Il rinvio pregiudiziale alla Corte dell’Unione: risorsa o problema? (Nota minima su una questione controversa)
Sommario: 1. I due corni del dilemma e la loro possibile riduzione ad unità. – 2. Il percorso parabolico del rinvio e i riflessi negativi che potrebbero aversene per la funzionalità dei giudizi, con specifico riguardo ad eventuali conflitti tra le Corti europee, laddove chiamate a pronunziarsi sulle medesime questioni, ed ai modi più adeguati per porvi rimedio (in particolare, l’ipotesi di far luogo alla previsione di un “rinvio pregiudiziale” dalla Corte EDU alla Corte di giustizia). – 3. Il “modello” Cilfit, le sue “graduate” applicazioni (rispettivamente, presso i giudici nazionali e presso la Corte EDU), il bisogno che sia ulteriormente specificato ed integrato e reso ancora più saldo attraverso una plurima, complessa e convergente manovra posta in essere a tutti i livelli istituzionali e presso ogni sede in cui si somministra giustizia. – 4. L’esigenza che le novità al piano dei meccanismi istituzionali, specie con la introduzione del rinvio dall’una all’altra Corte europea, siano accompagnate da corposi ed incisivi interventi al piano giurisprudenziale fedeli al canone della costante, effettiva cooperazione tra tutti i giudici, europei e non. – 5. Una breve notazione finale, nell’auspicio che il rinvio sia risorsa anziché problema o, quanto meno, più l’una che l’altra cosa.
1. I due corni del dilemma e la loro possibile riduzione ad unità
Confesso di non saper dare una sicura risposta al quesito evocato nel titolo di questo mio scritto; e confesso pure che non mi consola affatto il noto pensiero filosofico secondo cui vi sarebbe più pregio nell’inventare un problema nuovo piuttosto che nel risolvere un problema già posto da altri. Sono infatti convinto (ed anzi sempre di più mi radico in questo mio convincimento) che – come soleva dire il fondatore della Scuola giuridica nella quale mi sono formato, S. Pugliatti – il diritto o è “scienza pratica” oppure, semplicemente, non è[1]. Mi prefiggo, dunque, il limitato obiettivo di tentare di avviare a soluzione il problema, con una succinta riflessione ad alta voce che aspira unicamente a sollecitare ulteriori e ben più approfondite riflessioni da parte di chi vi si vorrà dedicare.
Enuncio subito la tesi nella quale mi riconosco; ed è che il rinvio può essere sia l’una che l’altra cosa, a seconda dell’uso che in concreto se ne fa, il risultato complessivo a conti fatti dipendendo da una sorta di tacito patto (se si vuole, una vera e propria convenzione costituzionale idonea quindi a convertirsi in consuetudine) tra la Corte di giustizia e i giudici nazionali (comuni e, preferibilmente, anche costituzionali), un patto per la cui messa a punto un ruolo di primo piano è chiamato ad esercitare il giudice dell’Unione, cui è demandato di dare un orientamento alle pratiche giuridiche di diritto interno.
2. Il percorso parabolico del rinvio e i riflessi negativi che potrebbero aversene per la funzionalità dei giudizi, con specifico riguardo ad eventuali conflitti tra le Corti europee, laddove chiamate a pronunziarsi sulle medesime questioni, ed ai modi più adeguati per porvi rimedio (in particolare, l’ipotesi di far luogo alla previsione di un “rinvio pregiudiziale” dalla Corte EDU alla Corte di giustizia)
Il rinvio, al pari di altri istituti che connotano la struttura dell’ordinamento dell’Unione, sembra destinato ad un percorso di tipo parabolico; e, come nelle vere parabole, la partenza e l’arrivo potrebbero (se non coincidere) presentare forti, sostanziali assonanze nell’esito, se non pure nelle cause che lo determinano e nelle motivazioni che lo sorreggono e giustificano.
In principio, si trattava di sollecitare i giudici nazionali a fare largo utilizzo dello strumento, prezioso al fine di una uniforme implementazione del diritto (comunitario prima ed ora) “eurounitario”. La stessa Corte di giustizia ne ha incoraggiato la diffusa attivazione, al duplice intento di conseguire lo scopo suddetto e di dar modo a sé stessa di acquisire consensi crescenti attorno alla propria giurisprudenza, legittimandosi come artefice di prima grandezza del processo d’integrazione sovranazionale[2]. Rammento al riguardo che le punte più avanzate e sensibili della dottrina hanno, sin dai primi anni di funzionamento delle Comunità, deprecato, a più riprese e con varietà di toni ma sostanziale comunanza di idee, la scarsa attenzione prestata dai giudici nazionali (specie da alcuni) per il diritto comunitario e, conseguentemente, per lo strumento che, con altri, concorre alla sua salvaguardia.
Oggi, però, il rischio è che un uso smodato, comunque non adeguatamente vigilato, dello strumento stesso possa recare seri problemi di funzionalità per il giudice dell’Unione[3], ai quali non si saprebbe poi come far fronte, con gravi implicazioni per le stesse pratiche applicative in ambito interno[4].
Le ipotesi di soluzione fin qui affacciate, pur apprezzabili per l’intento che le anima, presentano tuttavia, per più aspetti, non pochi né lievi inconvenienti.
Si pensi, ad es., all’idea di dar modo alla Corte di giustizia, con riguardo alle domande in via pregiudiziale come pure in generale, di far luogo (ad imitazione, come si sa, di altri giudici, quale la Corte Suprema nordamericana) ad una severa selezione delle cause sulle quali pronunziarsi[5]. La qual cosa nondimeno farebbe correre il rischio assai grave che la Corte dell’Unione possa tornare ad essere ugualmente investita della medesima questione per altra via, in conseguenza di eventuali mancanze agli obblighi dell’Unione stessa conseguenti a distorte applicazioni del diritto eurounitario[6].
V’è di più (e, forse, di peggio), dal momento che della questione potrebbe essere, congiuntamente ovvero alternativamente, investita la Corte EDU, per il caso che la violazione del diritto eurounitario ridondi, a giudizio del ricorrente, in violazione della Convenzione (e, segnatamente, del principio del giusto processo). Una ipotesi, questa, di cui – come si sa – si è, ancora di recente, avuto riscontro con il caso Ullens de Schooten e Rezabek c. Belgio[7]; ed una ipotesi che, ad andar bene (si fa per dire, naturalmente…), si traduce in un sovraccarico di lavoro di un certo rilievo per la Corte di Strasburgo, vale a dire nel travaso da una Corte europea all’altra di una questione d’interpretazione sollevata in ambito nazionale, mentre ad andar male può portare a conflitti tra le stesse Corti europee, laddove chiamate a pronunziarsi sullo stesso caso, quindi assai problematicamente ripianabili (è chiaro, infatti, che le tensioni si scaricano pur sempre presso i giudici nazionali che, in congiunture siffatte, sono davvero messi in croce). Conflitti che poi, per essere come si deve superati e, ancora meglio, prevenuti, richiederebbero – a me pare[8] – la previsione (che potrebbe aversi in sede di messa a punto delle clausole di adesione dell’Unione alla CEDU) di una sorta di “rinvio pregiudiziale” o com’altro lo si voglia chiamare attivabile da parte della stessa Corte EDU e presentato alla Corte dell’Unione, in via sussidiaria rispetto ad un rinvio mancato ad opera dei giudici nazionali[9].
Analoga soluzione è stata – come si sa – patrocinata da Timmermans, per la quale si vorrebbe dar modo alla Commissione di investire la Corte di giustizia di una questione di stretto diritto eurounitario (e, specificamente, concernente la validità di un atto dell’Unione) che allo stesso tempo penda davanti alla Corte di Strasburgo e sia stata da questa dichiarata ricevibile.
La proposta – come pure è noto – ha suscitato largo interesse; personalmente, non la giudico di necessità alternativa a quella da me patrocinata, che nondimeno preferisco per il fatto di rimettere l’iniziativa del “dialogo” alla Corte EDU, per ciò solo – a me pare – ponendo le basi più salde perché lo stesso possa svolgersi in modo fecondo[10].
Sta di fatto che a riguardo della necessaria precedenza di una pronunzia della Corte dell’Unione su questioni specificamente riguardanti il diritto eurounitario rispetto ad una pronunzia della Corte EDU si registrano larghi e diffusi consensi, di cui peraltro si ha traccia autorevole anche nel comunicato congiunto dei due Presidenti delle Corti europee[11].
Come che sia di ciò, resta il fatto che non può escludersi che la Convenzione venga ad essere violata anche in modo “interposto”, in conseguenza cioè di una violazione del diritto dell’Unione (la quale, poi, può naturalmente aversi sia in caso di utilizzo che di mancato utilizzo del rinvio pregiudiziale). Solo che, laddove quest’ultima violazione si sia avuta a seguito del (e malgrado il) ricorso al rinvio da parte dei giudici nazionali, la Corte EDU potrebbe sentirsi sgravata dell’obbligo di avvalersi del rinvio stesso, a meno che non lo giudichi necessario per altre ragioni; di contro, nel caso che il rinvio per mano degli operatori di diritto interno non si sia avuto (come in Ullens), dovrebbe a ciò provvedere il giudice di Strasburgo. Potrebbe tuttavia non farvi luogo, per le medesime ragioni in nome delle quali non vi hanno fatto luogo i giudici nazionali, unicamente al ricorrere delle condizioni che in via generale giustifichino il mancato interpello della Corte dell’Unione. Mentre, però, l’omesso ricorso al rinvio da parte del giudice nazionale può dar modo all’una o all’altra Corte europea di porre rimedio all’errore interpretativo del giudice stesso, l’inerzia della Corte di Strasburgo potrebbe portare al radicamento di effetti negativi irreversibili.
3. Il “modello” Cilfit, le sue “graduate” applicazioni (rispettivamente, presso i giudici nazionali e presso la Corte EDU), il bisogno che sia ulteriormente specificato ed integrato e reso ancora più saldo attraverso una plurima, complessa e convergente manovra posta in essere a tutti i livelli istituzionali e presso ogni sede in cui si somministra giustizia
Dalle notazioni da ultimo svolte se ne trae il consiglio per un’applicazione – come dire? – “graduata” del modello Cilfit; e, se per un verso se ne impone un uso comunque rigoroso da parte dei giudici nazionali, uno ancora più severo e vigilato dovrebbe aversene a Strasburgo, al fine di evitare possibili fraintendimenti della giurisprudenza eurounitaria da parte della Corte EDU che reputi di potersene fare, in sovrana solitudine, interprete “quasi autentico”, senza avvertire il bisogno di interpellare il giudice di Lussemburgo perché torni a pronunziarsi in modo espresso sul retto significato del diritto dell’Unione.
Sul punto, di cruciale rilievo, si richiede un supplemento di attenzione. Perché il rinvio può – come si viene dicendo – essere una risorsa e non commutarsi in un problema solo se si riesce a mettere a punto un “modello” dotato, allo stesso tempo, di strutturale flessibilità, in ragione dell’incomprimibile varietà dei casi, e però anche della necessaria chiarezza e fermezza di linee e congrua articolazione di struttura interna, sì da proporsi come un utile sussidio per la pratica giuridica, quali che siano poi i livelli istituzionali e le sedi in cui si somministra giustizia.
Sia chiaro. L’ipotesi che le controversie coinvolgenti i diritti possano in ogni caso finire davanti alla Corte EDU è inevitabile (ed è, anzi, in astratto un bene che sia così, sempre che tuttavia si faccia un uso vigilato degli strumenti di garanzia). Le stesse pronunzie della Corte dell’Unione potrebbero, di diritto o di traverso, esser causa ovvero oggetto di una questione portata al giudizio della Corte EDU: già oggi è così, ove si ammetta che una sentenza emessa in ambito interno che rispetti per filo e per segno un’indicazione venuta da Lussemburgo possa, proprio per ciò, essere impugnata davanti alla Corte di Strasburgo, se è vero – com’è vero – che qualunque violazione della CEDU può giustificare il ricorso al giudizio della Corte chiamata a farsene garante[12]. Con la prevista, auspicata adesione dell’Unione alla CEDU, poi, l’attacco alle pronunzie della Corte di giustizia potrebbe aversi alla luce del sole, in modo diretto.
Invito comunque a non drammatizzare quest’esito, da molti visto come un autentico terremoto istituzionale; e, tuttavia, mi pare che occorra dar fondo a tutte le risorse tecnico-argomentative di cui ciascuna Corte dispone, se del caso col sostegno di nuovi strumenti predisposti in via normativa[13], al fine di parare – fin dove possibile – il rischio che l’esito stesso si abbia, quanto meno che si abbia con una insopportabile frequenza.
Il “modello” Cilfit può essere, a mia opinione, un’utile base di partenza; l’esperienza ad ogni buon conto insegna che non è una base sufficientemente solida, secondo quanto conferma il caso Ullens, sopra richiamato[14].
Ora, l’opera di rinforzo richiede la messa in atto di una plurima, complessa e convergente manovra posta in essere a ciascun livello istituzionale e presso tutte le sedi in cui si somministra giustizia. Plurima, in quanto appunto sollecitata a prendere corpo in ambito nazionale così come sovranazionale, avvalendosi dello (e traendo profitto dallo) sforzo congiunto di tutti gli operatori di giustizia (giudici comuni, giudici costituzionali, Corti europee); complessa, perché posta in essere sia al piano dei meccanismi istituzionali che a quello delle garanzie sostanziali: insomma, a quello delle tecniche decisorie ed all’altro della giurisprudenza di merito; convergente, infine, perché senza la mutua, effettiva cooperazione tra le Corti, l’obiettivo, comunque arduo da raggiungere, si può star certi che non sarebbe centrato[15].
4. L’esigenza che le novità al piano dei meccanismi istituzionali, specie con la introduzione del rinvio dall’una all’altra Corte europea, siano accompagnate da corposi ed incisivi interventi al piano giurisprudenziale fedeli al canone della costante, effettiva cooperazione tra tutti i giudici, europei e non
Dopo aver fatto cenno a quanto può farsi al piano dei meccanismi (e, segnatamente, della estensione dell’area di utilizzo del rinvio ai rapporti tra le Corti europee), vorrei ora particolarmente insistere sul bisogno di lavorare sodo anche sul fronte sostanziale, la complementarietà dei piani e dei relativi interventi ponendosi come necessaria in vista del raggiungimento dello scopo, se non per intero perlomeno in apprezzabile misura. E così, se la Corte di giustizia, già al presente e più ancora nella prospettiva dell’adesione dell’Unione alla CEDU, attingerà in accresciuta misura alla giurisprudenza “convenzionale”[16], tanto in sede di risposta dietro rinvio pregiudiziale quanto in ogni altra sede, potrà a buon diritto coltivare la speranza di essere a sua volta con attenzione ascoltata sia a Strasburgo che in ambito interno.
A sua volta, la Corte EDU potrà rendere ancora più saldi e persuasivi gli indirizzi interpretativi che somministra agli altri operatori di giustizia se farà fedele e costante richiamo alla giurisprudenza eurounitaria, allo stesso tempo disegnando e preservando spazi consistenti di autodeterminazione a beneficio dei giudici nazionali: una disponibilità che però è, non di rado, più dichiarata che praticata, come dimostrano molti segni tratti dalla giurisprudenza, nuova e vecchia[17]. Non a caso, davanti alla pressione alle volte schiacciante esercitata dal giudice EDU[18], comincia a farsi avvertire la reazione del nostro giudice delle leggi, per quanto rivestita di formali dichiarazioni di rispetto e vero e proprio ossequio nei riguardi degli indirizzi formatisi a Strasburgo[19].
Anche per l’aspetto ora specificamente riguardato, il riequilibrio nei rapporti tra Corte EDU e Corte costituzionale potrebbe essere agevolato da una più intensa ed accurata coltivazione da parte di quest’ultima del terreno su cui si impiantano e svolgono i suoi rapporti con la Corte dell’Unione[20]. E invero si fatica a comprendere la ragione che porta la Consulta a non avvalersi in modo congruo dello strumento del rinvio pregiudiziale, del quale – come si sa – s’è fatto un uso praticamente insussistente[21]. Quando pure, infatti, si reputi di doversi tener fermo l’indirizzo fin qui invalso, sfavorevole – come si sa – al ricorso allo strumento in parola nel procedimento in via incidentale, un indirizzo nondimeno – come pure è noto – fatto oggetto di critiche penetranti e di vario segno da parte di non poca, sensibile dottrina, ebbene perché mai non farvi ricorso nei giudizi restanti (controversie in via principale e conflitti, sia interorganici che intersoggettivi)[22]?
La chiusura delle porte della sede in cui opera la Corte costituzionale non soltanto non dà frutto alcuno e non giova alla Corte stessa, con specifico riguardo ai casi di possibile interferenza col diritto dell’Unione[23], ma neppure concorre a quel riequilibrio tra i rapporti delle Corti europee inter se che, già oggi alquanto problematico e disagevole da realizzare, si porrà in termini vieppiù complessi e pressanti a seguito dell’adesione dell’Unione alla CEDU.
Infine, i giudici comuni sono chiamati ad un impegnativo e sofferto stop and go, per ciò che concerne l’utilizzo dell’arma del rinvio. Facendovi ricorso in misura eccessiva, accentuerebbero i problemi segnalati nel titolo dato a questa riflessione, specie sul versante della funzionalità dei meccanismi processuali; trattenendosi in misura parimenti eccessiva dall’uso, darebbero ugualmente vita agli altri problemi sopra indicati. Si impone, insomma, l’adozione di pratiche complessivamente ispirate a ragionevolezza, al canone del “giusto mezzo”. Ma, perché ciò davvero si abbia, si richiede un orientamento fermo e chiaro dato alle pratiche stesse, quale può (e deve) in primo luogo venire – come si faceva dietro cenno – dalla Corte di giustizia, chiamata dunque a dare le opportune specificazioni-integrazioni al “modello” Cilfit.
Se si riuscirà ad innalzare a Lussemburgo un argine più alto e solido di quello ad oggi riscontrabile entro cui far scorrere gli indirizzi interpretativi che man mano la stessa Corte di Lussemburgo forma e senza sosta rinnova, contenendone almeno alcune delle più vistose oscillazioni, si potrà agevolare la ricerca da parte dei giudici nazionali di quel “giusto mezzo”, di cui si è appena detto. Allo stesso tempo (e circolarmente), anche tali giudici possono offrire il loro apporto per l’impianto di pratiche interpretative in ambito sovranazionale complessivamente soddisfacenti e promettenti ulteriori, fecondi sviluppi delle relazioni “intergiurisprudenziali”.
5. Una breve notazione finale, nell’auspicio che il rinvio sia risorsa anziché problema o, quanto meno, più l’una che l’altra cosa
Concludendo. Alla stabilizzazione, così come al rinnovamento, degli indirizzi giurisprudenziali tutti gli operatori di giustizia sono chiamati a dare il loro fattivo, coraggioso e vigilato allo stesso tempo, concorso. La convergenza degli indirizzi stessi può essere, congiuntamente, causa ed effetto di un uso accorto del rinvio: alimentarsi da questo ed a questo offrire indicazioni per il suo congruo svolgimento, con un moto – come si vede – circolare che da se medesimo si rigenera e ricarica senza sosta. Tutti possono, insomma, far sì che il rinvio sia risorsa piuttosto (o anziché) problema o, quanto meno, con maggior cautela, più l’una che l’altra cosa al piano delle relazioni interordinamentali che prendono corpo nelle esperienze giudiziali.
[1] V., dunque, del chiaro Maestro, La giurisprudenza come scienza pratica, in Riv. it. sc. giur., 1950, 49 ss.
[2] Indicazioni sull’orientamento del giudice di Lussemburgo, ora, in S. Foà, Giustizia amministrativa e pregiudizialità costituzionale, comunitaria e internazionale. I confini dell’interpretazione conforme, Napoli 2011.
[3] La circostanza per cui ad una parte cospicua (circa il 75%, secondo quanto riferisce A. Tizzano, Les Cours européennes et l’adhésion de l’Union à la CEDH, in Dir. Un. Eur., 1/2011, 38 s., nonché in www.europeanrights.it, § 4) delle richieste di rinvio non sarebbe dato seguito dal giudice nazionale non toglie che ugualmente il carico delle questioni che pervengono a Lussemburgo vada facendosi particolarmente oneroso, sì da divenire col tempo davvero insopportabile.
[4] Non secondario rilievo è al riguardo da assegnare al modo con cui si è definita e si va senza sosta mettendo a punto la nozione di “giurisdizione” ai sensi e per gli effetti del rinvio. La crescita delle autorità che operano in posizione d’indipendenza e che a vario titolo garantiscono il rispetto del diritto in senso oggettivo, somigliando in qualche modo ai giudici (nella loro tradizionale conformazione), pone gravi problemi di qualificazione, specie a mezzo delle categorie usuali, che tuttavia esibiscono limiti sempre più evidenti di rendimento. La qual cosa sollecita la ricerca, anche per l’aspetto ora specificato considerato ed ai fini ricostruttivi qui interessanti, di soluzioni moderate, ragionevoli, nondimeno assai ardue da conseguire in modo complessivamente appagante (in tema, ha avuto occasione, ancora di recente, di tornare a pronunziarsi la Corte di giustizia, Grande Sez., 14 giugno 2011, in causa C-196/09).
[5] La selezione, con specifico riguardo alle esperienze della giustizia costituzionale, può aversi di diritto ovvero di fatto. Si ha l’una cosa quando il giudice è abilitato a scegliere le questioni su cui pronunziarsi; si ha l’altra, quando l’obiettivo è ugualmente (e sia pure in parte) centrato, specie facendo un uso sapiente, ancorché alle volte forzoso, delle tecniche di giudizio, particolarmente delle decisioni d’inammissibilità. Questo schema, a mia opinione, resiste anche nella sua applicazione alle Corti europee che, pur nella loro complessivamente peculiare connotazione, vanno sempre più marcatamente proponendosi quali giudici materialmente costituzionali (su questa tendenza, part., O. Pollicino, in più scritti, tra i quali, di recente, Allargamento ad est dello spazio giuridico europeo e rapporto tra Corti costituzionali e Corti europee. Verso una teoria generale dell’impatto interordinamentale del diritto sovranazionale?, Milano 2010, e O. Pollicino – V. Sciarabba, Tratti costituzionali e sovranazionali delle Corti europee: spunti ricostruttivi, in AA.VV., L’integrazione attraverso i diritti. L’Europa dopo Lisbona, a cura di E. Faletti – V. Piccone, Roma 2010, 125 ss.). Ora, si tratta, appunto, di stabilire se passare, o no, dall’attuale stato di selezione di fatto a quello di selezione di diritto.
[6] Qualora la facoltà di scelta dovesse restare circoscritta alle sole pronunzie in via pregiudiziale, l’esito ora ragionato nel testo è da mettere certamente in conto; ove, invece, essa sia riconosciuta per ogni competenza della Corte, è verosimile che, almeno in molti casi, allo “scarto” fatto della questione sollevata in via pregiudiziale non segua un ricorso per inadempimento, nel timore che la questione sia nuovamente fatta cadere e resti senza giudizio. Non è detto però che le cose vadano poi davvero così: vuoi per il fatto che diversi possono essere nei due casi i soggetti ricorrenti e diversi comunque i procedimenti e vuoi (e soprattutto) perché il giudice potrebbe cambiare avviso.
[7] … sul quale può, se si vuole, vedersi la mia nota dal titolo Rinvio pregiudiziale mancato e (im)possibile violazione della CEDU (a margine del caso Ullens de Schooten e Rezabek c. Belgio), in www.forumcostituzionale.it. Altre ipotesi di soluzione volte a prevenire o, comunque, ripianare i conflitti tra le Corti possono vedersi in A. Tizzano, Les Cours européennes et l’adhésion de l’Union à la CEDH, cit., § 5.
[8] V., nuovamente, il mio scritto appena cit.
[9] È da prendere altresì in considerazione l’ipotesi che l’uno rinvio possa sommarsi all’altro, non già porsi di necessità come ad esso alternativo. Forse, però, è consigliabile, ove si punti a preservare l’equilibrio complessivo delle relazioni tra i giudici e il ruolo di primo piano che gli stessi giudici comuni sono chiamati a giocare nell’ambito delle relazioni stesse (su di che, sopra tutti, R. Conti, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo dei giudici, Roma 2011), che, in prima battuta, siano proprio questi ultimi a determinarsi circa l’opportunità ovvero la doverosità dell’attivazione dello strumento in parola e solo successivamente, in seconda battuta appunto, la Corte EDU, colmandosi così una originaria, strutturale carenza del sistema.
[10] Riserve di vario segno sono, tuttavia, in generale al riguardo avanzate da non pochi autori [tra gli altri, G. de Vergottini, Oltre il dialogo tra le Corti. Giudici, diritto straniero, comparazione, Bologna 2010 e S. Troilo, (Non) di solo dialogo tra i giudici vivranno i diritti? Considerazioni (controcorrente?) sui rapporti tra le Corti costituzionali e le Corti europee nel presente sistema di tutela multilivello dei diritti fondamentali, in www.forumcostituzionale.it]; ma v. le più articolate e diversamente orientate posizioni di P. Perlingieri, Leale collaborazione tra Corte costituzionale e Corti europee. Per un unitario sistema ordinamentale, Quad. della Rass. dir. pubbl. eur., Napoli 2008; F. Fontanelli – G. Martinico, Alla ricerca della coerenza: le tecniche del “dialogo nascosto” fra i giudici nell’ordinamento costituzionale multilivello, in Riv. trim. dir. pubbl., 2/2008, 351 ss.; M. Bignami, L’interpretazione del giudice comune nella “morsa” delle Corti sovranazionali, in Giur. cost., 1/2008, 595 ss. e, dello stesso, ora, Costituzione, Carta di Nizza, CEDU e legge nazionale: una metodologia operativa per il giudice comune impegnato nella tutela dei diritti fondamentali, in www.rivistaaic.it, 1/2011; V. Sciarabba, Tra fonti e Corti. Diritti e principi fondamentali in Europa: profili costituzionali e comparati degli sviluppi sovranazionali, Padova 2008; R. Caponi, Democrazia, integrazione europea, circuito delle corti costituzionali, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2010, 387 ss. e, dello stesso, Addio ai “controlimiti” (Per una tutela della identità nazionale degli Stati membri dell’Unione europea nella cooperazione tra le corti), in www.europarights.eu; AA.VV., Corti costituzionali e Corti europee dopo il Trattato di Lisbona, a cura di M. Pedrazza Gorlero, Napoli 2010; AA.VV., The National Judicial Treatment of the ECHR and EU Laws. A Comparative Constitutional Perspective, a cura di G. Martinico e O. Pollicino, Groningen 2010, e G. Martinico – O. Pollicino, The Impact of the Protection of Human Rights by the European Courts on the Italian Constitutional Court, in AA.VV., Human Rights Protection in the European Legal Order: the Interaction between the European and the National Courts, a cura di P. Popelier – C. Van De Heyning – P. Van Nuffel, Cambridge 2011, 65 ss. Inoltre, A. Tizzano, Les Cours européennes et l’adhésion de l’Union à la CEDH, cit.; O. Pollicino, spec. in Allargamento ad est dello spazio giuridico europeo, cit., e in molti altri scritti; R. Conti, che sul “dialogo” tra i giudici si è ripetutamente intrattenuto (di recente, part. in La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice, Roma 2011, e, da ultimo, in Il diritto di proprietà e la CEDU. Agli albori di una nuova proprietà costituzionale. Viaggio fra Carte e Corti alla ricerca di un nuovo statuto proprietario, in corso di stampa); G. Repetto, Argomenti comparativi e diritti fondamentali in Europa. Teorie dell’interpretazione e giurisprudenza sovranazionale, Napoli 2011; A. Cardone, Diritti fondamentali (tutela multilivello dei), in Enc. dir., Ann., IV (2011), 335 ss. Da ultimo, E. Malfatti – S. Panizza – R. Romboli, Giustizia costituzionale3, Torino 2011, 345 ss. e G.F. Ferrari, Le libertà. Profili comparatistici, Torino 2011, spec. 297 ss. Volendo, possono poi vedersi alcuni miei scritti, tra i quali Corte costituzionale e Corti europee: il modello, le esperienze, le prospettive, in AA.VV., Corte costituzionale e sistema istituzionale, a cura di F. Dal Canto e E. Rossi, Torino 2011, 149 ss., e Rapporti tra Corte costituzionale e Corti europee, bilanciamenti interordinamentali e “controlimiti” mobili, a garanzia dei diritti fondamentali, in www.rivistaaic.it, 1/2011.
[11] Può vedersi in Quad. cost., 2/2011, con una nota di M.E. Gennusa e S. Ninatti, Il comunicato congiunto dei Presidenti Costa e Skouris. La difficile rotta verso una tutela integrata dei diritti, 469 ss.
[12] Si avrebbe, pertanto, uno di quei casi, ampiamente studiati in letteratura, in cui un atto dell’Unione contrario alla Convenzione è sanzionato in modo indiretto, attraverso l’atto interno che vi dia attuazione ovvero lo recepisca.
[13] … e, tra questi, come si diceva, il rinvio dall’una all’altra Corte europea.
[14] Il fatto che, nella circostanza, la Corte EDU abbia fatto da scudo alla giurisprudenza eurounitaria, dandovi un sostanziale avallo, non esclude, ovviamente, che avrebbe potuto determinarsi diversamente. La qual cosa dimostra che, per l’uno o per l’altro verso, la Corte di Lussemburgo può trovarsi sul banco degli imputati davanti alla Corte di Strasburgo.
[15] Su ciò ha particolarmente insistito la più sensibile dottrina: per tutti, A. Tizzano, Les Cours européennes et l’adhésion de l’Union à la CEDH, cit., spec. §§ 7 e 8 e molti degli altri autori richiamati in nt. 10.
[16] … oltre che a quella nazionale, specificamente alle sue punte più avanzate, dalle quali si fa culturalmente “impressionare” in più rilevante misura; e qui il riferimento è soprattutto alla giurisprudenza tedesca, francese, spagnola e, per nostra fortuna, anche italiana, cui – come si sa – si è fatto (e si fa) capo a Lussemburgo, al momento della corposa elaborazione pretoria dei diritti fondamentali nella loro dimensione sovranazionale.
[17] Oscillanti e discontinue le vicende della “dottrina” del margine di apprezzamento, al punto da potersi seriamente dubitare della loro sostanziale (e non meramente nominale, di facciata) reductio ad unum.
[18] “Aggressiva” è stata qualificata la giurisprudenza della Corte EDU nelle sue proiezioni in ambito interno (ancora O. Pollicino, negli scritti dietro citt.).
[19] Mi riferisco, part., alle sentt. nn. 236, 257 e 303 del 2011, dove è palese lo scostamento dagli orientamenti della Corte EDU, pur se abilmente mascherato a mezzo di un uso raffinato della tecnica del distinguishing (sulla prima delle decisioni ora richiamate, v., spec., la nota di R. Conti, La scala reale della Corte Costituzionale sulla tutela della CEDU nell’ordinamento interno, in Corr. giur., 9/2011, 1243 ss., spec. 1259 ss.; su di essa, nonché sulla seconda, v., volendo, anche il mio La Corte costituzionale “equilibrista”, tra continuità e innovazione, sul filo dei rapporti con la Corte EDU, in www.giurcost.org).
[20] Indicativa di una effettiva disponibilità al mutuo ascolto potrebbe essere la messa in atto da parte della Consulta di uno dei punti-cardine del Mangold Urteil del luglio scorso, specificamente laddove (§ 60) si rileva la preclusione fatta al Bundesverfassungsgericht di accertare la non applicabilità del diritto dell’Unione in ambito nazionale fintantoché non sia stata offerta alla Corte dell’Unione stessa l’opportunità di pronunziarsi (invita opportunamente a soffermarsi sul punto R. Caponi, Addio ai “controlimiti”, cit., § IV). E, invero, per quanto l’ipotesi che i “controlimiti” siano fatti valere nelle esperienze di giustizia costituzionale si sia fin qui rivelata meramente astratta, nulla tuttavia esclude che, prima o poi, se ne abbia riscontro. La opportuna condizione al riguardo posta dal giudice costituzionale tedesco, che peraltro – come si sa – non è mai stato tenero né con l’Unione né con la sua Corte (e basti solo rammentare le pignole puntualizzazioni fatte dal Lissabon Urteil), potrebbe dunque giovare a riportare sui giusti binari i rapporti tra le due Corti, all’insegna di quel principio di reciproca cooperazione che – come qui pure si fa notare – si pone quale autentica Grundnorm delle relazioni interordinamentali, specie appunto nelle loro proiezioni al piano del “diritto vivente”.
Altro discorso è, poi, che la dottrina dei “controlimiti” sia fatta oggetto di critico ripensamento già nelle sue fondamenta di ordine teorico, prima ancora che nelle sue possibili applicazioni, secondo quanto mi sono sforzato di fare in più luoghi di riflessione scientifica (tra i quali, quelli dietro richiamati in nt. 10).
Senza ora riprendere neppure nei suoi termini essenziali la complessa e vessata questione, mi limito qui solo a rinnovare la mia preferenza a favore della tesi secondo cui, giusta la configurazione teorica di partenza (come si sa, fatta propria dalla Consulta e dai suoi benevoli laudatores) che vede comunque dotate le norme dell’Unione di “copertura” in uno dei principi fondamentali dell’ordinamento (e, segnatamente, nell’art. 11), nessuna ordinazione gerarchica può per sistema farsi tra i principi stessi, tale perciò da riflettersi a cascata alle norme che godono della loro protezione [di contro, un rinnovato favore nei riguardi della comune opinione favorevole al riconoscimento della categoria teorica dei “controlimiti” può, da ultimo, vedersi in A. Spadaro, I diritti sociali di fronte alla crisi (necessità di un nuovo “modello sociale europeo”: più sobrio, solidale e sostenibile), Relaz. al Convegno su I diritti sociali dopo Lisbona. Il ruolo delle Corti. Il caso italiano. Il diritto del lavoro fra riforme delle regole e vincoli di sistema, Reggio Calabria, 5 novembre 2011, in paper, spec. § 10]. Di modo che, con specifico riguardo alla condizione del diritto eurounitario, non può a mia opinione dirsi né che esso prevalga né che receda allo scontro con norme di diritto interno delle quali sia provata – ciò che va, ovviamente, ogni volta documentato – l’attitudine a dare la prima, diretta e necessaria specificazione-attuazione ai principi di base dell’ordinamento. Una soluzione, questa, che ha poi la sua più espressiva testimonianza e conferma al piano delle vicende relative ai diritti, laddove cioè si abbia a che fare con norme dell’Unione che possano, per la loro parte, vantare la formidabile tutela apprestata dal tandem degli artt. 2 e 3 cost., prima e più ancora di quella che può loro venire dall’art. 11. Nel qual caso, le eventuali antinomie tra norme sovranazionali e norme nazionali (anche costituzionali e persino se espressive di principi fondamentali o, come che sia, da questi “coperte”) ridondano e si risolvono in un conflitto interno ai valori costituzionali di “copertura” (e, segnatamente, all’art. 2, nel suo fare “sistema” con l’art. 3 e coi principi fondamentali restanti), un conflitto non altrimenti ripianabile – a me pare – che con la “logica” usuale dei bilanciamenti secondo i casi.
[21] Dopo la pur timida, circoscritta apertura del 2008, si è praticamente tornati all’antica, indebita chiusura; e il “dialogo” tra le due Corti, appena avviato, si è subito nuovamente interrotto.
[22] Non si trascuri il dato, di comune esperienza, per cui le sorti dei diritti, un tempo demandate al buon funzionamento del solo meccanismo incidentale, sempre più di frequente oggi si affidano alla via principale, per effetto delle accresciute opportunità offerte all’autonomia regionale a seguito della riscrittura del Titolo V, senza peraltro trascurare le altre vie che ugualmente portano alla Consulta (pertinenti notazioni sul punto, ora, in C. Salazar, Dieci anni dopo la riforma del Titolo V: il “ruolo” delle fonti regionali, relaz. al Convegno su Il regionalismo italiano dall’unità alla Costituzione e alla sua riforma, organizzato dall’ISSiRFA, Roma 20-22 ottobre 2011, in paper; volendo, possono poi vedersi anche i miei Regioni e diritti fondamentali, in Giur. it., 6/2011, 1461 ss. e Unità-indivisibilità dell’ordinamento, autonomia regionale, tutela dei diritti fondamentali, in www.giurcost.org e in Nuove aut., 1/2011, 25 ss.).
[23] Non si sottovaluti l’inconveniente che potrebbe aversi per il caso che il diritto eurounitario sia trasgredito proprio da una pronunzia del giudice delle leggi, astrattamente idonea a portare ad un ricorso davanti alla Corte di giustizia (senza, peraltro, escludere la stessa eventualità, rispetto alla prima non necessariamente alternativa, che si abbia altresì un ricorso davanti alla Corte EDU). Con il che verrebbero a determinarsi conflitti tra “giudicati” (in larga accezione) che non si saprebbe poi come risolvere, a motivo del fatto che davanti ad essi la teoria costituzionale appare ad oggi incerta ed esitante, alla affannosa ricerca di un modo complessivamente (e sia pure in parte) appagante per sistemare armonicamente le tessere di un puzzle che appare estremamente arduo da comporre (da ultimo se ne tratta, in aggiunta agli scritti sopra citt., in F. Marone, Il difficile bilanciamento tra principio del contraddittorio e “tono costituzionale” nella dialettica tra Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo, in www.rivistaaic.it, 4/2011).