Il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici tra Costituzione e CEDU
Sul sito del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica è stato pubblicato il PNACC, il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici.
Si tratta di un testo parzialmente aggiornato rispetto alla versione del 2018, rimasta senza seguito e della cui necessaria adozione ci si è accorti dopo i tragici eventi meteorologici estremi, occorsi in Italia negli ultimi mesi.
Dal punto di vista giuridico, è il primo banco di prova dello Stato italiano per la concreta attuazione dei principi del riformato art. 9 della Costituzione. Il PNACC, infatti, persegue il dichiarato scopo di custodire il territorio italiano in tutte le sue componenti di cui parla l’art. 9: dal paesaggio all’ambiente, dalla biodiversità agli ecosistemi, dalla vita animale alla salute umana, rispetto non solo agli effetti del riscaldamento globale ma soprattutto agli impatti del cambiamento climatico locale.
La sua funzione, di conseguenza, è anche quella di garantire tutti gli enti territoriali, dallo Stato ai Comuni, contro l’insorgenza della responsabilità per danni, contemplata dall’art. 2051 Cod. Civ.
In dottrina, è già stato colto il rilievo della riforma costituzionale in materia ambientale per l’inquadramento degli atti di pianificazione climatica statale (cfr. G. Grasso, La révision de la Constitution italienne sur la protection de l’environnement, 2022).
Il PNACC, tuttavia, offre spunti di analisi del tutto peculiari su tre fronti: i suoi contenuti; la sua funzione ausiliaria rispetto alla mitigazione climatica (ossia l’abbattimento delle emissioni di gas serra); la sua influenza su alcune vicende giudiziarie che vedono coinvolto lo Stato italiano in materia climatica.
Sembra, dunque, interessante approfondire il documento in tale triplice prospettiva.
Dal punto di vista dei suoi contenuti, il PNACC rappresenta il riconoscimento ufficiale di numerose acquisizioni scientifiche sul cambiamento climatico e le sue conseguenze dannose. Del resto, la sua originaria redazione ha visto coinvolte le due più importanti istituzioni di ricerca italiana sull’argomento: l’ISPRA – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale – e il CMCC – Centro euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici.
Nel testo, si legge che lo Stato italiano prende atto:
– dell’esistenza di danni in corso, imputabili al riscaldamento globale e al cambiamento climatico locale come anche all’inadeguata custodia delle sfere locali del sistema climatico (dalla litosfera alla biosfera), con conseguenze negative sia immediate che di lungo periodo ovunque;
– del carattere ineluttabilmente solo peggiorativo degli scenari futuri del sistema climatico nazionale (i c.d. “bad-to-worst”, ormai scientificamente inconfutabili: cfr. L. Kemp et al., Climate Endgame: Exploring catastrophic climate change scenarios);
– della compromissione crescente di tutti i determinanti della salute umana, da quelli psico-fisici a quelli ambientali, a quelli sociali;
– dell’aumento dei decessi da eventi climatici estremi;
– della regressione della dignità della vita in termini di abitabilità e vivibilità dei territori locali per esposizione crescente al pericolo;
– della particolare condizione dell’Italia, la cui temperatura media è già al di sopra di quella globale, con i mari italiani in rapido surriscaldamento;
– del conseguente rischio di fallimento nella custodia del territorio statale in caso di aumento della temperatura media globale oltre le soglie di sicurezza concordate dall’Accordo di Parigi del 2015 (+1,5°C e «ben al di sotto» dei +2°C entro la fine del secolo rispetto ai livelli preindustriali);
– della necessità di programmare e decidere, a tutti i livelli di governo, in un prospettiva di equità non solo intragenerazionale, ma anche e soprattutto intergenerazionale.
Lo Stato, dunque, dimostra di avere coscienza della prevedibilità e prevenibilità dei danni conseguenti all’emergenza climatica in atto, assumendone la probabilità di occorrenza sia statistica che logica, e così riconoscendosi nella demarcazione, tipica dell’ordinamento giuridico italiano sulla responsabilità da danno prevedibile, tra logica “pascaliana”, di calcolo, e “baconiana”, di induzione (cfr. D. Gianti, L’accertamento dell’elemento oggettivo dell’illecito, 2016).
Ma lo Stato, con quelle descrizioni, sembra altresì far proprio “l’interesse delle generazioni future”, indicato dal riformato art. 9 Cost., la tutela della salute come diritto a un ambiente salubre, secondo le scansioni della Corte costituzionale in combinato con l’art. 32 Cost., il diritto alla vita e il rispetto della vita privata e familiare, di cui agli artt. 2 e 8 CEDU, come interpretati dalla Corte di Strasburgo in presenza di rischi sui territori.
Insomma, il PNACC si presenta al pubblico come un manifesto di impegno al rispetto della Costituzione e della CEDU nella gestione del territorio italiano minacciato dall’emergenza climatica.
È questo il suo merito al cospetto dei precedenti atti di pianificazione riguardanti comunque il clima (dal Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima – PNIEC – agli stessi documenti del PNRR), non altrettanto espliciti nel coniugare in modo sistemico e unitario riscaldamento globale, cambiamento climatico locale, custodia del territorio nazionale in nome della vita e della salute umane in proiezione intra- e intergenerazionale.
Ma ne costituisce anche il limite.
Il PNACC, infatti, resta comunque uno strumento di prevenzione secondaria rispetto alla prevenzione primaria dei danni da cambiamento climatico, garantita esclusivamente dalla mitigazione climatica. Senza mitigazione, non ci può essere adattamento, per consequenzialità termodinamica ma anche per vincolatività giuridica, essendo, tale sequenza, sancita dalla fonti del diritto, a partire dalla Convenzione Quadro dell’ONU del 1992 (l’UNFCCC). Lo stesso dicasi in caso di mitigazione insufficiente, perché incapace, ai sensi dell’art. 3 n. 3 dell’UNFCCC, di intervenire sulle cause del cambiamento climatico (presupposto della mitigazione) e non solo sui suoi effetti (presupposto dell’adattamento).
In una parola, non si può leggere il PNACC prescindendo dal principio “speciale” di precauzione climatica (sulla “specialità” della precauzione climatica si v. J. Wiener, Precaution and Climate Change, 2016): principio che contiene in sé anche i doveri di prevenzione e correzione alla fonte, fondati sul criterio n. 8 della Dichiarazione di Rio del 1992: «Al fine di pervenire ad uno sviluppo sostenibile e ad una qualità di vita migliore per tutti i popoli, gli Stati dovranno ridurre ed eliminare i modi di produzione e consumo non sostenibili» (sulla originaria coesistenza di precauzione, prevenzione e correzione alla fonte, si v. F. De Leonardis, Principio di prevenzione e novità normative in materia di rifiuti, 2011).
Ma come si fa a verificare se l’adattamento climatico sia stato impostato secondo la precauzione climatica?
È sempre l’UNFCCC a fornire il quadro di conformità della risposta: gli Stati «should protect the climate system for the benefit of present and future generations of humankind, on the basis of equity and in accordance with their common but differentiated responsibilities and respective capabilities» (art. 3 n. 1).
Ora, nel PNACC non c’è alcuna traccia di utilizzo dell’Equity declinata dalla Convenzione quadro. Ma non solo. Lo stesso ISPRA riconosce l’inesistenza di linee guida per definire tale “Equity” e quantificare le “differentiated responsibilities” dell’Italia (si v. il Sistema Informativo Nazionale Ambientale).
Ne deriva che l’adattamento climatico a beneficio della presente e delle future generazioni è perseguito senza un meccanismo conoscibile e verificabile di metodo di quantificazione di tutte le cause da cui dipende l’efficacia stessa di quell’adattamento. Non a caso, il Parere n. 13/2021 della Commissione VIA-VAS ha già evidenziato questa lacuna, non in linea con le previsioni normative sulla sequenza mitigazione-adattamento.
Inoltre, il PNACC ignora pure l’avvertimento dell’ultimo Rapporto di valutazione dell’IPCC (l’AR6 2021-2022 del Panel Intergovernativo sui Cambiamenti climatici dell’ONU) in tema di c.d. “maladaptation”, ovvero di impostazione delle misure di adattamento prescindendo dalla quantificazione della mitigazione secondo “Equity” e “differentiated responsibilities”.
In questo modo, il PNACC rischia di tradursi nell’ennesimo documento simbolico di lotta insufficiente al degrado del territorio, con conseguenze giuridiche rilevanti.
Prevedere i danni e riconoscerne l’incremento “bad-to-worst”, senza prevenirli in conformità col metodo indicato dalle fonti in materia (a partire dal cit. art. 3 n. 1 dell’UNFCCC), significa esporre Stato ed enti territoriali a responsabilità future, anche ai sensi dell’art. 2051 Cod. civ. (quale “caso fortuito” sarà mai predicabile per danni previamente dichiarati prevedibili e in peggioramento?), oltre che accentuare responsabilità già presenti, dato che lo Stato italiano si trova ormai coinvolto in una serie di contenziosi climatici, sia nazionali (si pensi alla causa “Giudizio Universale”) che internazionali (con i ricorsi CEDU Duarte Agostinho et al. c. Portugal et al., De Conto c. Italy et al., Uricchio c. Italy et al.), dentro i quali si lamenta, tra l’altro, proprio l’assenza di linee guida di quantificazione della mitigazione climatica necessaria a non ledere i diritti umani, tutelati dagli artt. 2 e 8 CEDU.
In un contesto mondiale che converge nel declinare la lotta statale al cambiamento climatico come tutela dei diritti umani (si v. F. Motta, Giudizio Universale, 2023), in linea, tra l’altro, con la recente Risoluzione ONU sul diritto umano universale all’ambiente salubre e sicuro, la prima occasione italiana di mettere in pratica a tutto tondo il nuovo art. 9 Cost. sembra vocata ad essere persa.