza. Lo scarso risultato di Warren sembra aver compromesso la campagna della Senatrice del Massachusetts e del pari si può dire di Bloomberg, che è riuscito a vincere solo nelle American Samoa. Bloomberg, entrato nella competizione proprio nel Super Martedì, ha perso così per il momento la sua scommessa, mancando quell’effetto “big win” che, secondo la sua strategia, avrebbe dovuto aprirgli la strada verso la nomination.
I risultati del Super Martedì ci mostrano dunque ancora una volta una frattura netta all’interno del Partito Democratico, diviso tra un candidato moderato maggiormente affine al partito – Biden, che poco prima del Super Martedì ha ricevuto gli importanti endorsement di Amy Kobluchar e di Pete Buttigieg – e un candidato più spostato a sinistra e non controllato dal partito, ovvero l’indipendente progressista Sanders. L’effetto del Super Martedì ha premiato da un lato il candidato di partito, in questo caso Biden, il cui campo centrista era già stato sgombrato per le defezioni di Kobluchar e Buttigieg, ma ha anche confermato dall’altro la solidità della candidatura di Sanders sul campo progressista, complice anche l’ennesima disfatta di Warren.
Biden e Sanders sembrano dunque lanciati verso una corsa a due del tutto simile a quella che ha opposto Hillary Clinton e lo stesso Sanders alle primarie del 2016, ma a questo punto della competizione sarebbe del tutto azzardato trarre delle conclusioni.
Come è già stato notato altrove, la storia sembra ripresentarsi coi suoi fantasmi, anche se dopo questo Super Martedì gli spettri nel Partito Democratico sono due: da un lato la campagna di Sanders ha fatto riemergere, ancora una volta dopo il 2016, l’incubo di McGovern – candidato democratico inviso al partito per le sue idee troppo progressiste che nel 1972 riuscì comunque a conquistare la nomination per poi capitolare rovinosamente contro Nixon alle elezioni di novembre – ma è anche vero che il comeback di Joe Biden in questo Super Martedì ha rievocato un fantasma ancor più recente per il Partito dell’asinello: quello di Hillary Clinton con la sua disfatta del 2016.
Le primarie sono sicuramente un processo importante per la democrazia americana, ma l’elezione del Presidente si gioca su un altro campo. Gli ottimi risultati di Joe Biden negli Stati del Sud dimostrano la forza di attrazione dell’ex Vice-Presidente nei confronti dell’elettorato afroamericano, soprattutto delle fasce meno giovani, anche se tale fetta di elettorato sembra essere determinante solo per le primarie dei democratici e non anche per le elezioni vere e proprie, soprattutto in un’area geografica, quella meridionale degli Stati Uniti, dove sono i repubblicani a dominare.
Sanders al contrario ha compensato gli scarsi risultati in Maine e in Minnesota, dove aveva trionfato nel 2016, vincendo in California e confermandosi altrove in alcuni Stati settentrionali, dove prevale il voto dei maschi bianchi della middle class e quello della working class, settori dell’elettorato maggiormente affini alla rivoluzione proposta da Sanders, insieme alla fascia dell’elettorato più giovane e ai Latinos (che in Nevada hanno premiato “el Tío Bernie”). Vincere in California avrà anche un suo peso specifico per la nomination, ma per le elezioni di novembre il risultato di Sanders vale relativamente poco, trattandosi di un safe State per i democratici. La California non è considerato infatti uno Stato competitivo e quasi sicuramente a novembre prevarrà comunque il candidato democratico.
Fintanto che il sistema elettorale per le presidenziali sarà incentrato sullo Electoral College e fintanto che il sistema politico sarà caratterizzato da un’estrema polarizzazione, bisognerà guardare allora principalmente alla competizione negli Stati in bilico (swing States), ovvero negli Stati dove nessuno dei due partiti ha, in proiezione, una maggioranza schiacciante o “sicura”. È negli Stati in bilico, infatti, che si assegna quella porzione di Grandi Elettori determinante per la vittoria finale.
Guardando ai risultati della precedente tornata elettorale, se si prendono in considerazione gli Stati in cui vi è stato un margine tra i due candidati maggiori inferiore al 2%, si possono individuare come Stati in bilico la Florida, il Michigan, il Minnesota, il New Hampshire, la Pennsylvania e il Wisconsin. Al netto degli eventi che nel breve termine potranno indirizzare la campagna elettorale in un senso o in un altro, sono questi, in buona sostanza, gli swing States a cui i due maggiori partiti (soprattutto i democratici) dovranno prestare attenzione nel 2020 e dove potrebbe giocarsi la vera partita elettorale.